STEFANIA SAPORA

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UN CARTEGGIO MONCO: LE LETTERE DI CARABELLESE A CROCE

                                          1908-1931

Un carteggio monco: le lettere di Carabellese a Croce

                                          1908-1931

 

Lettere e cartoline di Pantaleo Carabellese a Benedetto Croce relative agli anni dal 1908 al 1931, rinvenute presso la Fondazione "Biblioteca Benedetto Croce" di Napoli il 25 novembre 1998. Ringrazio sentitamente l'Illustre Fondazione "Biblioteca Benedetto Croce" di Napoli e la Gentilissima Signora Alda Croce per avermi dato la possibilità di accedere alle lettere da Loro custodite,  il Chiarissimo Professore Gennaro Sasso, Direttore dell'Istituto di Studi Storici, per l'ospitalità offertami, e il Dottor Maurizio Tarantino, Direttore della Biblioteca dell'Istituto stesso, per l'aiuto prestatomi nel rinvenimento dalle lettere.

Un carteggio monco: le lettere di Carabellese a Croce

                                          1908-1931

1. Alcune considerazioni generali sulle lettere e sugli anni che le seguiranno 1931-1948: le lettere come documenti

Le lettere di Carabellese a Croce, qui presentate per la prima volta dopo quasi un novantennio dalla prima e oltre un cinquantennio dall'ultima, coprono un arco di più di vent'anni, da subito dopo la Laurea in Filosofia di Carabellese[1], il 1908 - e infatti è proprio la pubblicazione della Tesi che dà adito alla prima cartolina -  alla metà del 1931, anno in cui la filosofia di Carabellese può dirsi già chiaramente delineata nelle sue linee principali, e anno importantissimo per la pubblicazione di quel Il problema teologico come filosofia che può considerarsi segnare uno spartiacque sia tra il Carabellese filosofo e il Carabellese teologo nel senso che si è più volte chiarito, sia, sempre da un punto di vista teoretico, tra Carabellese stesso e i suoi contemporanei.

Le lettere (e cartoline) rinvenute - e non c'è motivo di supporre che ve ne fossero delle altre dirette a Croce - sono solo nove, ma danno comunque un quadro non soltanto dei rapporti che legavano i due pensatori, ma anche dello sviluppo stesso di questi rapporti, del loro cambiare nell'arco dei ventitré anni che coprono.

Si tratta di due cartoline iniziali, cinque lettere centrali e una cartolina finale.

Delle cinque lettere, tre in particolare, la prima,  la quarta e la sesta, contrassegnate dai numeri progressivi ai rinvenimento e di cronologia 4, 7 e 1, colpiscono, perché in esse si ritrovano gli echi di un discorso che evidentemente doveva avvenire molto più approfonditamente  anche di persona fra Carabellese e Croce,  probabilmente prima a Napoli e poi a Roma, dove Croce si recava spesso, nonché perché ci restituiscono gli echi del dibattito filosofico più generale di quegli anni cui Carabellese e Croce partecipavano attivamente. Ma queste tre lettere risultano interessanti anche, in particolare una, la n. 7, perché in essa Carabellese, oltrepassando i limiti del rapporto con un illustre collega di pensiero, emerge con tutta la sua dirompente carica umana, al tempo stesso orgogliosa e ferita. Tutte e tre comunque risultano più specificatamente interessanti da un punto di vista strettamente filosofico poiché in esse Carabellese discute con Croce di problemi filosofici che erano al centro dei suoi interessi, facendo dunque implicito riferimento a teorizzazioni dell'uno e dell'altro espresse in pubblicazioni o dibattute in contesti scientifici o in conversazioni private. Ma su questo ci soffermeremo a suo tempo.

Nel complesso le lettere segnano, come indici di un percorso non soltanto di pensiero, il passaggio da un Carabellese neolaureato e incerto a un Carabellese maturo e certo del proprio pensiero anche nella sua solitudine, non solo accettata, ma anche esibita negli scritti a Croce (penso all'ultima cartolina del 1931 e al riferimento ai "puri folli"), e anche altrove nelle sue opere.

Gli anni che seguiranno queste lettere saranno invece gli anni della progressiva affermazione del pensiero di Carabellese e del suo ontologismo critico nell'ambito del consesso filosofico italiano: si ricordi in primo luogo come significativo di tale affermazione il Secondo Tema "La Critica di fronte all'ontologismo" del XIV Congresso Nazionale di Filosofia del 1940, in cui grande spazio venne dato, tra le altre relazioni, da pensatori quali Arturo Beccari, Gustavo Bontadini, Stefano Mazzilli, Sofia Vanni Rovighi e, fuori Tema, da Augusto Guzzo, alla discussione dell'ontologismo carabellesiano[2], peraltro presentato in questa sede da Carabellese stesso nella sua derivazione e continuazione della critica. E questi saranno anche gli anni in cui egli raccoglierà intorno a sé non soltanto all'Università di Roma - in cui si ere insediato come ordinario dopo il concorso universitario del 1929 prima, nel 1930, sulla Cattedra di Storia della Filosofia, e poi, alla morte di Gentile nel 1944, sulla Cattedra da questi precedentemente tenuta di Filosofia Teoretica (che ricoprì sino alla morte), conservando nel contempo come incaricato la Cattedra di Storia della Filosofia sino al 1946 -  ma anche nella sua stessa casa di Roma, un cenacolo di giovani allievi, tra cui possiamo ricordare Giuseppe Semerari, Rosario Assunto, Giuseppe Pinto, Teodorico Moretti Costanzi, che però aveva già una sua autonoma fisionomia da studioso, Ornella Nobile Ventura e Raniero Sabarini, che curerà anche nel '53 una ristampa postuma del Disegno storico della filosofia italiana come oggettiva riflessione pura. Invece all'Università di Palermo, dove già nel 1922 aveva vinto come straordinario la Cattedra di Filosofia Teoretica succedendo a Cosmo Guastella, e dove rimase fino al 1925[3], ebbe come allievi Anna Maria Rocchi, poi divenuta, influenzata dagli studi storici del maestro in vista delle sue elaborazioni teoretiche, storica della filosofia, e Vito Fazio Allmayer, poi divenuto anche Direttore della Collana "Quaderni di filosofia e storia" della Trimarchi di Palermo, nella quale Carabellese pubblicò Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1780-1801) nel 1929, dagli appunti rielaborati dagli allievi del corso universitario palermitano dell'A.A. 1924-23.

Ma fino al '40, e successivamente al 1931, data dell'ultima lettera a Croce, il pensiero di Carabellese, proprio a partire dalla pubblicazione de Il problema teologico come filosofia, e quindi di un itinerario di pensiero ormai decisamente orientato secondo una specifica concezione della filosofia e del suo oggetto, che apriva una nuova strada all'idealismo, quella critico-teologica, nel contempo precisando i confini con la teologia neo-scolastica, era stato oggetto tra gli altri delle riflessioni, sebbene spesso su fronti di pensiero diversi, e, quando pubblicate su riviste, su riviste prestigiose, di Nicola Abbagnano[4], di Antonio Banfi[5], di Giovanni Emanuele Barié[6], di Carlo Mazzantini [7] e di Ugo Spirito[8] per quanto riguardava in particolare quest'opera e altre, e di Ernesto Bonaiuti[9], di Pietro Cristiano Drago[10], Guido Calogero[11], Michele Federico Sciacca[12], Cesare Luporini[13], di Armando Carlini[14], Mario Dal Pra[15], Gustavo Bontadini[16], Enzo Paci[17], Calogero Angelo Sacheli[18], ancora di Augusto Guzzo[19]. Luigi Pareyson[20].

Dopo il 1940 - che può essere considerato una sorta di affermazione pubblica, per i motivi che abbiamo messo in luce più su e nelle brevi note di storia della critica dell'"Introduzione, dell'interesse che il pensiero carabellesiano suscitava - e fino alla morte di Carabellese avvenuta a Genova nel 1948[21], ritroviamo ancora l'attenzione, tra gli altri, ai Giovanni Gentile[22], del già citato R. Lombardi, col quale, ricordiamo, Carabellese ebbe un'accesa polemica dall'inizio del '41, ancora di Michele Federico Sciacca[23], Nicola Abbagnano[24], Pietro Cristiano Drago[25], Teodorico Moretti Costanzi[26], Luigi Pareyson[27], Calogero Angelo Sacheli[28], Guido Calogero[29] e quindi di Giuseppe Mattai[30], e di nuovo di Benedetto Croce[31] - il cui rapporto con Carabellese è appunto oggetto  di quest'appendice - dopo le prime riflessioni risalenti agli anni 1922-1930, una delle quali ripubblicata nel 1934 e poi nel 1963[32].

Nell'anno della morte,  ritroviamo a scrivere ancora su di lui Carlo Antoni[33] e  la già citata Ornella Nobile Ventura[34], mentre Luca Pignato lo inserisce nell'appendice su "La filosofia del XX secolo" alla Storia della filosofia di Wilhelm Windelband[35], Emilio Pignoloni affronta  a più riprese un'analisi del suo ontologismo critico sulla "Rivista Rosminiana"[36] e E. Riva recensisce uno dei suoi ultimi scritti[37].

Dopo la morte - avvenuta a Genova, dove Carabellese era in vacanza, il 19 settembre 1948, prima che potessero vedere la luce molti suoi ultimi scritti[38], e appena quattro giorni dopo  la stampa della III edizione della Critica del concreto nella collana delle sue "Opere Complete" presso la Sansoni di Firenze, che intanto gli aveva comunicato la sua sospensione -, iniziano a scrivere del maestro Rosario Assunto[39], Giuseppe Pinto[40] e Vito Fazio Allmayer[41], tutti a scopo commemorativo, così come valore commemorativo hanno tre scritti di un altro suo allievo, Giuseppe Semerari[42],  di Luciano Anceschi[43],  ancora di Carlo Antoni[44] e di Guido Calogero[45], di Magda Da Passano[46], che curerà il citato volume collettaneo Laicismo e non laicismo del 1955, in cui Carabellese figura con uno dei suoi ultimi scritti, di Ugo Spirito, che lo ricorderà anche nel palazzo della Provincia a Bari sotto il patrocinio della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di quella città[47], dell'allievo Teodorico Moretti Costanzi[48], che terrà un discorso commemorativo nel Teatro La Fenice di Molfetta il 19 dicembre 1949, e infine di Antonio Aliotta, come Carabellese socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei[49].

Questo breve exscursus, che completa le note di storia della critica dell'"Introduzione", su coloro che hanno dedicato le loro riflessioni al pensiero di Carabellese tra gli anni 1931-1940, e ancora, considerando il 1930 come definitiva affermazione del pensiero di Carabellese, tra gli anni 1940-1949, considerando le commemorazioni - excursus che esclude quindi le linee di ricerca che dal pensiero di Carabellese hanno preso le mosse, poiché sono state già tracciate nell'"Introduzione" - si è reso necessario a nostro avviso per rendere esplicito il progressivo affermarsi del  pensiero di Carabellese già a partire dal 1931, anno in cui cessano i rapporti epistolari con Croce.

Questa nostra scelta mostra cioè secondo noi per un verso che il pensiero di Carabellese non può essere considerato minore nell'ambito del dibattito a lui contemporaneo sui problemi, gli oggetti e lo statuto della filosofia come scienza, per l'altro verso che rimane aperto, prima di uno studio comparato sul pensiero dei due filosofi, l'interrogativo sui motivi, certamente teoretici, che spinsero Croce da una parte, e Carabellese dall'altra, dopo un primo periodo di  reciproco apprezzamento delle rispettive filosofie, a interrompere i loro rapporti, e, da parte di Croce, ad attaccare pubblicamente Carabellese tacciando la sua filosofia di inutilità, per cui nella critica meno accorta si è diffuso il luogo comune di un contrasto insanabile tra i due pensieri.

A nostro parere invece la questione è molto più sfumata e complessa, ed è necessario rifarsi da un lato al fatto, emergente dalle lettere, che tali pensieri divergessero in realtà soltanto nella fase finale del rapporto, che ebbe una progressione che non può essere ignorata, e nello stesso tempo considerando concretamente, proprio anche a partire dalle lettere, la possibilità che questa divergenza riguardasse soltanto alcuni elementi che, per quanto fondamentali, non inficiavano un comune orizzonte teoretico di fondo. Per dimostrare ciò, lo ripetiamo, è necessario un confronto diretto sia sulle lettere che sulle due filosofie nei punti che emergono dalla discussione. Dall'altro lato crediamo, essendo questa degenerazione dei rapporti dimostrabile a partire dalle lettere come progressiva, che anzi non soltanto l'inizio di tali rapporti sia stato improntato, se non a una reciproca stima, sicuramente a un atteggiamento interlocutorio di Croce verso il giovane filosofo e a un atteggiamento di deferente stima di Carabellese, ma che anche nell'ultima fase, quando ormai tali rapporti epistolari si avviavano alla conclusione, in realtà la degenerazione riguardasse gli intellettuali ma non gli uomini, perché anzi dalle lettere di Carabellese emerge semmai il rammarico per un'occasione perduta rispetto a un rinnovamento della filosofia - quindi per un fine ideale e alto e non personale e transeunte, fine nel quale gli uomini passano ma il cammino della filosofia va e deve andare avanti passando sopra i loro rapporti e le asperità dei loro pensieri - e dunque ancora una volta la stima per Croce.

E' per questo che queste lettere, pur nella loro pochezza numerica, possono risultare utili al chiarimento di questi punti, e costituire una base oggettiva - perché documenti, sebbene documenti "minori" - da cui partire per uno studio non più soltanto biografico-epistolare, ma anche teoretico sulle pubblicazioni che Croce da una parte e Carabellese dall'altra andavano nel frattempo scrivendo, e ciò proprio a partire dal fatto che in esse lettere, soprattutto le ultime, emergono in modo direi essenziale i punti di maggiore attrito teoretico tra i due pensatori, che altrimenti negli scritti teoretici pubblicati potrebbero apparire dispersi nel complesso di una trattazione non a questo scopo concepita. Utili pertanto le lettere lo sono, oltre che per l'interesse che rivestono sul piano storico e umano, perché danno così agli studiosi la possibilità di cogliere i veri motivi, veri perché da loro stessi detti o sottintesi, del distacco tra i due pensatori. Da qui è possibile partire con una maggiore cognizione di causa per un confronto a questo punto esclusivamente teoretico, ossia basato sulle opere edite, tra il pensiero di Carabellese e quello di Croce.

Ma prima di analizzare le lettere, vorremmo dare ancora alcuni cenni di carattere storico-politico-ideologico utili a comprendere meglio il contesto in cui esse si inseriscono, e dunque anche, al di là degli scopi teoretici che le ponevano in essere, lo sfondo e i problemi più generali che agitavano la società italiana di quegli anni che, sebbene apparentemente fuori dalle lettere, pure influivano inevitabilmente nel pensiero e nell'azione, se non nell'animo, dei due pensatori nel momento in cui essi si scrivevano, sino al punto da emergere in modo da stravolgere la stessa vita pratica, come nel caso nella cartolina dal fronte spedita da Carabellese durante la Grande Guerra. All'interno di questo quadro storico più generale, schizzato necessariamente in pochi cenni, situeremo alcune contemporanee tappe bio-bibliografiche di Carabellese anche per comprenderne meglio gli interessi teoretici e l'azione pratica.

Ma c'è da dire ancora, prima, che gli anni 1908-1931, in cui le lettere si situano, sona anni densi di avvenimenti e di trasformazioni sul piano storico-politico-sociale italiano e non solo italiano: l'età giolittiana, la Grande Guerra, l'avvento del fascismo[50] .

2. Alcuni cenni sul contesto storico-politico italiano di quegli anni in rapporto alla biografia, alla bibliografia e al pensiero di Carabellese a partire dalle lettere

2a) L'età giolittiana

 

Nel 1908, data della prima cartolina a Croce, quando Carabellese è un giovane uomo trentunenne, com'è noto l'Italia è dominata politicamente dalla figura dello statista Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1903 al 1914, e autore di quella "svolta liberale" che segnò profondamente la vita italiana non soltanto politica - interna ed estera -, ma anche economica, culturale, sociale, intellettuale, tanto che questo decennio che giunge sino alle soglie della prima guerra mondiale rientra in quella che è stata definita età giolittiana.

Il progetto di Giolitti, che aveva radici nella tradizione liberale progressista[51] e illuminata dell'Ottocento, era quello di avviare ulteriormente la complessa realtà italiana che stava sorgendo con lo sviluppo industriale conducendo l'Italia verso la nascita di uno Stato moderno, in grado anche di presentarsi in politica estera come nazione competitiva nei confronti degli altri Stati europei e di ricoprire così un ruolo non marginale rispetto ad essi. Ma soprattutto tale progetto conseguiva una politica interna di razionalizzazione e controllo statale che si fondava sul modello ideale di uno Stato etico da un lato vicino ai bisogni della società civile e ad essi rispondente, dall'altro in grado di mediarne i conflitti non solo sociali ma anche politico-ideologici con un'azione che si proponeva di far penetrare in modo più profondo e pregnante l'idea stessa dello Stato in tutti gli ambiti e della società civile, e della vita politico-istituzionale dello Stato, e della coscienza dei singoli, mediando tra le forze contrastanti e cercando, nell'assorbirle nella vita dello Stato e nello smussarne gli estremismi sia ideologici che pratici, di farle collaborare a questa costruzione ideale: l'allargamento dell'idea dello Stato a più vasti strati della popolazione  e nello  stesso tempo dunque anche delle basi istituzionali dello Stato stesso[52].

Questo "inizio di un nuovo periodo storico", come Giolitti stesso definì il momento al cui scopo operava, fu nei fini che si sono detti attuato in politica interna, soprattutto negli anni 1911-12, con la costruzione ex novo di uno stato sociale sul modello socialdemocratico tedesco attraverso una legislazione sociale e delle riforme che miravano a estendere la competenza delle sfere dello Stato, creandone anche delle nuove, e ad avvicinare il cittadino allo Stato: esemplare in quest'ultimo caso la riforma elettorale del '12 che di fatto estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini di sesso maschile al di sopra dei ventuno anni di età (dei trenta per gli analfabeti), il suffragio universale.

Nel contempo, in sede parlamentare, Giolitti mirava ad avvicinare alle istituzioni parlamentari i due poli opposti dell'ala estremista del partito socialista e dell'area conservatrice del movimento cattolico per attuare i suoi disegni riformistici e liberali sia contro le tendenze rivoluzionario sia contro quelle reazionarie, e vi riusciva con lo scopo di separarli dalle ali moderate e inglobare queste ultime nel sistema costituzionale e parlamentare[53]. Così isolò tra i socialisti l'ala estremista dei rivoluzionari e diede spazio alla linea riformista di Filippo Turati (ma nel Congresso di Reggio Emilia del 1912 la situazione si capovolse ad opera del leader della sinistra rivoluzionaria poi divenuto direttore dell'"Avanti!", il giovane Benito Mussolini[54], tanto che l'ala più vicina a Giolitti fu espulsa dal partito fondando il Partito socialista riformista ).

Per quanto riguarda i cattolici, Pio X, salito al soglio pontificio nel 1903 e rimastovi sino al 1914, avviò un pontificato di intransigenza dottrinaria e di lontananza dai nuovi fermenti di religiosità pura, di ritorno al messaggio di Cristo  e di partecipazione alla vita della Chiesa e alla vita sociale e politica che agitavano non solo il clero più giovane ma anche la società cattolica, sino a emanare nel 1907 l'enciclica Pascendi nella quale condannava appunto queste esigenze, incarnate dal movimento modernista[55], di cui anche Carabellese faceva parte[56] almeno tra il 1910 e il 1915 e poi, in direzione più nettamente politica, dopo la seconda guerra mondiale, nel 1944, e della cui condanna da parte di Pio X fu vittima illustre anche il teologo Ernesto Bonaiuti, amico di Carabellese[57]. Giolitti mirava alla partecipazione dei cattolici moderati alla vita politica non solo per i motivi che si sono detti, ma anche perché, nella loro trasformazione da movimento in partito, o almeno nella loro partecipazione alla vita parlamentare, avrebbero potuto avere una funzione di contrappeso  nei confronti dei socialisti, funzione che si concretizzò nelle elezioni del 1909 con il non expedit, ossia la partecipazione dei candidati cattolici alle elezioni con la formula dei "cattolici deputati". Il disegno giolittiano era realizzato anche in questo campo: il ventaglio parlamentare era costituito da forze moderate in grado di sostenere il governo liberale nella sua politica riformista ispirata al supremo valore dello Stato.

In questo clima di sostanziale tranquillità sociale e politica, troviamo un Carabellese giovane che, dal 1902 al 1910, già laureato in Lettere a Napoli[58], mentre studiava e poi si laureava nel 1905, per la seconda volta, in Filosofia a Roma[59], riprese l'insegnamento delle materie letterarie (italiano, latino e greco) già sperimentato nel ginnasio parificato del Pontificio Seminario Regionale di Molfetta, da cui proveniva come seminarista, questa volta coma incaricato o supplente nei ginnasi del Regno d'Italia ad Albano Laziale, da cui infatti proviene la prima cartolina del 1908 a Croce[60], L'Aquila, Maddaloni, sinché non vince, nello stesso 1910, primo in graduatoria, il concorso nazionale di filosofia per le scuole medie superiori e ha la cattedra come docente di ruolo nel Liceo classico di La Spezia, dove scrive la sua prima opera teoretica, L'Essere e il problema religioso, dedicata al pensiero del suo primo maestro Varisco, e contemporaneamente pubblica anche La coscienza morale, edita proprio a La Spezia nello stesso 1914 e a quella legata, e dove rimarrà sino a quando non verrà richiamato alle armi per il 28 maggio del 1915, data dell'intervento italiano nella Grande Guerra. Questo ruolo di docente nelle scuole del Regno, vissuto con impegno, spiega il suo interesse per i problemi pedagogici ed educativi, che si espresse anche in alcune pubblicazioni di quegli anni[61], che testimoniano del coinvolgimento nei problemi della scuola non limitato a esperienza personale umana ma elevato a riflessione, influenzata dalle dottrine spenceriane, sui sistemi educativi, sui loro metodi didattico-valutativi, sulla loro importanza per la formazione e l'educazione dell'individuo, e dunque sul loro collegamento con la società. Questo interesse carabellesiano per i problemi della scuola, e questa comprensione della sua funzione nella formazione del cittadino continueranno negli anni, da un lato, sul piano pratico, con la prosecuzione della carriera scolastica sino a diventare negli Anni Venti prima preside e poi ispettore ministeriale, dall'altro, sul piano teorico, con la riflessione sui problemi pedagogici[62], che rinsaldò, su questo piano, i suoi rapporti teorici con Gentile iniziati nel 1909 sul piano filosofico con la recensione gentiliana alla Tesi di Laurea in Filosofia pubblicata da Carabellese[63], e poi con la susseguente discussione sempre intorno alla teoria della percezione intellettiva rosminiana[64].

Ma la pratica nella scuola e la riflessione sui suoi problemi più generali in rapporto alla società non allontanarono Carabellese dalla partecipazione attiva al dibattito filosofico di quegli anni (penso al IV Congresso Internazionale di Filosofia del 1911 a Bologna) e dalla meditazione filosofica, che si espresse in questi anni dell'età giolittiana, oltre che in scritti che potremmo definire di filosofia della religione, in quei saggi che poi nel loro insieme precedettero quelli che furono da lui denominati del "periodo precritico"[65].

Torniamo ora all'orizzonte storico-politico italiano che avvolgeva l'attività di Carabellese in questi anni. Alla politica giolittiana di equilibrio si opposero non pochi intellettuali di grande rilievo e di diverso orientamento politico, soprattutto dal Mezzogiorno, che rimaneva in questo quadro la "zona d'ombra" del disegno giolittiano, sostanzialmente escluso dal progresso del Paese[66], con i suoi secolari problemi di potere della grande proprietà terriera e con la nuova politica doganale protezionistica nei confronti del Nord industriale, che acuivano la questione meridionale con moti sociali repressi, giungendo a far emigrare nel solo 1913 quasi un milione di persone. Gaetano Salvemini com'è noto era uno dei più illustri tra questi intellettuali[67], e con lui, fondatore a Firenze nel 1911, alla sua uscita dal partito socialista, e Direttore del foglio settimanale "L'Unità"[68] sino alla sua chiusura nel 1919, collaborò anche Carabellese[69] dal 1913 alla fine della pubblicazione.

"Benedetto Croce fu invece uno dei pochi intellettuali italiani che sostennero Giolitti", dal momento che per lui né la repressione poliziesca dei ceti sociali emergenti e delle loro esigenze politico-economiche, né l'utopistico programma rivoluzionario o l'ostruzionismo parlamentare dei socialisti potevano risolvere in modo positivo le spinte giustificate e inarrestabili che venivano dalla società civile e che però non potevano consentirsi espresse al di fuori delle leggi dello Stato: il metodo liberale invece era il solo "[...] in grado di soddisfare le esigenze legittime che quelle due parti estreme [i reazionari nel chiedere la repressione dei moti di piazza in nome dell'ordine sociale e i socialisti nel propagandare la rivoluzione in nome del riscatto politico-sociale del proletariato] ponevano senza recare la possibilità di porle in atto; perché, da un lato, esso manteneva l'ordine sociale e l'autorità dello stato, e dall'altro accoglieva i nuovi bisogni col lasciare libero campo alle competizioni economiche [...] e con l'attendere f provvidenze sociali. [...] il Giolitti [...] uomo di molta accortezza e di grande sapienza parlamentare, [...] ma non meno di seria devozione alla patria, di vigoroso sentimento dello Stato, di profonda perizia amministrativa [...]. A lui, di animo popolare, erano connaturate la sollecitudine per le sofferenze e per le necessità delle classi non abbienti e l'avversione all'egoismo dei ricchi e dei plutocrati, che allo Stato sogliono chiedere unicamente la garanzia dei propri averi e del proprio comodo. Un'altra sollecitudine lo muoveva: il pensiero che la classa politica italiana fosse troppo esigua di numero [...], e che perciò convenisse richiamare via via nuovi strati sociali ai pubblici affari. [...] col Giolitti s'iniziò un nuovo periodo di <<trasformismo>>: il che volentieri consentiremmo, per aver noi tolto a questa parola il significato peggiorativo col quale sorse, e perché ogni volta che l'antinomia di conservazione e rivoluzione è superata e si attenua e quasi sparisce, succede appunto un avvicinamento degli estremi e una trasformazione unificatrice dei loro ideali."[70]

In questo quadro di delicati equilibri politico-ideologici e socio-economici si inserisce la politica coloniale giolittiana di aggressione alla Libia dopo l'ultimatum del 1919 alla Turchia, che alcuni storici considerano una svolta reazionaria di Giolitti rispetto al suo programma di democratizzazione liberale, comunque un allineamento dell'Italia e quella politica colonialista europea che è stata definita l'età degli imperialismi: i dibattiti nell'opinione pubblica, le speranze espansionistiche e di dare uno sbocco all'emorragia dell'emigrazione, il disegno giolittiano di legare il capitale economico-industriale conservatore attraverso i proventi derivanti prima dalla guerra e poi dall'occupazione del territorio e dallo sfruttamento delle sue materie prime fallirono di fronte alla resistenza tenace della popolazione invasa e alle spese ingenti che riportarono dopo dieci anni in deficit il bilancio dello Stato, cosicché si arrivò l'11 ottobre del 1912 alla pace di Losanna, che concedeva all'Italia la sovranità della Libia, divisa in Tripolitania e Cirenaica, e le lasciava il controllo sul Dodecaneso e sul suo capoluogo, Rodi.

Le ripercussioni negative sia di carattere economico che politico non si fecero attendere, decretando l'inizio del declino della politica giolittiana e acuendo il divario tra le ale estremiste del Parlamento, cui Giolitti rimediò con successo stringendo con il Presidente dell'"Unione elettorale cattolica", Ottorino Gentiloni, il "Patto Gentiloni" del 1913, in vista delle elezioni dello stesso anno, in cui si pattuì che i cattolici avrebbero appoggiato il governo in cambio di una politica favorevole alla Chiesa.

Ma, al di là degli effetti negativi, e degli effetti positivi che pure ci furono, la guerra di Libia significò per l'Italia dal punto di vista culturale l'occasione - in senso non di casualità colta ma di evento in procinto di verificarsi - di un dibattito a livello nazionale[71] sull'opportunità di una guerra[72] nell'opinione pubblica[73], dibattito che da un lato ne sancì, di questa opinione, il definitivo sviluppo in senso moderno come ulteriore cemento per la formazione di una coscienza nazionale, dall'altro anticipava di soli pochi anni e in forma ridotta, ma paurosamente vicina anche nei modi, il successivo dibattito tra interventisti e neutralisti, ben più complesso e foriero di sventura, sulla Grande Guerra. Infatti già la guerra di Libia, al di là degli influssi del panorama internazionale, non nasceva in Italia dal nulla. Sin  dal 1903 - anno in cui furono fondate a Firenze da Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Enrico Corradini  e altri le prime riviste nazionaliste, "Il Regno" e "Leonardo", con lo scopo di risvegliare nella borghesia la coscienza di classe contro quella proletaria e nell'identificazione con la Patria, e di connettere l'idea della politica imperialistica dello Stato con lo sviluppo del capitalismo e il superamento sia dei conflitti sociali sia delle crisi economiche -, in Italia si agitavano gruppi di opinione eterogenei e scollegati tra loro per ideologia e per ragioni, ma tutti concordi nell'opportunità di una guerra: futuristi, nazionalisti[74] e imperialisti, industriali e banchieri, reazionari e monarchici, le cui ragioni spaziavano dal culto della bella guerra alla volontà di affermare la nazione e di espanderla, dalla ricerca di nuovi mercati e materie prime allo sviluppo delle industrie legate alla guerra e alla ricostruzione e dei prestiti monetari, con uno sganciamento dai capitali finanziari stranieri, dal vagheggiamento di una politica autoritaria e conservatrice dello Stato che esprimeva l'insoddisfazione per la politica liberal-democratica giolittiana a quello di una ripresa della monarchia declinante dopo le speranze aperte dalla salita al trono del giovane Vittorio Emanuele III nel 1909. Nel 1910 era nata per tutti questi specifici scopi l'Associazione Nazionalistica Italiana, "un vero e proprio partito"[75], con attività propagandistica.

L'opinione pubblica che tra il 1914 e il 1915 si trovò di fronte l'eventualità di una nuova guerra, di ben altra portata, non era quindi impreparata al dibattito che ne scaturì, e che risultò, come vedremo, molto complesso, tanto da condurre, com'è noto, a un intervento esterno al Parlamento, quello della Corona, per risolvere la questione.

 

2b) La Prima Guerra Mondiale in Italia: 1915-1918

Espletato il servizio militare di leva a Napoli già prima di iscriversi alla Facoltà di Lettere di questa città, cioè subito dopo il Liceo nel Pontificio Seminario Regionale di Molfetta, sua città natale, Carabellese, come si legge nella seconda cartolina, si trovò ad essere richiamato alle armi come Ufficiale di Complemento il 24 maggio 1915[76], cioè allo scoppio della guerra in Italia, a trentotto anni, presso il 33o Reggimento M. T., 509o Battaglione, 9a Compagnia, 5o Corpo d'Armata, col grado di Tenente, prima sul fronte di battaglia e poi  in zona di guerra, per complessive quattro campagne durate in tutto quattro anni, combattendo dunque tutta intera la guerra dal 1915 al 1918, e guadagnandosi sul campo il grado di Capitano di Fanteria, col quale fu congedato, sempre poi, per anzianità, raggiunse il grado di Tenente Colonnello: la prima guerra mondiale  era cominciata.

Ad essa Carabellese probabilmente partecipò non controvoglia, seppure dove' interrompere l'insegnamento liceale a La Spezia, dal momento che più volte egli nelle sue opere ha fatto cenno ai suoi ideali mazziniani e risorgimentali se non dedicando intere opere al senso del dovere verso la Patria[77], e dal momento che questi motivi gi aggiungevano alla vicinanza al socialismo democratico di Salvemini, interventista, sul cui settimanale, come abbiamo ricordato, egli più volte scrisse. Questi motivi si ritrovano nelle ragioni di una parte degli interventisti italiani, il cui panorama, come quello dei neutralisti, risultava, come tra poco vedremo, alquanto variegato, tanto da sconvolgere il normale assetto delle divisioni politico-ideologiche tradizionali, presentandosi secondo schieramenti trasversali. E' quindi da accertare, e rimane come punto interrogativo, se Carabellese partecipò alla guerra solo perché ad essa richiamato, o se invece si arruolò, se non  come volontario, almeno con spirito patriottico. Mentre certo appare il senso di sconfitta per la guerra vinta dal punto di vista politico-militare ma, come per molti intellettuali, perduta dal punto di vista ideale[78]

Sarebbe troppo complesso qui in pochi cenni, oltre che non pertinente ai fini della nostra ricerca ed esulante dalle nostre competenze, fornire anche solo uno schizzo della Grande Guerra, che d'altronde nelle sue linee essenziali è a tutti nota. Ci atterremo perciò soltanto, come già per l'età giolittiana, a ciò che può riguardare una migliore comprensione del contesto in cui si situano le lettere di Carabellese a Croce, nonché la stessa bio-bibliografia di Carabellese, tralasciando perciò tutto ciò che non concorre alla comprensione del quadro politico-sociale italiano nel quale Carabellese viveva, e agiva, anche attraverso le lettere e gli scritti di questo periodo. 

Quando - nei mesi estivi successivi all'attentato del 28 giugno 1914 all'erede al trono Arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo e alla consorte a Sarajevo, dichiarata guerra l'Impero Austro-ungarico di Francesco Giuseppe alla Serbia indipendente con l'ultimatum del 23 luglio e l'attacco successivo per conquistarla, allineatosi l'Impero Germanico di Guglielmo II Re di Prussia[79] all'Austria con la dichiarazione di guerra alla Russia il primo agosto e alla Francia il tre, rimaste momentaneamente neutrali l'Inghilterra dal lato della Triplice Intesa a fianco della Francia e della Russia, e l'Italia dal lato della Triplice Alleanza a fianco dell'Impero tedesco e dell'Impero Austro-ungarico - in Italia sia al livello governativo e parlamentare sia al livello sociale ed economico si pose il problema della neutralità[80], dichiarata formalmente il 2 agosto 1914, il Paese si divise tra neutralisti e interventisti. Può essere considerato questo il primo segno della nascita di una moderna opinione pubblica, per un verso soggetta all'influenza degli organi di comunicazione di massa, per l'altro in grado anche di influenzare, almeno apparentemente, le scelte politiche e quelle della Corona, nonché il senso di un  allargamento della coscienza del singolo a coscienza nazionale: la questione ora non riguardava un Paese di là dal mare da colonizzare come la Libia, e dunque solo i ceti che ne avrebbero tratto vantaggi economici e occupazionali o le frange che segnavano un Impero coloniale; ora il problema era vicino, e coinvolgeva anche motivi ideali di diversa matrice.

Agli interventisti, già ampiamente organizzati secondo quanto detto a proposito della guerra di Libia, si aggiunse l'appoggio incondizionato della stampa in modo da influenzare l'opinione pubblica: i ceti industriali e finanziari profusero una quantità di danaro per riorganizzare vecchie testate o per fondarne delle nuove o ancora per addomesticarne delle altre, nell'intento che la stampa di qualunque precedente orientamento politico convergesse tutta nell'apologia della guerra e nella necessità dell'intervento. Ma alle ragioni economiche e di utilità dei ceti imprenditoriali e industriali, che peraltro erano comuni in tutta Europa, si affiancarono le ragioni ideali degli irredentisti, dei socialisti democratici come Salvemini[81],  dei socialisti riformisti come Bussolati, dei repubblicani: i primi, in nome degli ideali della tradizione mazziniani e risorgimentale, rivendicavano di fronte all'Impero Austro-ungarico come italiane sia Trento e Trieste che l'Istria e la Dalmazia, gli altri vedevano nella guerra la possibilità che gli ideali della democrazia con la fine degli Imperi e delle monarchie e della libertà dallo straniero   si realizzassero non solo in Italia, ma anche nei Paesi slavi e in Europa. A questa linea interventista appartenevano anche i socialisti rivoluzionari come Mussolini, che, espulso dal partito alla fine del 1914, fondò il "Fascio autonomo di azione rivoluzionaria". Le manifestazioni di piazza interventiste erano seguite da azioni squadristiche contro i neutralisti.

Abbiamo già implicitamente ipotizzato, a partire dagli ideali della tradizione risorgimentale e mazziniana e del dovere verso la Patria a cui Carabellese si ispirava,  a partire della sua collaborazione al foglio settimanale che esprimeva il socialismo democratico del suo Direttore Salvemini, e a partire dagli ideali di difesa della libertà dei popoli e di progresso verso forme statuali moderne connesse a un moderato nazionalismo che animavano una parte degli intellettuali italiani dell'epoca, l'adesione di Carabellese al campo vario e complesso degli interventisti.

Sul fronte del neutralismo si ritrovavano invece, in ambito istituzionale,  gran parte del Parlamento, tra qui Giolitti[82] e i suoi sostenitori con la tesi del "parecchio", i socialisti moderati di Turati e la maggior parte dei cattolici, nella convinzione per un verso di preservare le istituzioni, il Paese e la pace, per l'altro di poter comunque contribuire all'economia nazionale rimanendo equidistanti dai due blocchi in guerra, e quindi in grado di fornire  ad ambedue il necessario per la conduzione della guerra. Sempre sul piano istituzionale invece,  il governo guidato da Salandra, liberale conservatore, si andava orientando per l'intervento al fine di scongiurare la rivoluzione sociale dopo la "settimana rossa" del giugno del '14. Sul piano sociale, ai cattolici che seguivano l'appello alla pace e la condanna della guerra di papa Benedetto XV si affiancava il neutralismo del proletariato operaio e dei contadini,  quello dei socialisti fedeli all'internazionalismo pacifista, e quello       

di gran parte degli intellettuali[83].


La situazione di stallo venne sbloccata, dopo il fallimento diplomatico delle trattative segrete con l'Austria sulle terre irredente,  dal successo delle medesime trattative, peraltro ancor più vantaggiose in termini territoriali, con l'Inghilterra portavoce dei Paesi dell'Intesa, che condussero il Ministro degli Esteri Sonnino al patto di Londra del 26 aprile del 1915[84]: l'Italia si allineò all'Intesa impegnandosi a scendere in guerra entro un mese  contro l'Austria e la Germania. Di fronte al neutralismo del Parlamento[85] e  all'interventismo dell'opinione pubblica più visibile e organizzata, intervenne la Corona, che, appellandosi alla volontà popolare, costrinse il Parlamento ad  accettare l'impegno diplomatico all'intervento e a  demandare al governo pieni poteri per non rischiare uno scontro con il Re, di fatto piegando il Parlamento stesso ad un'autorità ad esso estranea e formalmente super partes: la guerra contro l'Impero Austro-ungarico iniziava il 24 maggio del 1915, come "completamento dell'opera del Risorgimento e ultima guerra d'indipendenza".

Sono note le  carenze sul piano degli armamenti, dell'organizzazione e della preparazione tecnica, e degli approvvigionamenti del nostro esercito, che pure combattè strenuamente lasciando sul campo seicentomila soldati, stremati anche dalla guerra di logoramento voluta dal Generale Luigi Cadorna. E' nota altresì la Strafexpedition voluta dagli austriaci il 15 maggio 1916 sugli Altopiani verso Vicenza, che portò alla controffensiva italiana sull'Isonzo e, sul piano politico, alle dimissioni di Salandra che condussero il nuovo governo a dichiarare guerra all'Impero  Germanico il 25 agosto. Sono note anche le ripercussioni che sia sul piano civile sia sul piano economico sia sul piano politico la guerra portò: sul  piano della popolazione civile, decimazioni, fame, povertà, esodi dalle città e  dalle zone di guerra in direzione delle campagne e delle coste, stravolgimento dei rapporti affettivi e della vita sociale; sul piano economico inflazione, economia di guerra, grandi arricchimenti di quei ceti che contribuivano o in termini produttivi o in termini finanziari a sostenere quell'economia; sul piano infine dell'azione dello Stato, una generale svolta da un sistema improntato alle libertà costituzionali e ai principi liberali a un sistema autoritario di controllo su tutti i settori della vita sociale in vista dello sforzo della guerre in cui il potere esecutivo era di gran lunga preponderante sugli altri aspetti della vita dello Stato, con interruzione  delle libertà di stampa, di comunicazione  e di associazione, perfino di segretezza epistolare, attraverso la censura, con controllo della vita economica attraverso la  massiccia introduzione del proletariato operaio nell'industria bellica e della popolazione maschile attiva al fronte e relativa immissione delle donne nel mercato del lavoro, se ancora di mercato del lavoro si poteva parlare in un'economia di guerra. Tutto ciò, oltre a determinare la crisi dello Stato liberale e ad anticipare sinistramente la successiva svolta dittatoriale del nostro Paese, fece nel contempo nascere una nuova coscienza collettiva nazionale che si riassumeva nella riattualizzazione degli ideali ottocenteschi della Patria, i soli in grado di dare un senso alle sofferenze e ai sacrifici dell'ora, mentre l'esperienza della guerra imponeva ai militari un rimescolamento dei rapporti sociali e delle provenienze regionali e un nuovo ordine, quello appunto militare, che facevano emergere nuovi rapporti e nuove visioni della propria e della altrui coscienza[86]. Inoltre, lo stravolgimento dell'economia in funzione della guerra, se  da un lato come già detto faceva nascere dal nulla nuove ricchezze e prosperare ulteriormente e in modo esponenziale quelle vecchie, nel contempo impoverendo larghi strati dei ceti medi e inferiori, dall'altro dava un nuovo peso sia alle masse popolari impiegate nell'industria bellica sia alle donne che in gran parte per la prima volta assumevano nuovi ruoli fuori dall'ambito familiare, favorendo nelle prime  una maggiore coscienza di classe e nelle seconde una nuova coscienza sociale.


Intanto nell'Internazionale socialista dei dissidenti dell'aprile sello stesso 1916 il partito socialdemocratico russo ebbe, per opera  di Lenin, contro il pacifismo intransigente di tutti gli altri partiti socialisti nazionali, la possibilità di far prevalere, al posto della tesi della guerra imperialista cui di fatto quei partiti si erano adeguati, la tesi della guerra civile contro la borghesia  in vista della costruzione dello Stato socialista in tutti i Paesi. Quando la guerra provocò la dissoluzione dell'Impero dei Romanov con l'abdicazione forzata dello zar Nicola II, e poi, il 24 ottobre 1917, la Rivoluzione d'Ottobre in Russia, Lenin, a capo del governo rivoluzionario, poté mettere in atto i suoi propositi, accettando condizioni di pace durissime dalla Germania nel Trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918, pur di salvaguardare la rivoluzione e di potere, con la pace, risolvere gli enormi problemi interni. 

La partecipazione attiva alla guerra sin dal suo inizio, così come la guerra stessa, non impedirono a Carabellese da un lato di continuare il suo percorso di riflessione filosofica e religiosa - penso al già citato saggio su La coscienza morale, pubblicato nel 1915 durante l'insegnamento liceale a La Spezia e che diede adito alla cartolina dal fronte a Croce, ma anche a un saggio sulla coscienza religiosa del '16 e a un articolo ancora sulla coscienza morale del '17, indici della sua continuata partecipazione al dibattito filosofico[87], e della prosecuzione di tale dibattito nonostante la guerra -, dall'altro di continuare nel suo progetto di ingresso istituzionalizzato nel mondo accademico: il 13 ottobre del 1917 Carabellese, nonostante la guerra, e nel suo pieno, vince la Libera Docenza in Filosofia Teoretica[88].


Intanto il 6 aprile del 1917[89] gli Stati Uniti erano entrati in guerra al fianco dell'Intesa: sono note le preoccupazioni del Presidente Wilson per le gravi ripercussioni economiche della guerra sottomarina tedesca sul fittissimo commercio marittimo tra Vecchio e Nuovo Mondo e per le pressioni dei gruppi finanziari e industriali americani che fornivano da tempo aiuti economici ai Paesi belligeranti. Egli dichiarò la guerra un crimine contro l'umanità: gli Stati Uniti scesero in guerra quindi con motivi ideologici molto forti, che si espressero nei "Quattordici punti" in cui Wilson riassumeva il ruolo autonomo che gli Stati Uniti volevano avere di garanti della pace, della libertà, della democrazia, del diritto dei popoli all'autodeterminazione, del rispetto del principio della nazionalità[90]: la guerra si trasformava in una "crociata per la democrazia". 


L'ingresso in guerra degli Stati Uniti fu, com'è noto, decisivo, da un punto di vista strategico, militare, economico  e psicologico, anche per il contemporaneo abbandono della Russia, che provocò sconcerto e preoccupazione nei governi e nell'opinione pubblica e un diffuso senso di fallimento negli ambienti militari, con conseguenti diserzioni e dunque repressioni. Ma in un primo tempo quest'ingresso non poté impedire che, nello stesso giorno dello scoppio della Rivoluzione d'Ottobre, il 27 ottobre del 1917, gli austriaci, concentrando sul fronte italiano uomini e mezzi prima rivolti contro la Russia, infliggessero agli italiani la sconfitta di Caporetto, e penetrassero quasi sino al Piave in territorio italiano, mettendo in rotta quel che rimaneva dell'esercito, che subì quattrocentomila perdite, e in pericolo la popolazione civile, che fu evacuata in massa dal Friuli e in gran parte anche dal Veneto.

La disfatta di Caporetto provocò sul piano politico, sociale e militare[91] una forte reazione, anche per il pericolo che quell'enorme massa di combattenti sbandati e infuriati potesse abbandonare la guerra e organizzarsi in un movimento rivoluzionario contro i ceti medi e contro le strutture dello Stato[92] e che questa rivoluzione potesse estendersi anche al di là dei contadini e dei proletari che componevano le fanterie di soldati in rotta. Sul piano politico-istituzionale questa reazione si espresse in un nuovo governo di resistenza nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, che, per scongiurare il rischio di una guerra civile e di una generale diserzione, si affrettò a promettere ai soldaki, per la fine della guerra, concessioni sul piano politico-economico: terra ai contadini e partecipazione alla conduzione e ai profitti delle fabbriche agli operai - una svolta a carattere apparentemente socialisti[93]. A livello sociale la situazione, dopo questi impegni presi dal governo, poi come vedremo disattesi, andò normalizzandosi, e la grande paura nei ceti medi rientrò, anche se restava il problema per i ceti industriali del Nord e gli agrari del Sud, che vedevano in pericolo i loro privilegi e in discussione il principio della proprietà privata. Sul piano militare si ebbe la sostituzione del Generale Cadorna col Generale Armando Diaz, che organizzò un fronte di difesa del Piave che respinse gli austriaci nel novembre del 1917. Ma nell'autunno del 1918 l'offensiva austriaca si ripresentò della "battaglia del Piave". La controffensiva italiana fu disperata ma vincente su tutto il fronte, costringendo gli austriaci alla ritirata e liberando Vittorio Veneto, Trento e Trieste: il 4 novembre Diaz proclamò la vittoria.

La Conferenza di Pace di Parigi apertasi il 19 gennaio 1919 con i "Quattro Grandi" - Wilson, e i Primi Ministri Clemenceau, Lloyd George e Orlando - fu detta "della pace punitiva", perché in essa tutte le responsabilità della guerra furono attribuite alla Germania, rappresentata, come si è detto,  dalla neonata Repubblica di Weimar,  costretta a sottoscrivere un'apposita clausola in tal senso, foriera in breve tempo, assieme alle condizioni politico-economiche impostele (solo di debiti di guerra 132 miliardi di marchi in oro in trent'anni), di quello spirito di rivincita che avrebbe poi sconvolto di nuovo il mondo. Tra i cinque trattati di pace, quello di Saint-Germain che sanciva la fine dell'Impero asburgico riguardava anche l'Italia, che vedeva in parte riconosciute le sue richieste territoriali: il Trentino, l'Alto Adige fino al Brennero, Trieste, da cui la retorica della "vittoria mutilata". "La Grande Guebra segnò la fine di quattro imperi: degli zar, degli Asburgo, degli Hohenzollern, quello ottomano.", e la Conferenza di pace diede vita a nuovi Stati, che si ispiravano nei fatti a quel principio dell'autodeterminazione dei popoli e a quel principio di nazionalità che Wilson aveva inserito tra i "Quattordici punti", e che rispettavano dove era possibile le etnie e le tradizioni nazionali. Ma la Conferenza di pace, che stava dando un nuovo asserto territoriale, politico, economico e sociale all'Europa, nel contempo allargandola all'influenza degli Stati Uniti, non fu, ci si scusi il bisticcio, una conferenza pacifica. Tra i vincitori si delinearono due blocchi, l'uno più interessato ai vantaggi politico-economici e costituito da Francia, Italia e Inghilterra, l'altro deciso ad applicare i "Quattordici punti", rappresentato dal solo Wilson. In realtà, secondo alcuni storici, tutti, vincitori e vinti, erano animati dal più forte spirito nazionalistico, che rese i principi wilsoniani di più  alto valore, come la democrazia, la pace, la libertà, pure petizioni teoriche.

2c) L'Italia verso il regime fascista

Anche se la guerra era finita alla fine del 1918, l'esperienza che Carabellese ne fece, combattendo per tutti i suoi quattro anni, dovette influire non poco sull'uomo (anche se egli non ne parlò mai nei suoi scritti editi), se, come si evince dalle lettere, scrisse una sola volta a Croce al suo inizio, il 17 settembre 1915, e poi fece seguire un lungo silenzio sino alla terza cartolina del 5 dicembre 1921, e se, nella prima lettera del 6 aprile 1922, si chiede se  riuscirà a porsi di nuovo sul serio al lavoro assiduamente, dal momento che "si può dire che dal 1915 in poi ciò non ho più fatto"[94]. Ma in realtà questo periodo di assestamento vide Carabellese impegnato non soltanto di nuovo nell'ambito dell'insegnamento scolastico con il concorso speciale di filosofia delle scuole medie superiori del 1919 e quindi presso il Liceo "Gioberti" di Torino e poi il famoso Liceo "Visconti" di Roma, poi nell'A.S. 1920-21 preside del Liceo di Pistoia, da cui infatti spedirà la terza cartolina a Croce della fine del 1921, e nell'A.S. 1921-22 ispettore scolastico prima a Milano e poi a Venezia, come testimonia il post scriptum della prima lettera del '22. E il primo dopoguerra vide Carabellese ancora presente, sempre sul piano della dedizione alle scuola e ai suoi problemi, con la rinnovata riflessione intorno ai temi pedagogici[95], ma anche e soprattutto dedito alla prosecuzione della sua attività scientifica in ambito filosofico: è del 1920 "L'attività concreta"[96], così come sono del 1921 sia la prima edizione dell'importante opera Critica del concreto, sia il saggio "Che cos'è la filosofia?"[97], ad uno dei quali, ma lo discuteremo, si riferisce  la terza cartolina a Croce della fine del 1921, mentre dell'agosto del 1922, dunque di subito successivo alla lettera a Croce dell'aprile del '22 a cui stiamo facendo riferimento, è "Un saggio di filosofia concreta"[98], che riprende i temi centrali della Critica.

Dunque, se può dirsi che nel complesso si tratta apparentemente di un'attività scientifica di non grande rilievo, che avvalora la dichiarazione epistolare di Carabellese a Croce, e che evidentemente risentiva anche della situazione generale del dopoguerra, oltre che del dissesto psicologico derivante dall'aver combattuto in prima linea e dall'aver visto il fallimento dei propri ideali, pure quest'interpretazione che Carabellese stesso dà della sua attività a partire dalla guerra è smentita sia dalla pubblicazione della Critica sia dal saggio su che cos'è la filosofia sia da quello sulla filosofia concreta,  la cui pubblicazione di poco successiva fa pensare a una stesura almeno contemporanea alla lettera. E quest'interpretazione carabellesiana della sua stessa attività scientifica in quell'immediato dopoguerra è possibile smentirla a posteriori perché quelle pubblicazioni appaiono oggi  indici tutte di un percorso di riflessione che, seppure non immediatamente produttivo in modo pieno come Carabellese avrebbe voluto, né evidentemente immediatamente a lui stesso cosciente, al tempo stesso proseguiva e si affinava, e, nelle tre opere più specificatamente teoretiche, trovava le basi oggettive nient'affatto secondarie per le successive elaborazioni. In particolare il saggio sulla filosofia era il primo nucleo dell'opera del 1942 che porterà il suo nome, e testimoniava di un interesse specifico per un tema centrale dell'ambito disciplinare scientifico, mentre la Critica costituiva il primo nucleo oggettivo di un passaggio dal criticismo alla metafisica che superava definitivamente il realismo e la separazione tra gnoseologia e metafisica, e, nel concetto di concreto, situava la metafisica carabellesiana nell'orizzonte dell'idealismo, mentre infine il saggio sulla filosofia concreta costituiva una riprova e una riaffermazione sia della prima che della seconda pubblicazione. 

Abbiamo voluto far precedere queste riflessioni sulla ripresa della vita civile  da parte di Carabellese nel dopoguerra all'esposizione succinta dei gravi avvenimenti politici italiani che seguiranno (prendendo come termine di riferimento, in senso anche cronologico,   quell'insoddisfazione espressa nella prima lettera a Croce dell'aprile del '22) da un lato per mostrare proprio questa ripresa stessa nella persona Carabellese, nell'incrocio tra il livello biografico, il livello bibliografico (ambedue riferentisi agli anni 1919-22) e il livello dell'elaborazione successiva che oltrepassa questi anni ed è leggibile solo a posteriori e dal di fuori, con la distanza critica dello storico. Dall'altro perché questa ripresa stessa, individuale e irripetibile nella persona Carabellese, costituisce comunque un indice, un caso se si vuole, della vita sociale che in quegli anni di dopoguerra si viveva, e la possibilità di un'apertura al piano politico della vita dello Stato nella quale quella specifica ripresa si inserisce. A questa vita dello Stato ora accenneremo per brevi tratti e solo sino al 1931, anno in cui l'epistolario con Croce si interrompe.

Prima però ci occorre di dire che solo a partire infatti dall'incrocio di tutti questi livelli - più generalmente politico-ideologoco ed economico-sociale, e, più in particolare per quanto riguarda Carabellese, biografico, bibliografico, teoretico, ideologico, epistolare (nel suo aspetto più formale che contenutistico, per ora) - è possibile far interagire anche il livello statuale nazionale - che pure è il primo logico e, in questo caso, anche storico -, per avere di Carabellese non soltanto come filosofo puro ma anche come uomo che nella filosofia agiva le sue idee storico-politiche, un profilo, per quanto sempre sottoposto a una scelta prospettica e quindi scientificamente sempre discutibile o migliorabile, il più possibile aderente alla verità. E soprattutto, nello scopo specifico che ci ha mossi a quest'operazione - le lettere -, si sarà compreso che a nostro parere è possibile comprendere in profondità le lettere solo se prima si allarga il discorso  dal piano più specificatamente filosofico ad un piano più generalmente storico  e le si inquadra, come documenti appunto storici,  in un contesto che tenga compresenti tutti i detti livelli come linee da intersecare tra di loro. Solo  così, e solo dopo, si può passare a discutere le lettere nel merito del loro contenuto e quindi anche del loro specifico filosofico, e dopo ancora ad allargare di nuovo il discorso all'inquadramento delle lettere all'interno del rapporto teoretico tra Carabellese e Croce a partire dalle rispettive opere, e in particolare da quelle in cui i due pensatori polemizzarono tra loro. Infatti a nostro parere attenersi soltanto alle lettere e al loro contenuto, sia pure al loro contenuto specificatamente filosofico che consente quell'ultimo allargamento appena detto, sarebbe stato in qualche modo decurtarle di significato: le lettere sono documenti storici non soltanto di un rapporto filosofico, ma in molti altri sensi che la nostra piccola indagine può solo sfiorare tentando di restituirne almeno il sentore. Esse sono cioè al tempo stesso documenti di un uomo (con i suoi sentimenti, le sue aspettative, le sue idee, i suoi progetti, le sue azioni, le situazioni in cui si trova e agisce, il suo retroterra politico-sociale, la sua formazione culturale, i suoi rapporti familiari); sono documenti di un rapporto:   di un rapporto umano, di un rapporto teoretico, di un rapporto ideologico, di un rapporto sociale;  sono documenti di un momento: di un momento storico, di un momento politico, di un momento ideologico-culturale, di un momento sociale, di un momento economico; e sono infine documenti dello sviluppo di quest'uomo, di questo rapporto, di questo momento. Tutti questi significati, e altri ancora che sicuramente vi sono rinvenibili, sono presenti nelle lettere o come significati palesi, o come significati da esse deducibili e ricostruibili, o come significati ad esse riportabili nel senso non che esse ne siano il motore (come ad esempio il momento storico), ma che esse ne siano in qualche modo anche espressione. Sarebbe pretensioso da parte nostra anche solo pensare di potere esaurire l'insieme di tali significati, mentre ci basterebbe aver contribuito a mostrarne qualcuno. Siamo consapevoli che la nostra che qui presentiamo in Appendice, seppure ristretta entro i limiti determinati dagli anni 1908-31 delle lettere - e da esse originata -, è un'operazione di confine, nel senso che non è strettamente filosofica ma devìa dall'ambito più specificatamente disciplinare che ci appartiene per porsi come punto di incrocio tra livello storico-filosofico, livello storico in senso stretto, livello biografico, livello bibliografico, analisi testuale e filosofica del piccolo epistolario ritrovato. In questo senso è rischiosa e in senso letterale discutibile, ma è nostra speranza che i modi in cui è condotta mostrino, come Appendice della parte più specificatamente teoretica del nostro lavoro, la fecondità di un approccio multiverso al problema delle lettere almeno in vista di un loro primo inquadramento generale. 

Dunque la ripresa della vita civile da parte di Carabellese negli anni immediatamente successivi al 1918 è la ripresa della vita civile di tutta una nazione, caratterizzata da quello che è stato definito il "biennio rosso": tra il 1919 e il 1920, nonostante l'iniziale ripresa anche economica dovuta alla ricostruzione post-bellica, l'enorme problema del ritorno alla vita civile delle grandi masse di combattenti creò, insieme ai problemi ovvi che seguono una guerra, una condizione di generale instabilità sociale, con una condizione economica grave e una disoccupazione dilagante che, anche per il veto all'emigrazione imposto dagli Stati Uniti, si espresse in conflitti sociali molto aspri e lotte sindacali che coinvolsero anche i ceti medi e la burocrazia, oltre che i contadini e gli operai che pretendevano il rispetto delle promesse del governo Orlando all'indomani di Caporetto.


Sulle elezioni del novembre 1919, che modificarono il sistema elettorale uninominale di radice ottocentesca in proporzionale, prese posizione anche Carabellese, con lo scritto ricordato "Intorno alla proporzionale". Le prime elezioni del dopoguerra segnarono col nuovo sistema l'affermazione, oltre che dei partiti organizzati più che del singolo candidato, dei socialisti, tra i quali cominciava a emergere Antonio Gramsci col suo gruppo di intellettuali torinesi raccolti intorno a "Ordine Nuovo", e dei cattolici del nuovo Partito Popolare Italiano guidato da Luigi Sturzo, per cui si è parlato di "rivoluzione democratica"[99]: la vecchia classe dirigente liberale sembrava uscirne sconfitta. Il Ministero liberale Nitti si trovava inoltre già da prima di fronte all'impossibilità di far convergere gli interessi di socialisti e cattolici in un'alleanza di governo, e alla necessità di dare una soluzione politica alla questione di Fiume, che dal settembre dello stesso '19 era nelle mani dell'ala più estremista dei combattenti e dei nazionalisti, guidata com'è noto da Gabriele D'Annunzio e organizzata nella "Reggenza del Carnaro". Giolitti, che dal giugno 1920 fu a capo del suo quinto e ultimo Ministero, riuscì a risolvere il secondo problema del governo Nitti, dando soluzione politica alla questione fiumana col Trattato di Rapallo, che dichiarava Fiume città libera, ma fu costretto ad autorizzare la smobilitazione della città con l'esercito regolare[100]. Sul piano politico interno la situazione era colto più complessa, perché il disegno giolittiano di restituire peso al Parlamento riducendo quello regio, e di sedare il malcontento popolare con una serie di misure che colpivano i ceti abbienti incontrò le resistenze di questi ultimi, conducendo all'esplosione delle agitazioni sociali che fece deviare il "biennio rosso"  verso l'occupazione armata delle terre nel Meridione e delle fabbriche nel triangolo industriale al Nord, e la mobilitazione e organizzazione di migliaia di contadini nelle "Leghe rosse" padane. Ma il disegno sovversivo di rivoluzione armata fallì per l'isolamento sociale e politico dei ceti popolari, nonostante l'appoggio  dai socialisti rivoluzionari di Gramsci che si rifacevano al modello dei soviet[101], non solo per l'intervento dello Stato nella sua opera di mediazione dei conflitti e di assicurazione dell'ordine pubblico, ma anche per la controrivoluzione organizzata ih squadre dai gruppi più estremistici dei ceti medi e alti nei "Fasci di combattimento", guidati da Benito Mussolini e costituiti in prima istanza da studenti ed ex combattenti già dal 22 marzo del 1919[102]. Sul piano programmatico i Fasci erano apparsi addirittura un'organizzazione sinistrorsa, non un'impostazione antiborghese, antimonarchica e anticlericale, sia con la rivendicazione dei minimi salariali, della giornata lavorativa di otto ore e della rappresentanza sindacale nelle fabbriche, sia con la richiesta di una politica fiscale progressiva che colpisse il capitale, sia con l'istanza di sequestro dei beni religiosi e dei profitti di guerra[103].  Ma con l'acuirsi dei conflitti sociali, che presentavano alcuni caratteri propri di una guerra civile, la politica sociale dei Fasci fu abbandonata a favore sia di accordi politici con i ceti medio-alti che di azioni di forza dello squadrismo nei confronti delle organizzazioni socialiste contadine e operaie che non risparmiarono il settore della propaganda e della stampa, sino alla costituzione del Partito Nazionale Fascista nel novembre del 1921 a Roma. Legalità e illegalità convergevano dunque nel disegno fascista a tutto vantaggio dell'espansione del movimento, che fu esponenziale sia dal punto di vista dell'organizzazione sia dal punto di vista dell'appoggio dell'opinione pubblica sia industriale e agraria sia piccolo-medio borghese come contrasto al "pericolo rosso". Le azioni squadriste soprattutto si estesero sia geograficamente, sia numericamente, sia socialmente. Ancora Angelo Tasca afferma: "[...] Il carattere militare dell'offensiva fascista [...] le assicura, fin dagli inizi, una superiorità indiscutibile [...] l'avversario [...] non ha alcuna seria preparazione. L'offensiva fascista prende [...] il carattere di una guerra di movimento. All'inizio, la spedizione contro una località non è quasi mai fatta dai fascisti della stessa località, piccola minoranza isolata ed esposta alle rappresaglie. E' dal centro più vicino che i camion arrivano, carichi di persone assolutamente sconosciute nel paese. [...] dopo di che il Fascio locale [...] s'ingrossa, con l'adesione dei reazionari d'ogni risma, e di coloro che prima avevano paura dei socialisti, e che hanno ora paura dei fascisti. [...] Più tardi l'offensiva si sviluppa in azioni di grande ampiezza: le spedizioni divengono interprovinciali e interregionali [...] Invece non vi sono quasi esempi di attacchi socialisti contro le sedi dei Fasci, o di antifascisti che siano andati da una località ad un'altra minacciati dagli squadristi. [...] <<oasi>> socialiste, senza comunicazioni tra loro. [...] Il fascismo [...] ha sul movimento operaio una immensa superiorità colle sue possibilità di spostamento e di concentrazione basate su una tattica militare. [...] Gli avvenimenti che vanno dalla metà del 1921 all'ottobre 1922 dimostrano [...] che l'inferiorità della classe operaia italiana è stata la conseguenza di un'inferiorità politica [...] Nella classe operaia, paralizzata dalla scissione politica e dalla crisi economica, il regresso è evidente."[104]


Infatti, nel gennaio 1921, il Congresso del Partito Socialista a Livorno aveva segnato, con la scissione tra l'ala rivoluzionaria e l'ala riformista di Turati, Treves e Matteotti, la nascita del "Partito Comunista d'Italia. Sezione dell'Internazionale Comunista"[105].

Tutto questo clima trovò, secondo alcuni critici, una sostanziale responsabilità nello Stato liberale e nella Chiesa cattolica, che di fronte al rischio di una rivoluzione sociale, e nella speranza di controllare la controrivoluzione in atto, si limitarono l'uno ad assistere, l'altra a mostrare benevolenza soprattutto dopo la salita al Soglio pontificio di Pio XI nel febbraio 1922. E questa responsabilità si rese visibile in quello che è stato definito da Angelo Tasca il "suicidio" dello Stato liberale: Giolitti, nel tentativo di governare questa violenta controrivoluzione ridimensionando nel contempo il Partito socialista, offrì al Partito fascista di entrare a far parte del "Blocco Nazionale" insieme ai liberali e ai nazionalisti in vista delle elezioni del maggio 1921: Tasca afferma ancora che così l'azione terroristica era di fatto legalizzata[106]. Infatti il Partito fascista organizzò lo squadrismo in una "Milizia nazionale", vero e proprio esercito parallelo a quello dello Stato, con un moltiplicarsi di azioni di guerriglia non più soltanto contro le organizzazioni e gli esponenti "sovversivi", ma anche contro obiettivi istituzionali e civili, nel preciso progetto ormai della presa del potere. Le forze socialiste, in questo acuirsi degli estremismi, rispondevano con azioni pacifiste come lo sciopero generale nazionale del 31 luglio 1922. Lo Stato, impotente col governo Bonomi, di fronte alla mobilitazione del Partito fascista sfociata nella "Marcia su Roma" del 28 ottobre 1922[107], dichiarò finalmente nella persona di Facta lo stato d'assedio chiedendo alla Corona di firmare il decreto parlamentare che avrebbe consentito un'azione di forza dell'esercito da parte del Generale Badoglio.  Ma Vittorio Emanuele III rifiutò di legittimare la volontà del Parlamento, preferendo legittimare l'azione sovversiva di Mussolini, cui offrì perciò l'incarico di formare quel governo che ebbe a larga maggioranza la fiducia per i pieni poteri in vista del ristabilimento dell'ordine pubblico e che sarebbe durato  per  vent'anni, fino al luglio del 1943[108].

La politica interna fascista, da subito orientata verso il grande capitale industriale e agrario con un abbandono, ormai da tempo chiaro, dei programmi di stampo socialistico nonostante la propaganda sapiente in tal senso, provocò in un primo momento sul piano economico il rilancio della Borsa e dell'industria. L'esautoramento dello Statuto albertino  sul piano politico-istituzionale  fu apparentemente graduale nel passaggio dal sistema parlamentare alla dittatura, così come sul piano  civile che garantiva le libertà costituzionali: le elezioni generali del 1924, che pure si tennero, furono svolte in un clima di violenza squadristica e di brogli elettorali e orientate dall'approvazione della Legge Acerbo, che di fatto assegnava alla "Lista nazionale" guidata dai fascisti, che le vinse a larga maggioranza,  il controllo del Parlamento. Qui si inserisce il delitto Matteotti, che diede al Paese la misura della anomia fascista: dopo il coraggioso discorso alla Camera nel quale, denunciando l'illiceità delle elezioni, il leader del Partito socialista richiedeva la loro invalidazione, il 10 giugno 1924, rapito in pieno giorno, fu ucciso a pugnalate[109]. Qui si inserisce anche la nota secessione dell'Aventino, sul quale i deputati dell'opposizione, uniti, si ritirarono abbandonando per protesta l'aula di Montecitorio, col proposito di tornarvi dopo l'intervento del Re e la sollevazione popolare. Ma in realtà secondo alcuni storici questa fu una scelta sbagliata, dal momento che la reazione del Paese, che pure ci fu, non fu così esasperata e unanime, e dal momento che l'intervento della Corona sostanzialmente non ci fu, dando così anch'essa agio al fascismo di cavalcare la crisi politica che si era aperta: l'Aventino perciò, secondo quest'interpretazione, seppure dettato da motivi morali allontanò invece che avvicinare l'opposizione alla base, e isolò i deputati in un immobilismo che rese ancora più piana la via del potere al fascismo[110]. Mussolini, collocandosi ancora una volta come punto di convergenza intorno a un Partito tra forze rivoluzionarie o forze normalizzatrici, il 3 gennaio 1925 si assunse in un abile discorso di fronte al Parlamento la responsabilità "politica, morale, storica" del delitto Matteotti, ponendosi anche qui come arbitro, in questo caso di fronte al Parlamento e al Paese della sua vita politica e sociale e facendosi garante dell'ordine pubblico, aprendo così la strada a misure istituzionali e di polizia eccezionali. Afferma Renzo De Felice riguardo al discorso del 3 gennaio 1925: "Il suo discorso fu relativamente breve, ma durissimo; come egli stesso premise, tutt'altro che parlamentare. Sin dalle prime battute Mussolini passò subito all'attacco. [...] <<L'articolo quarantasette dello Statuto dice: 'La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all'Alta corte di giustizia'. Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c'è qualcuno che si voglia valere dell'articolo quarantasette>>. [...] l'opposizione taceva, molti deputati fascisti acclamarono [...]  allora continuò: <<[...] dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assuma, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto [...]>> [...] <<Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c'è mai stata altra soluzione nella storia [...] il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino. L'Italia, o signori, vuole la pace [...] Noi, questa tranquillità [...] gliela daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. [...] ciò che ho in animo [...] è soltanto amore sconfinato e possente per la patria.>> [...] la seduta fu sospesa. Ripresa poco dopo, Mussolini chiese che le sedute fossero rinviate e la Camera <<riconvocata a domicilio>>. La proposta fu approvata. Il 3 gennaio era un fatto compiuto. Nelle prime ore della notte Federzoni diramava ai prefetti due telegrammi che traducevano in pratica le parole di Mussolini. [...] <<[...] non possono consentirsi per alcun motivo adunate, comizi, cortei, pubbliche manifestazioni [...] garantire il mantenimento dell'ordine pubblico in qualunque circostanza>> [...] disporre: <<1) la chiusura di tutti i circoli e  ritrovi sospetti dal punto di vista politico; 2) lo scioglimento di tutte le organizzazioni [...] che comunque tendano a sovvertire i poteri dello Stato [...] 2) vigilanza dei comunisti e dei sovversivi [...] procedendo a retate [...] ogni tentativo di resistenza deve essere seriamente represso con ogni mezzo; 5) rastrellamento di armi illegalmente detenute operando oculate frequenti perquisizioni [...].>> E a queste prime istruzioni ne seguivano, nei giorni successivi, altre, per [...] la rigorosa applicazione delle disposizioni repressive sulla stampa." [111]: lo Stato liberale era morto, la vita parlamentare sospesa - sul finire del 1926 i partiti furono via via dichiarati illegali, e decaduti gli aventiniani -, si ebbe tutta quella serie drammatica di eventi che sono ben noti e riassumibili nella distruzione delle libertà civili coagulate nello Statuto albertino: la soppressione della libertà di stampa, di associazione, di riunione, e la violenta persecuzione degli antifascisti sia politici (Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Pietro Nenni) che civili, in un'escalation, determinata sul piano giuridico da quelle leggi dette "fascistissime", che condusse all'esilio di molti tra i maggiori esponenti dell'opposizione: tra gli altri, Luigi Sturzo, Claudio Treves, Gaetano Salvemini, Pietro Togliatti, che crearono in Francia la "Concentrazione antifascista", momento anche di confronto e di scontro sulle responsabilità politiche e morali di fronte all'ascesa del fascismo, mentre i fratelli Carlo e Nello Rosselli, poi uccisi,  con "Giustizia e Libertà" condussero sempre dalla Francia un'attiva propaganda clandestina in Italia.

Ma oltre all'opposizione esterna dei fuoriusciti, e all'opposizione interna dei politici, il fascismo dove' com'è noto fare i conti con un'opposizione sempre interna ben più potente e difficile da controllare e debellare (oltre a quella di quella parte dell'opinione pubblica silenziosa ma dissente) perché visibile e nota: quella degli intellettuali di rilievo che, come Benedetto Croce (dopo un'iniziale sottovalutazione del fascismo che però ne coglieva già l'assoluta mancanza di ideologia [112] e che sarà poi corretta nella definizione di "malattia passeggera in un corpo sano"),  dalla sua  prestigiosa rivista "La Critica"[113],  non potevano, seppur ostacolati,  essere ridotti al silenzio né tanto meno attaccati frontalmente, anche perché la loro notorietà oltreconfine suggeriva l'opportunità di un'apparente libertà di espressione un Italia.

Ma si sa che il fascismo tentò dopo una prima fase di rifiuto della cultura di captare la benevolenza degli uomini di libero pensiero, e ci riuscì soprattutto con coloro i quali videro in esso la realizzazione degli ideali di uno Stato forte in grado di riassumere in sé in senso moderno d'eredità dello Stato liberale ottocentesco superandone nel contempo l'inadeguatezza alla nuova realtà complessa uscita dalla guerra ed entrata a far parte di uno scenario politico, economico e sociale novecentesco che veniva allargandosi  oltre la vecchia Europa. Tra questi com'è noto il più illustre fu Giovanni Gentile, al quale si deve la Riforma che come Ministro dell'Istruzione nel primo governo Mussolini del 1922, in cui fu nominato Senatore,  varò nel 1923 per tutti gli ordini della scuola e che è a tutt'oggi in parte in vigore nelle scuole superiori, ma che si assunse il compito ben più importante di ideologo  del regime e teorico della dottrina fascista, iscrivendosi al Partito Nazionale Fascista e promuovendo inoltre col suo prestigio la creazione e  l'organizzazione di molte delle istituzioni culturali del regime, sino a condividerne fino in fondo il destino e, dopo la Repubblica di Salò, ad essere ucciso dai partigiani nel 1944.

Gentile, in quello che gli è stato riconosciuto dagli storici come impeto ideale, elaborò il famoso "Manifesto degli intellettuali del Fascismo" del 3 gennaio 1925, in cui infatti definisce il fascismo come "[...] movimento antico e recente dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di interesse e significato per tutte le altre. Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra [...] vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere, se non lo negava apertamente, il valore morale rappresentandola agl'italiani da un punto di vista prettamente individualistico e utilitaristico [...], donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari [...] Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale [...] un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà ed ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione e perciò missione.

 

2d) Il Fascismo e lo Stato.

 

Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere religioso è perciò intransigente, spiega il metodo di lotta [...] dal '19 al '22. I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento [...] ed il Fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si faceva liberale ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. [...] Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch'esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del '11 da analogo bisogno politico e morale era sorta la <<Giovine Italia>> di Giuseppe Mazzini). [...] come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere [...] Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio [...] pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. [...] Il Fascismo è spirito di progresso e di propulsione di tutte le forze nazionali. [...] Il Fascismo, i cui capi, a cominciare dal supremo, hanno tutti vissuto l'esperienza socialista, intende conciliare due termini finora sembrati irriducibilmente contrari: Stato e Sindacato, Stato, come forza giuridica della Nazione nella sua unità organica e funzionale; Sindacato, come forza giuridica dell'individuo quale attività economica, che nel diritto possa avere la sua garanzia [...]. Stato, come organizzazione di tutte le attività individuali, nel loro ordine organico e concreto. Non regresso, perciò, rispetto allo Stato costituzionale, anzi sviluppo, maggiore determinazione intrinseca e realizzazione del suo principio di effettiva rappresentanza popolare nel potere legislativo [...]. Oggi in Italia gli animi sono schierati in due opposti campi [...] Ma la grandissima maggioranza degli italiani rimane estranea [...] sanno bene che l'infocata libertà è una parola di significato elasticissimo [...] questa piccola opposizione al Fascismo [...] dovrà finire a grado a grado per interno logorio e inazione, restando sempre al margine [...] nella nuova Italia. E ciò perché essa non ha propriamente un principio opposto ma soltanto inferiore al principio del Fascismo, ed è legge storica che [...] di due principi opposti [...] trionfi un più alto principio, che sia la sintesi di due diversi elementi vitali a cui l'uno e l'altro separatamente si ispirano; ma di due principi uno inferiore e l'altro superiore [...] il primo deve necessariamente soccombere perché esso è contenuto nel secondo [...]."[114]

A questo Manifesto, cui abbiamo volutamente lasciato ampia voce senza alcun commento, si contrappose com'è noto l'altro di Croce, che con esso, chiamando a raccolta l'intellighenzia antifascista e segnando perciò visibilmente una divisione di campo nell'ambito della cultura italiana dell'epoca, si richiamava ai valori della tradizione risorgimentale e liberale, determinando tra l'altro non soltanto la sua posizione politica, ma anche la sua interpretazione dell'idealismo hegeliano, e, non ultimo, ribadendo così pubblicamente la fine del suo sodalizio non solo intellettuale con Gentile. Il "Manifesto" degli intellettuali antifascisti, firmato anche da Guido De Ruggiero, Luigi Salvatorelli e Giustino Fortunato, affermava: "Gl'intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl'intellettuali di tutte le nazioni [...] Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell'abuso che vi si fa della parola <<religione>> [...] noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione [...]. Chiamare contrasto di religione l'odio e il rancore che si accendono da un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d'italiani e li ingiuria stranieri, e in quest'atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l'animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani delle università l'antica e fidente fratellanza dei comuni e giovanili ideali [...]. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo [...] non si riesce ad intendere dalle parole del verboso Manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico [...] un incoerente e bizzarro miscuglio di appigli all'autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi ammuffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue promesse, di sdilinguimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuali o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un'originale impronta [...]. Per questa caotica e inafferrabile <<religione>> noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna: quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l'Italia operarono, patirono e morirono [...]. Le nostra fede non è un'escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal ceche o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione [...]. Ripetono gl'intellettuali fascisti, nel loro manifesto, che il Risorgimento d'Italia fu l'opera di una minoranza; ma non avvenqono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d'Italia [...]. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venare chiamando sempre maggior numero d'italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atte, come la largizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali nei primi tempi, il movimento fascistico, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica [...]. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell'inerzia e nell'indifferenza il grosso della nazione [...] perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governi assolutistici e quietistici. Anche oggi, né quell'asserita indifferenza e inerzia, né  gli impedimenti [...] alla libertà, c'inducono [...] a rassegnarci. [...] La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato si giudicherà che lo prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per seguire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile."[115]  

Carabellese, i cui richiami al Risorgimento e a Mazzini sono frequenti in molte sue opere e che più volte ha ribadito sul piano filosofico l'originalità della filosofia italiana, era dal canto suo molto vicino a Gentile - e sarebbe motivo di ricerca se non abbia partecipato, come Croce, per i suoi interessi pedagogici e per la vicinanza in tal senso a Gentile anche attraverso le recensioni ricordate, al suo progetto di riforma della scuola -, al di là delle divisioni teoretiche che li separavano sia dalla discussione iniziata nel 1911 con gli articoli ricordati che riprendevano e allargavano la sua Tesi di Laurea in Filosofia su La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini, divisioni teoretiche delle quali si è già parlato. Così come motivo di ricerca sarebbe pure se egli si trovò a dover compiere una scelta di campo in occasione del Manifesto gentiliano e di quello crociano  non soltanto tra due ideologie politiche il cui sodalizio  si era ormai scisso, ma tra due stessi rapporti interpersonali, dal momento che quello stesso 1955 rientra nel periodo delle lettere a Croce che stiamo presentando, cui infatti si riferisce la prima breve lettera del '25, di pochi mesi successiva al manifesto crociano, che però, nonostante o forse proprio in grazia del reverente affetto verso Croce, non fa alcun cenno a quanto avvenuto.

E diciamo che Carabellese era vicino a Gentile perché, prima ancora di esserne affine, avendone sposato la nipote Irene Gentile nel 1936, e prima ancora di esserne collega all'Università di Roma dove Gentile insegnava dal 1918 Filosofia Teoretica - Cattedra che come si è detto alla sua morte fu ricoperta appunto da Carabellese[116] - e Carabellese giunse nel 1929 come ordinario di Storia della Filosofia[117], e ancora prima di aver affidate  da Gentile, che ne era il Direttore, per tutto il tempo della sua edizione dal 1929 al 1937 ben undici voci della Grande Enciclopedia Italiana[118] promossa nel 1925 dal conte Giovanni Treccani, Carabellese, che lo conosceva se non dal 1909 sicuramente dalla polemica del 1911, collaborò sempre con Gentile, che nel 1920 aveva fondato (mentre i rapporti  con Croce si raffreddavano sino alla rottura e alla fine della sua collaborazione a "La Critica" nel 1933) il "Giornale critico della filosofia italiana", con numerosi articoli su questa rivista a partire dalla sua fondazione e, oltre la morte di Gentile, fino al 1949[119], pubblicando anche, oltre alla sua commemorazione all'Università di Roma ricordata, la ristampa di un saggio sulla sua filosofia in un volume collettaneo in suo onore[120] per la Fondazione a lui dedicata, anch'esso ricordato.

Altri intellettuali però non mostrarono nei confronti di Gentile altrettanta disponibilità, soprattutto dopo il delitto Matteotti: com'è risaputo, oltre ai rapporti con Croce[121], col quale è nota la stretta collaborazione su "La Critica"[122] - ometto per pudore il comune orizzonte neoidealistico -, anche quelli con Adolfo Omodeo, suo discepolo, si interruppero.

Ma il regime, dopo un primo "atteggiamento anticulturalistico per cui valeva più l'azione che il pensiero, più uno squadrista che un professore" - cito sempre da Bobbio - dove' "darsi una rispettabilità culturale" e seppe creare, con la persuasione o con la forza, le condizioni di un'adesione almeno esteriore da parte di molti intellettuali italiani: con la persuasione, creando, anche attraverso Gentile, una rete di istituzioni di prestigio nome, sul modello di quella francese, la Reale Accademia d'Italia nel 1926 che doveva raccogliere i più eminenti uomini di cultura, tra cui Pirandello e Marconi, o anche l'Istituto Nazionale Fascista di Cultura nato anch'esso nel 1926 e presieduto ancora da Gentile; e creando pure diverse riviste tra cui la più autorevole, diretta sempre dal 1926 dallo stesso Gentile che la trasformò nell'organo dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura, fu "L'educazione politica"[123], nata nel '22 e su cui  Carabellese non pubblicò mai[124]; e ancor prima, come abbiamo visto, attraverso il "Manifesto" degli intellettuali fascisti  firmato da molti professori; oppure questa adesione fu imposta con la forza  ad esempio attraverso il famoso "Giuramento"[125] prescritto ai Professori universitari  nell'A.A. 1931-32[126] e a cui anche Carabellese dove' sottostare all'Università di Roma il 20 novembre 1931.

Ma Carabellese in precedenza, e prima di vincere il Concorso di ordinario per la Cattedra  di Storia della Filosofia a Roma nel 1929,  in questi anni che videro la progressiva affermazione politica e sociale del fascismo fino alla dittatura, fu, ormai decisamente orientato verso l'Accademia, Professore straordinario di Filosofia Teoretica all'Università di Palermo dal 1923 al 1925, e poi, sempre a Palermo, ordinario dal '25 al '29. Gli anni palermitani furono anni fecondi di studio, a partire dalla Prolusione del 1923 all'insegnamento sulla Cattedra di Filosofia Teoretica[127], anch'essa pubblicata dalla Biblioteca Filosofica della Società per gli Studi Filosofici di Palermo come detto fondata e diretta dal 1910 da Gentile e Pojero[128], a finire all'importante e già ricordato Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801) nella Collana della palermitana Trimarchi diretta dal suo allievo Vito Fazio Allmayer del 1929. Tra questi due scritti, oltre agli altri che non citiamo, ci sono l'approfondimento degli studi su Kant attraverso la messa a fuoco dell'interesse teologico che prelude a Il problema teologico come filosofia del 1941[129], ma anche attraverso la traduzione e la cura di opere kantiane[130], oltre che attraverso il progetto della ricostruzione storico-teoretica del concetto di filosofia da Kant in poi[131], l'interesse verso il problema della storia[132], gli scritti in onore del vecchio maestro Bernardino Varisco[133], la partecipazione al VII Congresso Nazionale di Filosofia[134], 

Dell'aprile 1922, quindi dall'arrivo a Palermo anche se spedita da Bisceglie, è la prima vera e propria lettera a Croce, di cui abbiamo già anticipato una osservazione personale di Carabellese e che è anche la più importante da un punto di vista teoretico, come vedremo in seguito.  Sempre appartenenti al periodo palermitano, ma scritte tutte da Roma, sono la seconda breve lettera, scritta nella  piena estate del 1925, in cui Carabellese comunica anche l'indirizzo romano a cui Croce può rispondergli, e  la terza di poco successiva, della metà di novembre dello stesso anno, ossia la seconda lettera del 1925. Dopo di ciò, e fino alla fine di maggio del 1931, anno in cui Carabellese è già da circa due anni all'Università di Roma, le lettere si interrompono, per cui si può dire che, se si escludono le cartoline precedenti compresa  quella dal fronte del '15 e la prima lettera da Bisceglie, da dopo quest'ultima in poi la corrispondenza che forma il piccolo epistolario,  nonostante gli spostamenti dovuti alla carriera,   viene tutta spedita da Roma, compresa naturalmente quella che segue il suo coronamento nell'Università della capitale, ossia appunto l'importante lettera di fine maggio del '31, in cui si comunica il definitivo indirizzo e che per prima viene scritta su carta intestata della Scuola di Filosofia con stemma e intestazione anche della Reale Università degli Studi di Roma, la cartolina di inizio giugno, sempre intestata dalla Reale Università, e l'ultima lettera di metà giugno, anch'essa sella Scuola di Filosofia,  tutte sempre del 1931.

Carabellese dunque, nonostante il fascismo, prosegue alacremente la sua attività sia da un punto di vista professionale, che viene sempre più definendosi, sia da un punto da vista teoretico, che viene sempre più arricchendosi, oltre che di progetti e di linee di ricerca, anche di relazioni interpersonali - penso a Gentile, ma anche allo stesso Croce, col quale la corrispondenza, seppure rarefatta, mostra come vedremo un avviato rapporto teoretico -, riprendendosi da quello scoramento espresso allo stesso Croce nel '22.

Sulle vicende del fascismo che intanto sovrastava quest'attività carabellesiana, troppo note e dibattute per  poterne anche tentare una seppur fugace immagine, daremo soltanto ancora qualche breve nota, e solo, lo ripetiamo, sino al 1941.

Alle istituzioni statuali e costituzionali, oltre alla già avvenuta sospensione del Parlamento di cui si è detto, furono sostituiti organismi direttamente controllati dal Partito Nazionale Fascista o da Mussolini: il Gran Consiglio del Fascismo con prerogative di governo attuate mediante decreti-legge, il Tribunale speciale per la Difesa dello Stato con funzioni di repressione dei reati politici sino al confino e alla pena di morte, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale come corpo militare regolare. La lunga e gloriosa tradizione dello Stato di diritto espressa nei codici giuridici[135]a fu com'è risaputo modificata dal codice  che prese il nome dal tristemente noto Rocco[136], ex nazionalista.

Uno Stato e una società militarizzati, in cui anche a livello educativo si mirava a creare sin dai primi anni il buon fascista: Figli della Lupa, Opera Nazionale Balilla, Gioventù Italiana del Littorio erano i gradi attraverso cui, oltre alla militarizzazione che culminava gerarchicamente nel culto del Duce, si inculcava il disprezzo per la democrazia, per il diverso, per il "sovversivo".

Ma le elezioni a lista unica del 1929 si risolsero comunque in un plebiscito, dal momento che com'è noto il fascismo seppe abilmente raccogliere i consensi sia dei ceti agrari e industriali, sia delle gerarchie ecclesiastiche e dunque dei cattolici, sia degli ambienti militari, sia degli strati popolari soprattutto piccolo-borghesi e contadini: la battaglia del grano del 1925, come la bonifica integrale del 1928, si rivolgeva non solo a questi ultimi, ma anche ai primi, ai quali offriva, soprattutto dopo la crisi mondiale del '29, un mercato autarchico e monopolistico attraverso la nota formula del corporativismo; in nome della nuova Roma imperiale, oltre alla battaglia demografica in funzione della quale  furono introdotti incentivi e fu creata l'Opera Nazionale per la Maternità e per l'Infanzia, i grandiosi lavori pubblici,  che distrussero parte del patrimonio archeologico della capitale, e la fondazione di nuove città, creavano l'adesione di quegli ambienti che, seppur diversi e per motivi diversi, convergevano tutti nel sogno comune; già prima dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, col cui Trattato si riconosceva la Città del Vaticano come Stato sovrano e col cui Concordato si tradiva il principio liberale e laico della libera Chiesa in libero Stato,  - Patti che inoltre risarcivano con due miliardi di titoli di Stato le perdite subite dalla Chiesa dopo il 1870 -, i rapporti tra i due poteri erano stati improntati a un reciproco riconoscimento, a partire dalla Riforma Gentile che di fatto, inserendo la religione cattolica come materia d'obbligo nelle scuole anche oltre le elementari, la sanciva come religione ufficiale dello Stato. 

L'analisi che dell'ideologia del fascismo fa Bobbio ci risulta importante perché in essa si distingue bene, anche proprio a livello filosofico, ciò che invece talvolta diviene confuso: il piano dello Stato etico e il piano dello Stato forte, ossia quell'apparentemente sottile confine che ha distinto a livello politico il liberalismo dalla dittatura non solo in Italia. Ascoltiamolo a partire dalla sua analisi del fascismo: "Può sembrare un paradosso che una delle tipiche <<ideologie>> del nostro tempo, come il fascismo, si sia presentato di proposito al suo formarsi come un movimento anti-ideologico e abbia fatto consistere la sua novità e la sua forza proprio nel non porsi come ideologia ma come prassi, che non ha altra giustificazione che il successo. Mussolini, fin dar 23 marzo del 1921, aveva detto che <<il fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa vi propone? [...] governare la nazione [...] Noi non crediamo ai programmi dogmatici [...] Noi ci permetteremo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze [...]>>. Questo concetto fu [...] canonizzato, nella voce Dottrina del fascismo dell'Enciclopedia Treccani (1932). [...] affermare, come fecero ripetutamente Mussolini e i suoi seguaci, il primato dell'azione sul pensiero, [...] dell'azione per l'azione [...] è già di per se stessa, in quanto giustificazione di un certo modo d'intendere la politica e di farla, un'ideologia, tanto è vero che vi è un nome per riconoscerla, <<attivismo>>, e una filosofia per spiegarla, <<irrazionalismo>>. [...] Il fascismo, se mai, fu un movimento non tanto anti-ideologico, quanto ispirato, specie nei primi anni, a ideologie negative, o della negazione, dei valori correnti. Fu antidemocratica, antisocialista, antibolscevico, antiparlamentare, antiliberale, anti-tutto. Creò nel suo seno un movimento che si fregiò del nome di <<anti-Europa>>. [...] Mussolini stesso disse che il movimento fascista non era un partito [...] ma un <<anti-partito>> [...] un partito-anti. [...] il fascismo non fu una rivoluzione ma una anti-rivoluzione, o, per usare il termine corrente, una controrivoluzione, che ebbe della rivoluzione alcuni aspetti esterni [...] senza averne il significato storico, anzi rivelandosi un movimento profondamente [...] anti-storico. Proprio perché il fascismo ebbe un'ideologia negativa, poterono confluire in esso varie correnti ideali che erano animate dagli stessi odi senza avere gli stessi amori [...] fu il bacino collettore di tutte le correnti antidemocratiche che erano rimaste per lo più sotterranee o avevano avuto [...] un'espressione quasi esclusivamente letteraria, sino a che il regime democratico aveva bene o male mantenuto le sue promesse [...] e si trasformarono in azione politica quando il regime democratico entrò in crisi. [...] I fascisti eversivi chiedevano al regime di fare la rivoluzione (se pure la rivoluzione degli spostati, degli sradicati, dei reduci, o come si disse con una formula felice, del quinto stato); gli altri miravano soltanto all'instaurazione di uno stato autoritario [...]. Senonché, mentre l'eversione dei primi fu velleitaria e fu facilmente dissolta [...], la restaurazione dei secondi fu una cosa seria, l'unica cosa seria del regime, che venne abolendo via via tutte le conquiste dello stato liberale senza instaurare uno stato socialmente più avanzato. La diversa origine ideologica dei restauratori e degli eversivi si riverberò pure nel foro diverso modo di concepire il fascismo [...]. Il fascismo dei primi fu puramente strumentale [...] come un rimedio salutare, anche se amaro, alla crisi del vecchio stato. Il fascismo degli altri, invece, fu finalistico: l'ideale di chi credeva sinceramente che il mostro bolscevico dovesse essere aperto [...] Il regime, nonostante l'aspetto florido che esso mostrava nelle manifestazioni ufficiali, fu continuamente scosso da correnti sotterranee. [...] Il fascismo dei restauratori poté contare, per il suo consolidamento e la sua propagazione, sull'adesione e sulla partecipazione attiva di Giovanni Gentile che ne divenne l'ascoltato teorico. Gentile (1875-1944) era un uomo intellettualmente vigoroso e moralmente generoso, fatto d'impeti e di slanci ideali, ottimista fino all'ingenuità, con una vocazione profonda all'apostolato filosofico, intese la filosofia come fede nel vento dello Spirito che soffia in ogni cuore, una specie di religione laica [...] Come Croce, pur non avendo mai preso parte attiva [prima del '22] alla vita politica, aveva sempre avuto una concezione militante della filosofia. [...] [In Dopo la vittoria. Nuovi frammenti politici, "Quaderni della 'Voce'", Roma, 1920] Denunciava la crisi morale, che non avrebbe potuto essere risolta se non con una nuova concezione dello stato, non strumento di parte ma organo dell'interesse collettivo, distinguendo la falsa democrazia in cui il popolo pretende di opporsi allo stato da quella vera in cui <<il popolo è esso stesso lo stato>>. [...] Il suo era un liberalismo che concepiva lo stato <<come la stessa volontà individuale nella sua profonda razionalità e legalità>>. [...] Che il liberalismo fosse una dottrina della libertà in cui la libertà dovesse essere vista dal punto di vista non dell'individuo ma dello stato (libertà dello stato, non dallo stato), era una  tesi che derivava dalla concezione stessa dell'eticità dello stato che era in Gentile assai antica e gli veniva da Hegel. [...] liberalismo autentico italiano [...] teorizzato dal neo-hegelismo napoletano [...] due liberalismi, quello atomistico d'origine illuministica, e quello nostrano (e tedesco) [...] [Ma] In realtà Gentile aveva tratto da Hegel più la formula dello stato etico che non la sostanza. Mentre per Hegel, maestro di realismo politico, lo stato appartiene al momento oggettivo dello Spirito, per Gentile diventò un atto dell'unico Soggetto che crea e ricrea dal suo seno tutta la realtà. Se per spiritualismo s'intende la riduzione di ogni realtà all'interiorità, lo spiritualismo ebbe la sua massima espressione nella filosofia di Gentile: il quale, con la sua teoria dello stato non inter homines ma in interiore homine, ridusse a fatto interiore anche la realtà corposissima dello stato. [...] non riconobbe la molteplicità degli stati [...] ripudiò come non speculative e quindi spurie la distinzione tra stato e famiglia, e quella fra stato e società civile [...] A furia di unificare, di semplificare, di ridurre [...] finì per fornire un dotto commentario alla formula mussoliniana <<Tutto nello stato, nulla al di fuori dello stato, nulla contro lo stato>>, la giustificazione filosofica dello stato totalitario."[137]


 


3) Analisi di un carteggio monco: le cartoline e le lettere di Carabellese a Croce

Tornando pertanto agli scritti qui presentati, dalle prime cartoline, brevi e concise, si ricava che Carabellese conosceva già Croce anteriormente alla prima spedizione, poiché non vi è una lettera di presentazione che il giovane Carabellese invii all'illustre uomo di cultura. Quindi si può supporre con un grado ragionevole di certezza che tale conoscenza fosse già avvenuta, forse in concomitanza con gli studi universitari carabellesiani a Napoli e molto probabilmente per il tramite di Giuseppe De Blasiis, amico di Benedetto Croce e Professore di Storia relatore della Tesi di Laurea di Carabellese in Lettere nel 1900 "Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti, intuizioni", nonché Segretario della Società Napoletana di Storia Patria.

Tale conoscenza giovava inizialmente al giovane Carabellese per sottoporre al giudizio illustre di Croce, che dalle lettere emerge essere considerato da lui un punto di riferimento, i suoi scritti di filosofia dopo la seconda Laurea a Roma appunto in Filosofia nel 1905, a partire dal primo La Teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini,  pubblicazione appunto della Tesi di Laurea nel 1907, sottoposto  a tale giudizio nella prima cartolina del 14 ottobre 1908. Lo sfalsamento di un anno tra la pubblicazione e la cartolina, che potrebbe in prima istanza essere attribuito  sia al fatto che non sempre la data di edizione stampata di un'opera corrisponde alla data di distribuzione, che talvolta è posteriore, sia al fatto che la conoscenza tra il neolaureato e il pensatore fosse avvenuta proprio nell'anno intercorso tra la Tesi e la sua pubblicazione, si spiega invece con il contenuto stesso della cartolina, nella quale Carabellese, che scrive a Croce come Direttore de "La Critica", attribuisce la sua mancata risposta a un forte ritardo nella spedizione postale. Ancora riguardo alla prima cartolina, c'è da notare non tanto che Carabellese si firma come professore, evidentemente di scuola superiore - nel cui Liceo di Albano in quel momento insegnava, ma  soprattutto che  sperava ih una recensione su "La Critica" - anche se poi nell'ultima lettera  del 18 giugno 1931 negherà di aver mai "sollecitato recensioni" - , la prestigiosa Rivista  che con la sua importanza avrebbe dato al giovane studioso notorietà tra gli specialisti. E infatti tale recensione si farà: è del 1909 a firma di Gentile[138].



Interessante la seconda cartolina dal fronte di guerra, spedita propria all'inizio della Grande guerra e su cui abbiamo già fatto alcune considerazioni. In essa Carabellese continua a pensare da uomo libero, e si vede proiettato in avanti, al di là e al di sopra della guerra, come filosofo, e in particolare in questo momento come filosofo forale: nonostante la guerra, spedisce nei suoi primi mesi a Croce l'opuscolo su La coscienza morale, stampato a La Spezia (dove prima di essere richiamato alle armi insegnava sempre al Liceo classico) nell'anno prima  in cui ci fu lo scoppio del conflitto in Italia. Carabellese ricorderà poi la discussione su quest'opera, di cui nella cartolina chiede al Senatore un giudizio che sarebbe da ritrovare, dove l'inizio dei suoi attriti con Croce.  Qui non è più solo il giovane studioso che cerca semplicemente un appoggio e un giudizio, ma diviene attivamente inserito in un dibattito nel merito di alcuni problemi fondamentali cella filosofia stessa: qui quello morale della coscienza. Sebbene La coscienza morale sia stata scritta prima dello scoppio della guerra in Italia, la sua spedizione a Croce a sei mesi dall'entrata dell'Italia nel conflitto è indice che la guerra serve allora come detonatore non solo in senso fisico negativo - come portatrice di morte - ma anche in senso morale positivo, ossia proprio nel senso di riattivare un processo di riflessione del sé e della propria coscienza, e di innalzamento prettamente filosofico di tale riflessione al piano universale della coscienza morale di tutti gli uomini. Ancora, la guerra nella sua inutilità abnorme e anomica, di fronte a cui però il senso del dovere verso la Patria, che Carabellese sentiva molto forte come è deducibile da molti suoi scritti, non può far fuggire, riattiva la consapevolezza di sé nel senso di rivelare, come disvelamento dell'aletheia, il proprio sé più puro, la propria volontà e la propria missione nel mondo, quella filosofica, stabilendo un confine tra il dentro della guerra e il fuori del mondo della pace, del mondo degli uomini liberi, una rottura cui si aggiunge la nostalgia e la speranza, che fanno da supporto e da leva su cui inserire la forza di combattere quest'anomia e di continuare, almeno attraverso la meditazione filosofica se non nella vita pratica, a coltivare un giardino di ordine e di norme morali che pur nella sua idealità, preservi dal caos: la spedizione de La coscienza morale è tutto questo e altro ancora. 

Da Pistoia, da dove Carabellese spedisce la terza cartolina del 5 dicembre 1921 e dove insegna al Liceo, dopo il concorso speciale di filosofia nelle scuole superiori del '19,  pur avendo vinto nel '17, come si è detto, la Libera Docenza in Filosofia teoretica, egli accompagna all'invio del conciso messaggio la spedizione di "un mio lavoro, non indegno di discussione". Decifrare a quale lavoro si riferisca implica anche il riferimento alla prima lettera, quella del 6 aprile del 1922, dunque di poco successiva a questa spedizione. Infatti se ad una prima lettura potrebbe apparire che Carabellese faccia riferimento alla Critica del concreto, edita appunto a Pistoia nel 1922, pure la stessa dicitura generica "lavoro", non consona a quella che Carabellese considerava un'opera importante, così come la sua spedizione contestuale alla cartolina, di un anno successive alla stampa, rendono almeno problematica la scelta che si tratti della Critica del concreto. E' infatti molto più probabile che si tratti dell'articolo "Che cos'è la filosofia?", edito nel terzo numero della "Rivista di filosofia" di Bologna nello stesso 1921, quindi di poco precedente la spedizione a Croce. Questi fece più che sottoporlo alla discussione richiestagli da Carabellese: ne fece personalmente una recensione su "La Critica" nel secondo numero del 1922, dunque subito dopo, che poi come si è già detto più volte, ristampò ancora. E il fatto che si tratti di quest'articolo carabellesiano e non dell'importante opera critica è avvalorato anche, come dicevamo, dalla prima vera e propria lettera, quella del 6 aprile 1922, che si apre appunto con un ringraziamento, relativo alla "nota" crociana "sulla natura della filosofia", "per aver tenuto conto del mio opuscolo". E con l'interazione tra la cartolina del '21 e la prima lettera del 6 aprile '22 siamo giunti al cuore filosofico del rapporto tra i due pensatori. Infatti dopo le prime tre cartoline, dall'analisi testuale del documento del '22, emerge che il rapporto con Croce può dirsi consolidato. Lo stile fa riferimento a un discorso sui contenuti quasi alla pari e non più soltanto formale da giudice illustre e potente a giovane desideroso di affermarsi, quale Carabellese appunto non era più: la lettera del '22 è dal punto di vista contenutistico più specificatamente filosofico, se non la più importante, certo la più interessante. Ma già qui si notano le prime discrepanze: Carabellese prende le distanze dalla filosofia dell'idealismo assoluto e dal neohegelismo italiano di Croce e Gentile allora ben radicato nella cultura filosofica, i quali peraltro, come abbiamo visto, di lì a poco dovevano anch'essi dividersi. E sottolinea che questa presa di distanza non è per puro spirito polemico né per differenziarsi, ma "per vederci chiaro", per amore della filosofia. Se la prima e più superficiale occasione è data proprio dalla concezione della filosofia, che fa riferimento come abbiamo visto alla cartolina precedente, all'articolo di Carabellese e alla recensione di Croce, l'oggetto vero della discussione è la "natura della realtà", l'essere, che implica un concetto del divenire che distanzia Carabellese non soltanto da Hegel, ma anche da Gentile e dallo stesso Croce. Egli è consapevole dei rischi che questa differenziazione comporta, ma evidentemente la forza delle idee è maggiore del senso di opportunità, di cui Carabellese non si macchiò mai. Ma questa concezione del divenire, che segna uno spartiacque tra il pensiero carabellesiano e quello allora dominante in area laica, e che inoltre sposta il discorso dal piano metodologico al piano ontologico, piani che Carabellese fa interagire vedendoli giustamente in connessione (si ricordi la sua teoria del problema interno e del problema esterno della filosofia), è originato dalla discussione apparentemente neutra sullo statuto e sulla natura della filosofia. E questa concezione dell'essere che si fa divenire, che potrebbe apparire interna a un orizzonte comune nei quattro pensatori - quello idealistico, implica invece per Carabellese una concezione del tempo anch'essa apparentemente simile perché ontologica, ma in realtà, come lui stesso qui dice, profondamente diversa: il tempo, Carabellese non ne parla qua ma nei suoi scritti editi, è per Carabellese senz'altro innalzato al piano ontologico e non meramente empirico, ma pur in questo innalzamento, è più volte da lui sottolineato come intensivo e non estensivo, ossia implicante una concezione del presente-passato-futuro non lineare e facente riferimento a un modello di sviluppo progressivo, com'è invece per l'idealismo di matrice hegeliana, bensì teorizzato come coimplicito, si potrebbe dire, a partire dal concetto di durata intensiva, che coimplica i tre momenti, seppur distinti, del passato, del presente e del futuro. Si ricordi a questo proposito che la dimensione ontologica che egli attribuisce al tempo e  la sua teoria dell'intensione e non della estensione dei momenti del tempo passato presente e futuro significa durata come venire all'essere dell'essere ma significa anche che i tre momenti del tempo non sono successivi ed esterni l'uno all'altro  come della temporalità lineare che va dal passato al futuro secondo una direzione di sviluppo, ma contemporanei e interni l'uno all'altro. Si ricordi anche la differenza che inserisce tra temporaneità, quantitativa e transeunte, propria del mondo fenomenico, e temporalità, qualitativa e eterna, propria del mondo dell'essere: lo sviluppo lineare unidirezionale del tempo è da Carabellese considerato fenomenico, e forse il suo rifiuto della Creazione biblica (nel senso che abbiamo precisato dell'Antico Testamento) è dovuto al fatto che la sua concezione della temporalità richiama quella di una creazione continua, che in ogni momento si fa e che in ogni momento è gravida al tempo stesso sia del passato che del presente che del futuro. Non c'è dunque un Dio creatore che una volta, all'inizio dei tempi, ha creato il mondo, immettendolo in un processo unidirezionalmente orientato nel tempo nel senso dello sviluppo - e qui avviene il suo distacco da Hegel -, ma c'è un Dio Idea che continuamente, eternamente si crea in un tempo ontologico che è durata intensiva e non estensiva. Una concezione che, come più volte Carabellese sottolinea nelle sue opere, "potrebbe sembrare il ritorno ad una vieta ontologia dogmatica, ma è invece il necessario sviluppo" dell'idea dell'essere: una concezione solo apparentemente medievale ma, ancor prima, antica dell'essere come essere da cui staticità è durata, ossia movimento interno, almeno in questa fase del suo pensiero. Ma Carabellese tralascia la discussione sull'essere e sul tempo ad esso connesso, e torna invece all'occasione della lettera: la filosofia, su cui il dibattito  è aperto e importante per Carabellese soltanto da un punto di vista specialistico, per cui la preoccupazione carabellesiana è che l'identificazione di filosofia e "concreta conoscenza" - di filosofia e storia - conduca la filosofia stessa su una "via senza uscita", dal momento che dal punto di vista più generale dell'importanza della filosofia nella "grande malata che è la società odierna", egli protesta vivamente, chiamando in causa il Congresso che Croce inaugurò a Roma[139]. Carabellese non dice, come invece farà nella prima lettera del 21 maggio del 1931, che per lui la filosofia è sostanzialmente teologia, o, almeno in questa fase, ontologia, e che dunque l'identificazione crociana tra filosofia e storia è per lui foriera di distruzione della filosofia stessa. Noi crediamo che il porre la filosofia su un  piano distinto dalla storia come storia dello Spirito nel suo farsi che nella filosofia ritrova se stesso nella sua massima espressione appartenga a una sfumatura concettuale carabellesiana mirante a evidenziare, più che il piano metafisico su cui è posta la filosofia con l'idealismo assoluto, per un verso il piano contenutistico stessa in cui la filosofia come scienza si articola, per l'altro appunto il suo carattere eminentemente metafisico, liddove metafisico è da intendersi non come status della filosofia stessa, ma come suo oggetto, che in quanto tale si preciserà poi, nella prima lettera del 1931, essere teologico.

C'è infine da notare in questa lettera che Carabellese mostra da un lato di conoscere e seguire molto da vicino - pur non condividendone come si è visto la concezione del divenire, e quindi della realtà, la concezione ontologica - le opere dell'idealismo hegeliano e del neoidealismo italiano, dall'altro di individuarne le difficoltà, dall'altro ancora di stare riflettendo sul modo per superarle, cosicché emerge che la sua posizione nei confronti ai questa scuola e del suo diretto riferimento non è polemica ma costruttiva nel comune intento ideale di una metafisica unitaria che costituisca anche un avanzamento del pensiero filosofico. Questa comune concezione metafisica che superi le difficoltà che Carabellese vede ancora insite nel sistema hegeliano e nei suoi diretti prosecutori in Italia trova secondo Carabellese il suo centro nel divenire: è esso il nodo delle difficoltà, è da esso che bisogna partire per scioglierle e far avanzare il pensiero, ed è dunque sulla concezione del tempo che Carabellese programmaticamente intende riflettere.

E se il centro apparente della lettera è sulla concezione della filosofia, essa, che si è aperta a partire dalla "nota" crociana sulla natura della filosofia,  ritorna nel prosieguo a quella nota stessa, sulla quale Carabellese dice di voler dedicare qualche riflessione da pubblicare o sul "Giornale storico …" diretto da Gentile[140] - cosa che non ha mai fatto - o sulla stessa "Rivista di filosofia", che, pure da lui frequentato più volte, non ospitò alcun suo articolo posteriore sulla concezione della filosofia né in se stessa né di Croce. Il punto che in questo prosieguo della lettera diviene finalmente esplicito è la questione della filosofia come storia sostenuta da Croce, e Carabellese vede chiaro nella distinzione che fa tra la storia come forma di conoscenza, ossia storiografia,  e la storia come "equivalente puro e semplice di conoscenza", ossia come identificazione tra storia e conoscenza, distinzione che a suo parere invece in Croce è confusa. Carabellese chiede a Croce di meditare sulla sua concezione della storia e su questa distinzione a partire dalla Critica del concreto, sperando in un'ulteriore scambio epistolare nel dare le coordinate dei suoi futuri spostamenti.

Nella lettera n. 5 del 20 luglio 1925, la prima delle due di questo anno, Carabellese si spinge a chiamare Croce "Maestro", forse anche in seguito al Manifesto crociano contro il fascismo da poco pubblicato, e nella chiusa esprime il senso del suo consolidato affetto. Il motivo della breve lettera è la speranza, poi delusa dai fatti,  che Croce collabori al volume collettaneo Scritti filosofici pubblicati per le onoranze nazionali a Bernardino Varisco nel suo LXXV anno di età, cui invece aderirono, oltre a Carabellese, vecchio allievo di Varisco,  Antonio Aliotta, Armando Carlini, G. Castelli, Francesco De Sarlo, Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Piero Martinetti, R. Mondolfo, A. Pastore e G. Vidari. La presentazione del volume, edito dalla Vallecchi di Firenze nel 1925, avverrà durante le onoranze stesse previste, e poi rimandate, per il novembre di quello stesso anno. Carabellese vi contribuirà col saggio "La storia".

Ma dopo pochi mesi dello stesso 1925, il 16 novembre, Carabellese spedisce una seconda lettera,  la n. 6, come sollecitazione a che Croce collabori al volume in onore di Varisco. Egli insiste anche perché la stampa è in ritardo, e non manca di sottolineare che l'astensione di Croce potrebbe generare degli equivoci, e di invogliarlo con l'elenco dei partecipanti. Come nella lettera precedente, comunica il suo nuovo indirizzo di Roma, nonostante insegni dal 1923 Filosofia teoretica all'Università di Palermo, sua prima sede come docente di ruolo. La lettera n. 1, penultima in assoluto e il primo scritto del 1931, è su carta intestata della Scuola di Filosofia della Reale Università degli Studi di Roma, cui Carabellese è giunto nel '29 sulla Cattedra di Storia della Filosofia, e anche qui di nuovo Carabellese comunica un cambio di indirizzo privato. L'occasione all'origine della lettera è l'omaggio dell'opera Il problema teologico come filosofia, che segna il punto in cui più chiaramente Carabellese esprime la sua concezione della filosofia come teologia, distaccandosi sia dalla neoscolastica sia dal neoidealismo: la filosofia è teologia e dunque non storia, ma questa teologia è laica e prettamente filosofica, non è traduzione in termini filosofico di dogmi della Chiesa. Ma la lettera è molto più complessa di un biglietto di accompagnamento di un dono.

E' la lettera più amara, da cui emerge la delusione nei confronti di Croce, in cui evidentemente Carabellese aveva riposto non poche speranze per un rinnovamento della filosofia in Italia nel senso da lui auspicato. Ed è una lettera anche violenta, a suo modo, non solo nei concetti ma anche nella stessa scelta delle parole, che sembrano, contrariamente a prima, non sufficientemente ponderate, ma espresse sotto l'onda di una forte tensione emotiva, testimoniata anche dalla grafia non omogenea ma in alcuni punti addirittura disordinata. Ed è una lettera violenta perché in essa Carabellese accusa Croce di aver seppellito la filosofia, ma è anche la lettera di un filosofo che denuncia la sua solitudine, la solitudine di chi crede nella filosofia - contro la superstizione - come, appunto, teologia, ossia proposizione del problema di Dio come problema originario. E' la prima lettera polemica, anche a partire dalla sottolineatura che nel Problema teologico è ripresa una vecchia polemica tra Carabellese e Croce. Infatti ha ragione Carabellese a augurarsi che Croce non se ne abbia a male, poiché lì, con toni anche molto aspri,  è detto: "Il vuotare dell'oggetto la filosofia con la negazione della cosa in sé era quindi un inconsapevole tentativo di uccisione di essa."[141]: ecco spiegata l'accusa a Croce della lettera di aver seppellito la filosofia. "Il Croce oggi in Italia proclama trionfalmente ed esplicitamente come suo specifico atto di vita quella uccisione (Critica, 1930, parc. 3o). Ciò proclamando [...] si mostra solo di non sentire quelli che veramente sono i <<problemi morti>> della filosofia [...] Lo stesso Croce poi, che allora, nella cortese risposta che mi fece, in fondo ripudiava detto annullamento, perché esso riguardava <<la filosofia cha si costruisca una volta per sempre, come sistema definitivo>> ed ammetteva invece <<che la filosofia è perpetua e necessaria>> e che v'ha quindi una <<filosofia in senso stretto, lavoro più propriamente del filosofo>> (Critica, 1962, fasc. 2o), ora vuol essere giudicato come colui che questo <<Filosofo>> ha fatto morire [...] e si è reso quindi <<procuratore di morte>>, in quanto <<con una nuova orientazione data alla filosofia,  capata col tirar le somme delle speculazioni precedenti>>, ha dimostrato che <<l'unico e supremo problema ... era insolubile perché non sussisteva, e non sussisteva perché, attentamente considerato, si spiegava nient'altro che la confusa totalità degli infiniti problemi particolari, ciascuno solubile ed esauribile per sé, ma inesauribili in quella totalità, ossia esauribili solo all'infinito, nella infinità della vita e del pensiero>> (Critica, 1930, fasc. 3o). Il Croce sa che io alla sua filosofia non obietto il <<far valere la distinzione nell'unità>> [...]. Né gli ricorderò che l'unità nella quale si deve far valere la distinzione, non è la totalità [...] E' [la filosofia di Croce] una nuova rivelazione dogmatica [...]? [...] questo discuterla sarà un ricercare se eventualmente non ci debba essere nella filosofia quella caratteristica unità di concetto e di problema, che il Croce non vede. [...] trova inconcludente il filosofo nella sua singolarità. E' appunto quella inconcludenza che fa l'eternità della filosofia [...] conclude il Croce (ib.) <<queste ed altre personificazioni della figura del <<Filosofo>> [...] sembrano vive, e vive non sono nel mondo del pensiero, che è quello del progresso del pensiero>>. [...] bisogna andar cauti nel giudicare, all'ingrosso, che siffatte personificazioni, <<che sembrano vive>>, <<vive non sono nel mondo del pensiero>>. Giacché del contribuire ad un vero <<progresso del pensiero>>  non si ha mai pronto e sicuro l'indizio e tanto meno la prova: [...] vedranno poi: ora non si può e non so deve [...] l'annullamento della filosofia come tale e cioè come avente un proprio fondamentale oggetto e problema, dal quale tutti gli altri rampollano, consegue dallo sviluppo parziale ed erroneo dato alla posizione kantiana [...] Il Croce dirà che, anche con siffatte discussioni critiche, si farà della <<metodologia della storia>>. Si ammetta per un momento. Vuol dire che questo sarà il problema specifico della filosofia. Ma noi pur veniam mostrando che questo problema ha il suo principio in un altro più profondo, senza risolvere il quale il problema della metodologia rimane campato in aria. Con esso forse la filosofia diventa ... teologizzante; ma dimostra anche così che può, e deve, esser tale, pur senza essere una fideistica chiosa né della Bibbia né di alcun'altra rivelazione scritta, compresa, se mai, anche quella apocalitticamente antiteologica del Croce." Ecco il punto vero della questione, e della polemica, che qui si fa più esplicita che mai tanto da lasciare interdetti riguardo al fatto che Carabellese donasse a Croce copia di un lavoro contenente pagine tanto aspre: la concezione della filosofia come metodologia della storia, l'identificazione crociana tra filosofia e storia, al di là dell'"uccisione del filosofo nella sua singolarità", lascia fuori per Carabellese il problema originario, ossia il problema dell'essere, che per lui è il problema di Dio (sebbene, come appare chiaro, non del Dio della teologia biblica ma del Dio dei filosofi), e che invece secondo Carabellese per Croce deve essere espunto dalla filosofia. Così questa lettera del 21 maggio 1931 si ricollega alla prima vera e propria lettera del 6 aprile 1922, interagendo con essa in una sinergia che porta alla luce come il problema della filosofia, da cui la polemica tra i due pensatori ha origine, sia in realtà problema della concezione della realtà. Abbiamo già detto che a nostro parere questa polemica è incentrata non su un'assoluta distanza tra le due concezioni, bensì originata da una ben più sottile distinzione, ossia per un verso dalla specifica sfumatura teologica che Carabellese dà al problema dell'essere rispetto a una filosofia crociana che secondo Carabellese voleva essere laica in senso forte, pieno,  e per l'altro da una non completa comprensione carabellesiana per il livello a cui Croce poneva l'identificazione di filosofia e storia, che non era meramente empirico bensì, hegelianamente, eminentemente metafisico. Su questo livello inteso radicalmente, è chiaro che la necessaria conseguenza forse l'"uccisione del filosofo nella sua singolarità", uccisione a cui una filosofia come quella di Carabellese, che aveva viceversa posto su di un piano metafisico proprio i soggetti nella loro singolarità molteplice - e dunque anche i filosofi, attraverso i quali soltanto la filosofia è e può essere -, non poteva dare la propria adesione. Nonostante Carabellese si sia professato più volte antihegeliano - e noi crediamo, proprio dai motivi esplicitati ne  L'idealismo italiano, che quest'antihegelismo fosse non totale ma relativo a ciascuni, seppur fondamentali, relativi aspetti talvolta malintesi, e non riguardasse il comune orizzonte dell'idealismo oggettivo e non solo quello (ma ripercorrerne ora i luoghi non è possibile), noi ribadiamo quanto detto a proposito della lettera del 6 aprile 1922, ossia che qui si tratta di una diversa interpretazione di un nucleo originato proprio da Hegel: si tratta cioè di intendersi sul livello sul quale si pone e sulla prospettiva dalla quale si guarda al concetto di filosofia, al concetto di storia, al concetto di soggetto che quella filosofia e quella storia oggettivano, al concetto di essere, al concetto di Dio. Evidentemente la polemica Carabellese-Croce, che a giudicare dalle lettere coprì l'arco di un ventennio, ma che noi sappiamo dalle opere posteriori ben più lunga e perciò anche per questo ben diversa da quella del 1936 con Carlini, ebbe molti luoghi per svilupparsi, oltre quelli fugacemente toccati dalle lettere e quelli da noi qui sommariamente accennati, luoghi non necessariamente pubblici ma, almeno in un primo tempo, anche privati, e luoghi che fecero essere quella polemica, più che appunto una polemica, un proficuo scambio intellettuale che, se non giovò a Croce, sicuramente giovò a Carabellese, che traeva da quelle discussioni, come abbiamo visto attentamente meditate assieme alle opere hegeliane e neoidealiste da cui erano originate, motivo di un continuo ripensamento al fine di un continuo smussamento delle asperità e delle incongruenze della sua stessa filosofia, lo scopo comune restando quello di un progresso della filosofia e non di una difesa delle proprie posizioni.

Nella lettera questa polemica si stempera giungendo a toccare corde estremamente intime che rivendicano lo sforzo che come filosofo Carabellese ha compiuto, quasi a ripercorrere con la memoria tutto il percorso fatto, per ribadirlo, per sottolinearne il valore se non riconosciuto da altri, almeno personale: Carabellese parla qui di "decenni di angoscia" contro il silenzio che circonda il problema della filosofia come problema teologico, o peggio, ripeto, contro la superstizione. Infatti evidentemente pensa che trascurare la concezione della filosofia come teologia significhi dare spazio alla superstizione, ossia a una concezione della religione che è popolare nel senso deteriore del termine, che è di tutti nel senso che coagula intorno a sé il minimum su cui tutti possono intendersi, appunto superstizione, negando l'elevazione spirituale a cui una corretta concezione della religione, così come una corretta concezione della filosofia, potrebbero far giungere l'uomo. E' qui sottintesa tutta l'acredine, e l'amarezza, verso la religione dell'apparato, dell'apparenza: è qui l'uomo Carabellese contro l'idolatria, è qui il filosofo Carabellese profondamente spirituale.

Carabellese è consapevole di aver in questa lettera in qualche modo superato il limite che separa la scrittura ad un eminente collega dalla scrittura  personale e dall'invettiva, e nella chiusa spera, quasi a scusarsi, che Croce conservi di lui "l'opinione benevola che una volta aveva".  

L'ottavo scritto di questa piccola raccolta, il secondo del 1931, è una lunga cartolina del 2 giugno, ancora su carta intestata della Scuola di Filosofia della Reale Università di Roma, ancora, come la lettera precedente, diretta a Sua Eccellenza e rammentante il nuovo indirizzo. La dimostrazione che Croce rispondesse a queste lettere di Carabellese è proprio nell'apertura di questa cartolina, che fa appunto riferimento ad una corrispettiva da lui spedita in precedenza, evidentemente prima che gli giungesse la lettera che abbiamo appena lasciato, se è vero, come è vero, che Carabellese chiede conferma del suo arrivo congiuntamente al volume, che è Il problema teologico come filosofia. La cartolina, pur nella sua intrinseca brevità, è interessante perché in essa il  riferimento ai "puri folli" della cui schiera, se rettamente intesa, Carabellese amerebbe far parte, ci dice molte cose. Innanzitutto che evidentemente Croce aveva così definito altrove un certo modo di far filosofia, poi perché Carabellese, come già per quel giudizio crociano del 1930 di "inconcludenza sublime" della sua filosofia, capovolge anche qui in modo positivo il senso dell'espressione di Croce: i puri folli sono per lui allora "quegli spiriti nobili che nobilmente vivono la filosofia", e questa nobile follia "ineliminabile" consiste nel fatto che "si ammette qualche cosa 'che si sa di non poter mai trovare'", ma che nonostante ciò si cerca, pur sapendosi in solitudine, e questa ricerca infinita, che ha la propria ragione in se stessa e nel suo oggetto e - Carabellese non lo dice - nella fede, "darà così - e ha sempre data - più chiara coscienza ai savi". Ritorna il motivo a nostro parere centrale in tutta la filosofia di Carabellese, il motivo teologico, che queste lettere, soprattutto come si è visto queste ultime, portano alla luce in modo evidente agendo come supporto del percorso oggettivato nelle opere.

 

Al 1931 appartiene anche l'ultima lettera ritrovata, quello del 18 giugno, che si colloca dunque  a distanza ravvicinata non solo dalla cartolina precedente, ma anche dalla prima lettera dello stesso anno: nel breve giro di meno di un mese Carabellese scrive a Croce le sue ultime tre missive, dopo un lungo silenzio che durava dal 1925. L'occasione è ancora una volta apparentemente l'invio di un'opera, in questo caso di nuovo Il problema teologico come filosofia e in questo caso accompagnato da "due precedenti lavori storici (o, se si vuole, critica storica della filosofia)" che anticipano nei contenuti l'opera del '31. La vaghezza di Carabellese rispetto ad essi può essere diradata con un grado accettabile di approssimazione: potrebbero essere Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni I: Kant, del 1928, e Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), del 1929, il secondo in particolare in primo luogo perché le recensioni che lo riguardano iniziano tutte dal 1931, data della lettera. Ma soprattutto è ipotizzabile che si tratti di tali opere, e non, per esempio, de La filosofia di Kant I: L'idea teologica, del 1927, che pure avrebbe con Il problema teologico una affinità di tema pur nella lontananza cronologica con quest'opera e inoltre sarebbe anch'essa un "lavoro storico", perché ci sembra che le due opere succitate rientrano meglio nell'orizzonte di discussione che si era aperto con Croce e che tutte le lettere testimoniano: il concetto della filosofia. Allora opere storiche come quelle, che sostengono la teoresi,  e opere teoretiche come Il problema teologico come filosofia, che sviluppano la storia, si sostengono vicendevolmente, convergendo tutte nel medesimo fine che Carabellese si poneva non soltanto nei confronti di Croce: ribadire una concezione della filosofia come teologia che trova le sue radici storiche nel criticismo kantiano, inteso però non come criticismo metafisico ma, secondo l'interpretazione originale data da Carabellese di Kant, come metafisica critica. Questa metafisica de cui Carabellese prende le mosse per svilupparla, e che costituisce il punto di arrivo della prima opera storica, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni I: Kant, viene ripresa nella seconda opera di carattere storico, Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), e messa a confronto con le interpretazioni post-kantiane a partire da Reinhold sino appunto all'idealismo fichtiano, per mostrare come il post-kantismo, compreso l'idealismo soggettivo, abbia deviato dall'idea kantiana di una nuova metafisica incentrata, come vuole Carabellese in questa fase critica del  suo pensiero, nel concetto di cosa in sé, negandola e poi eliminandola dal pensiero. E' qui che si inserisce Il problema teologico come filosofia, che appunto perciò costituisce, assieme agli altri due volumi, l'oggetto della spedizione a Croce: esso riprende sul piano teoretico, a partire dal capitolo primo "E' possibile una metafisica critica?" passando per il capitolo quarto "La cosa in sé" a finire con il quinto su L'esperienza", ciò che le altre due opere, seppur tagliate teoreticamente, argomentavano da un punto di vista storico. Ma nello stesso tempo sviluppa, a partire da qui, la propria direzione di ricerca autonoma: la cosa in sé come Oggetto puro è Dio, oggetto tematico della filosofia. Torniamo così al problema della filosofia in discussione con Croce, cui perciò tale spedizione congiunta per questo verso continua lo scambio teoretico sul concetto stesso di filosofia che vede i due pensatori impegnati già dalla terza cartolina del 1921 e poi in modo argomentato dalla prima lettera del 6 aprile del '22 - dove, lo ricordiamo, è esplicito il legame con la metafisica -, per l'altro verso questa spedizione nasconde la speranza di una recensione. E Carabellese, che è consapevole del percorso che nel loro insieme i tre volumi presentano, non a caso nella lettera paventa che su "La Critica" essi vengano insieme recensiti, aggiungendo subito dopo che l'operazione non è delle più semplici, per nessuno dei suoi lavori. E' come se Carabellese avesse affidato a Croce attraverso queste tre opere tutto intero il suo proprio pensiero, così come esso si era ormai definito sappiamo non in assoluto ma in quegli anni del periodo critico: è come se Carabellese avesse chiesto a Croce in quest'ultima lettera di comprendere la sua filosofia non soltanto nell'hic et nunc del singolo articolo, della singola opera, della singola frase, ma del farsi esplicito del percorso nel suo insieme, così come esso era a quel punto giunto. Questa comprensione forse non ci fu, sicuramente non ci fu la recensione integrata che Carabellese sperava su "La Critica". Anzi Croce ha appena cambiato, in Eternità e storicità della filosofia, del 1930, il titolo della recensione "Che cos'è la filosofia" in giudizio di "inconcludenza sublime" della filosofia carabellesiana - giudizio che ribadirà nel 1942 in Ultimi saggi -, e forse anche per questo le tre opere integrate volevano offrirne una visione diversa. Dopo questa lettera, dunque, non ce ne furono altre, né sappiamo se e quali rapporti, dopo di essa, legarono i due pensatori: forse Croce fu definitivamente scosso di lì a pochi mesi dalla firma carabellesiana al "Giuramento" cui furono sottoposti i Professori universitari dal regime.  Comunque, la lettera prosegue riallacciandosi al discorso relativo alle tre opere, nel senso di esplicitare quel loro legame come "problema storico del Criticismo connesso all'integrazione, o capovolgimento, del principio speculativo". Qui si nota il primo segno di quel rapporto tra criticismo e metafisica, su cui ci siamo soffermati nell'Introduzione, che Carabellese porterà alla luce nei suoi anni più tardi, per cui può dirsi che il 1931, con Il problema teologico come filosofia, è sì un punto di arrivo ma anche un nuovo punto di partenza per la speculazione carabellesiana. Qui, in queste poche parole,  è veramente il Carabellese storico della filosofia orientato dalla teoresi nell'interazione tra Kant e Hegel: la stessa scelta del termine "speculativo" rimanda ad Hegel, mentre il rimando al criticismo kantiano è esplicito. Ma subito dopo Carabellese rimarca la sua distanza dall'hegelismo inteso come dialettica, che è contemporanea distanza, ma pure sviluppo,  da Croce: nel ricordare una conversazione privata in cui Croce parla di bendetta che è sviluppo del suo proprio pensiero, Carabellese ribadisce per lettera ciò che rende esplicito in molti suoi scritti, il rifiuto della negazione dialettica, o della dialettica come negazione: lo Spirito non può negare. La negazione dialettica allora che Carabellese accetterebbe, ci permettiamo di integrare, sarebbe solo da porsi su di un piano diverso da quello dello Spirito, sul piano empirico, mai su quello assoluto. La negazione è perciò, in quanto empirica, relativa nel senso di essere propria di esseri in relazione tra loro, giammai universale nel senso di assoluta. Al di fuori dell'Assoluto, così come al di dentro come sua propria caratteristica, la negazione è per Carabellese impensabile: essa può appartenere solo al livello intra homines, ossia dell'interazione tra gli spiriti individuati, in cui la negazione si pone come limitazione in senso orizzontale - non verticale -, della libertà di ciascuno. In questo senso la negazione è allora negazione in sé delle libertà dall'altro, è negazione all'interno della manifestazione dell'essere, non dell'essere stesso. Ma con ciò siamo andati molto oltre le lettere, e anche oltre il periodo critico di Carabellese, che consideriamo il periodo maturo, per addentrarci nel periodo metafisico, che egli non ebbe il tempo di definire come tale, né di definire nella sua sistematicità.  

DOCUMENTI Legenda: tra " " virgolette tutto ciò che è scritto o stampato o timbrato, tra ' ' apici le virgolette interne al testo, fuori dalle virgolette miei chiarimenti, tra [ ] parentesi quadre aggiunte mie o ? punti interrogativi quando non è chiaro lo scritto.

Le lettere sono ovviamente tutte scritte a mano con penna stilografica.

 

 

 

 

 

Rinvenimento n. 1: 1908 "Cartolina postale con risposta (Cent.[csimi] 15)" spedita da Albano Laziale il 12 ottobre 1908 (fa fede il timbro postale) "All'illustre Benedetto Croce, Direttore de 'La Critica', Via Atri 23, Napoli" e corretta cancellando la via e inserendo "presso l'avv. Logaris[?], Raiano, Aquila", ricevuta a Raiano il 14 ottobre 1908 (timbro).

Testo:

"Albano 11 ottobre 1908

Ill.mo Direttore, la prego di dirmi se nei primi mesi del corrente anno ricevette da Bari due copie di un mio lavoro sulla 'Percezione intellettiva di A. Rosmini', avendomi l'editore assicurato di avergliele spedite. Sarei anche desideroso di sapere se di esso sarà fatta, sulla autorevole sua Rivista, una recensione. Ringraziandola ed ossequiandola mi dico di lei

Devot.mo

Prof. Pantaleo       Carabellese"

 

 

 

 

 

 

 

 

Rinvenimento n. 2: 1915

"Cartolina postale" militare "Cognome Carabellese, Nome Pantaleo, Grado tenente, 03o Regg. M. T. 209o Battaglione 9a Compagnia 5o Corpo d'Armata, ZONA DI GUERRA" con timbro "Posta militare 18 sett. 1915 Assisi[?]" timbro di ricevimento illegibile tranne "Napoli", spedita "Al Sig. Senatore Benedetto Croce, Napoli"

Testo:

"17/Set./915

Stimat.mo Senatore, mi sono permesso inviarLe in omaggio un mio breve saggio su La coscienza morale, che m'auguro vorrà gradire e di cui spero vorrà darmi giudizio.

Cordialmente ossequiandoLa

Devot.mo PCarabellese"

 

Rinvenimento n. 3: 1921

"Cartolina postale italiana. Risposta" con timbro "Pistoia 5.12.21" spedita "A B. Croce, Trinità Maggiore 12, Napoli"

Testo:

"Pistoia 5 Dic. 1921

Eccellenza, Le invio un mio lavoro che non mi pare indegno di discussione. M'auguro che Lei sia dello stesso avviso.

OssequiandoLo Devoto PCarabellese"

 

 

 

Rinvenimento n. 4: Lettera 1922

"Bisceglie 6 Aprile 1922

Eccellenza, leggo ora qui la sua nota riguardo alla natura della filosofia e non voglio tardare a ringraziarLa per aver in qualche modo tenuto conto del mio opuscolo.

Credo però che il concetto che in me si è venuto mano mano chiarendo della filosofia non si possa discutere ed intendere senza affrontare la discussione della natura della realtà. Il mio 'divenire', non è precisamente quello di Hegel o del Gentile e neppure il suo.

Col che non voglio affatto dire che io ci tenga a differenziare il mio dal loro pensiero. Se vorrà occuparsi di quel pochissimo ch'io ho scritto, vedrà in quanto conto ho tenuto le loro indagini ch'io non faccia altro che mettere in evidenza le difficoltà che ci sono da superare  e la via che mi sembra che meni a ciò.  Questa via mi pare stia in una più prof[onda, poi cancellato "più prof"] comprensione del tempo un po' più profonda e diversa da quella che [aggiunto sopra] finora si è [aggiunti sopra] fatta. nel campo filosofico [poi cancellato] Se mi riuscirà di ripormi sul serio al lavoro assiduamente (si può dire che dal 1915 in poi ciò non ho più fatto) spero di cavarne qualcosetta che potrà non essere del tutto inutile nel campo filosofico.

Quanto all'idea centrale del mio articolo sulla filosofia, che non è da vedersi in una ricerca ed affermazione dell'esatto concetto di filosofia, il quale è soltanto una conseguenza dell'indagine, ma nella dimostrazione della via senza uscita in cui la filosofia si pone concependosi come la concreta conoscenza senz'altro. E' questa dimostrazione che bisogna ribattere.

Le aggiungo che quando cominciai a vivere l'arte [?] avevo anch'io la stessa concezione della filosofia e volevo soltanto protestare contro il chiamar che si faceva la filosofia al letto di questa grande malata che è la società odierna, la filosofia .. come il solo medico (e anche Lei al riguardo ha qualche punto: inaugurò il congresso di Roma che voleva far proprio questo e che appunto mi suggerì la protesta). Ma, messomi a scrivere, vidi invece che bisognava cercar prima di intendere la natura di questa filosofia. E ne venne fuori l'artic. qual è della [cancellatura] utilità  sui generis della filosofia, della sua non-vanità, volevo e dovevo occuparmi subito dopo e ... non l'ho fatto ancora.

Ora non so se in una noterella che pubblicherei sul "Giornale storico..." del Gentile e sulla stessa Riv. di fil. scriverò qualcosa limitandomi agli argomenti da Lei esposti nella sua nota. [cancellatura] Voglio aggiungere ancora subito: certo sarebbe indegno di chi si occupi un po' seriamente di filosofia dire che chi ritiene che [aggiunto sopra]

la filosofia sia storia, debba anche ritenere che Spinoza e Kant non abbiano fatto nulla al mondo; ma non vede che questo voleva essere un portare all'assurdo la sua teoria, che, a mio modo di vedere, importa [cancellato] suppone [scritto sopra la cancellatura] una certa confusione tra la storia come determinata forma di conoscenza e la storia come equivalente pura e semplice di conoscenza?

Ma non è il caso di mettermi ora a discutere per lettera. Se Lei si compiacerà di riprendere in esame le mie idee discutendo la "Critica del concreto" son sicuro che vedrà che la quistione non è così semplice e che io non ci tengo affatto a differenziarmi, ma ci tengo a veder chiaro.

In ogni modo rinnovo i miei ringraziamenti cordialissimi e credo di non aver bisogno di professarle i sensi della più alta stima che sono meglio espressi in tutto quel pochissimo ch'io finora ho fatto.

Coi più cordiali e deferenti saluti ed ossequi

Devot.mo

PCarabellese

P.S. Molto facilmente mi tratterrò qui a Bisceglie fino all'11 [19?] c.m. Poi sarò a Venezia - Ispettorato per le scuole medie."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rinvenimento n. 5: Lettera 1925

"Roma - Via Mario Clementi 64 -

20/7/925

Illustre Maestro, Ella non mi promise, ma pur mi lasciò sperare un suo  [cancellatura] articolo per il volume di scritti in onore di B. Varisco. Anche personalmente Le sarei [...]tissimo se ci desse qualcosa anche breve. Il volume sarà stampato in questi mesi estivi e le onoranze saranno tributate in Novembre.

Con la più viva speranza e con i più distinti ed affettuosi ossequi

Devot.mo

PCarabellese"

Rinvenimento n. 6: Seconda lettera 1923

"Roma 16/11/925

Illustre Maestro, perdoni se insisto nel chiederLe uno scritto per il volume di "Scritti filosofici" in onore del Varisco. Si farebbe ancora in tempo, perché soltanto ora il Vallecchi mette mano alla composizione.

E mi permetta di farLe considerare che il suo nome non deve mancare in un volume che vuol rendere onore ad uno studioso serio quanto modesto, e che so che Lei stima non poco. La sua potrebbe parere una voluta astensione

certo non è.

Mi abbia con i più distinti e cordiali ossequi

Devot.mo

PCarabellese

Via Mario Clementi 64

Roma

P.S. Il volume conterrà scritti di Gentile, Martinetti, De Sarlo, Mondolfo, Caraini, Vidari, Pastore, Aliotta, Lombarbo-Radice, Castelli, Carabellese. Ho piena fiducia di poter aggiungere il suo nome. Un autorevole collaboratore ha manifestato il desiderio che gli scritti siano messi in ordine alfabetico di autori, e naturalmente converrà contentarlo."

 

 

Rinvenimento n. 7: Prima lettera del 1931

"R. Università degli Studi

Roma

Scuola di Filosofia

Roma (19)

Via Staderari, 19 - telef. 53402     


Roma. Via della Cisa 16

21/Mag./931

Eccellenza, Le spedisco il mio ultimo volume su "Il problema teologico come filosofia".

Ho dovuto riprendere in una nota un mio vecchio motivo polemico.


V'auguro non vorrà aversene  a male, anche se, com'è naturale, non vorrà desistere dal persuadere ad andarsene all'altro mondo in santa pace, chi ancora insiste a fare (o creder di fare) la filosofia, come tale, oggetto della sua, quale che si sia, attività produttiva. Vorrà permettere senza ira o disdegno, una protesta o almeno un saluto di morituro a chi sente di non appartenere alla filosofia che Lei efficacemente ha contribuito a seppellire ma pur sente altrettanto vivamente che filosofia come tale dovrà continuare a darne e che perciò ci dovranno pur essere (e siamo pochissimi) quelli che la facciano.

Io non so se lo sforzo filosofico ch'io vado tentando, abbia un qualche valore o se meriti sia pur minimamente tal nome. So questo soltanto che molto volentieri  avrei fatto a meno di tormentarmi  su questo problema che da decine d'anni mi angoscia per occuparmi d'altro che può sembrar più concreto, ma vedo che l'eliminazione che se ne fa e peggio il silenzio che se ne serba, non sono giustificati. Se ne deve quindi, in un modo o in un altro continuare a parlare. Non parlarne è far soddisfare  l'esigenza del porre il problema, della superstizione, è quindi fomentarla.

Mi scusi se mi son preso la libertà di scriverLe.

Mi piace credere che Ella non abbia a mio riguardo mutata quella opinione, credo benevola, che una volta aveva.

Con cordiale ossequio

Devot.mo

PCarabellese"

 

 

 

 

 

Rirvenimento n. 8: cartolina 1931 (II scritto)

"R. Università di Roma - Scuola di Filosofia" timbro "Roma 2 VI 1931" "A S. E. Benedetto Croce, Trinità Maggiore 12, Napoli"

Testo:

"Roma - Via della Cisa 16 - 2 Giugno 1931

Eccellenza, La ringrazio della sua cartolina e La prego di avvertirmi se ha poi ricevuto il volume che Le fu poi spedito  raccomandato insieme con la lettera. M'auguro di non passare per 'puro folle': o viceversa ambirei grandemente di esser giudicato, o di essere, tale, se puri folli Ella ora ritiene quegli spiriti dalle cui opere filosofiche ha pur dedotto la filosofia come pura follia. E del resto quanto non può una nobile follia nobilmente vissuta? Giacché quella follia è ineliminabile finché si ammette una qualche cosa 'che si sa di non poter mai trovare'. Ci saranno pochi folli che quella ammissione vorran vedere  che significa. E quindi 'cercheranno'. Quei folli daranno così - e han sempre data - [aggiunto sopra] più chiara coscienza ai savi. Ma non anticipiamo. Mi abbia sempre con profonda stima e ossequio

Suo PCarabellese"

 

 

 

 

 

 

 

Rinvenimento n. 9: Seconda lettera 1931 (III scritto)

"R. Università degli Studi

Roma

Scuola di Filosofia

Roma (19)

Via Staderari, 49 - telef. 53402


Roma - Via della Cisa 16

18/6/931


Eccellenza, Le ho fatto rispedire il mio vol. su Il problema teolog., e ho fatto reclamare alla posta per l'invio precedente.

Mi sono permesso mandarLe insieme i miei due preced. lavori storici (o, se si vuole, critica storica della filos.) nei quali è già implicita l'idea sviluppata nell'ult. volume.

Credo che a suo tempo gli editori li [aggiunto sopra] abbiano inviati alla Critica; ma non sarà inutile un'altra copia per il caso che Ella voglia  incaricar qualcuno di trattarne insieme con l'ult. vol.

Io non ho mai sollecitato recensioni, sia perché ciò mi ripugna, sia perché so che non dev'essere agevole recensire. qualsiasi mio lavoro che obbliga a dare a/taluni e fondamentali [aggiunto sopra] concetti, precisi e determinati significati ch'io ritengo i veri. E naturalmente niuno sente di sobbarcarsi a tal fatica per un qualunque x che scriva di filosofia.

E tanto meno si sente quanto meno si vede un qualsiasi risultato che se ne consegua nel vivere umano sociale politico e forse anche culturale. Risultato che l'A. [=l'Autore] ci tiene a non mettere in evidenza come tale, perché risultato dev'essere e non fine del filosofare, quale l'A. l'intende.

Non ostante ciò, mi piacerebbe che una buona volta si cominciasse ad intendere il problema storico dello sviluppo del Criticismo quale io lo vedo, e la connessa integrazione, o capovolgimento se si vuole, del principio speculativo. Lei una volta mi diceva di aver prima intravista come una vendetta ch'io facevo del suo pensiero, e di avermi poi persuaso che ne era invece uno sviluppo. Ebbene è sviluppo che è vendetta. E in questo sta forse il Criticismo, al quale, e non al dialettismo, no credo debbasi ridurre il filosofare.  Io non ho mai creduto allo Spirito che si prende il gusto e l'unico gusto di negare. E credo di aver mostrato l'origine di questo errore, per quanto nessuno mostri di essersene accorto.

Mi perdoni questa chiacchierata, alla quale Ella può giustamente ritenere di non avermi autorizzato.

Mi abbia sempre con cordiale ossequio

Devot.mo

PCarabellese"



[1][1] Riguardo alla datazione delle due Lauree che Carabellese conseguì - l'una, già ricordata, in Lettere all'Università di Napoli con la Tesi in Storia Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti, intuizioni, seguita dal Relatore Professor Giuseppe De Blasiis e relativa alla politica papale del Medioevo, in particolare di Gregorio VII e Innocenzo III, poi pubblicata, l'altra, più volte citata, in Filosofia all'Università di Roma con la Tesi La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini col Relatore Professor Bernardino Varisco, anch'essa pubblicata nel 1907 con una "Prefazione" dello stesso Varisco - i critici non sono sempre concordi. Nel testo si è seguita l'indicazione più accreditata, che vuole la prima conseguita nel 1900 e pubblicata nel 1910, la seconda, che qui ci interessa, conseguita nel 1905 e pubblicata nel 1907. Ma ci corre l'obbligo di dire che in Michele Del Vescovo, Pantaleo Carabellese. Profilo biografico-Profilo umano, Tip. Mezzina, Molfetta (Bari), 1977, pp. 25-28, curatore attento del profilo biografico di Carabellese e amico di famiglia attingente dunque notizie di prima mano, riguardo alla prima si dice che fu conseguita nel 1901, riguardo alla seconda che Carabellese si iscrisse alla Facoltà di Filosofia dell'Università di Roma nel 1902 conseguendo poi la Laurea il 13 novembre 1906, anche se il Diploma di Laurea fu rilasciato il 13 luglio 1907. Ed è inoltre da sottolineare che alcuni critici, tra cui Fulvio Papi, "Carabellese Pantaleo", voce in Dizionario biografico degli italiani, Enciclopedia Treccani, 1976, pp. 298-300, fanno riferimento, per la prima Laurea, non alla Facoltà di Lettere ma a quella di Giurisprudenza, sebbene la versione più attendibile, oltre che più citata, continui a risultare quella della Laurea in Lettere, vista la disciplina scelta da Carabellese per la Tesi. Riguardo poi a Filippo Masci, del quale si è qui discusso nell'"Introduzione", Professore di Filosofia Teoretica all'Università di Napoli dal 1885 al 1919, di orientamento neokantiano, Del Vescovo afferma che "aprì il Carabellese alla conoscenza di Emanuele Kant, e che fu tra gli esaminatori del Concorso per la Libera Docenza in Filosofia Teoretica il 13 ottobre 1917, in piena guerra": vedi pp. 26 e 31. Si è voluto qui, e non nel testo, riportare questa discrepanza riguardo soprattutto alla data della seconda Laurea, del suo Diploma e della sua pubblicazione (il 1906-07 invece che il 1905-1907 generalmente riportato) perché ci sembra significativa ai fini di stabilire, a partire dalla data della prima cartolina di Carabellese a Croce, il 1908, il tempo trascorso dalla Tesi alla spedizione della prima cartolina stessa.

[2][2] Per un approfondimento di tali discussioni e relazioni si rimanda all'"Introduzione" di questo lavoro, nel par. relativo alla storia della critica, nel quale si sono discusse.

[3][3] Facciamo riferimento a queste date non per puro interesse biografico o di ricostruzione della carriera accademica di Carabellese, ma anche perché esse rientrano nel periodo di cui ci stiamo occupando, quello 1908-1931 del carteggio con Croce.

[4][4] Nicola Abbagnano, "Il problema di Dio in alcune recenti discussioni", in "Logos", fasc. 3, 1931, pp. 327-37.

[5][5] Antonio Banfi, "Recensione" a P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, 1931, in "Civiltà moderna", fasc. IV, 1931, pp. 827-37. Vedi anche Idem, "La filosofia d'oggi", in "Studi filosofici", fascc. III e IV, 1940.

[6][6] "Recensione" a P. Carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), 1929, in "Rivista di Filosofia neo-scolastica", nn. 1-2, 1931. Ma vedi anche, in seguito dello stesso Barié, "L'idealismo ontologico del Carabellese", in Idem, Compendio sistematico di storia della filosofia, Paravia, Torino, 1937, pp. 448-50.

[7][7] Carlo Mazzantini, "Il problema teologico in un recente volume di P. Carabellese", in "Rivista di Filosofia neo-scolastica", fasc. VI, Milano, 1931, pp. 562-67.

[8][8] Ugo Spirito, "Recensione" a P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, 1931, in "Giornale critico della filosofia italiana", a. XII, fasc. III, 1931, pp. 233-35.

[9][9] Ernesto Bonaiuti, Tentativi di un rinnovamento del concetto di religione in Italia e in Francia, 1932.

[10][10] Pietro Cristiano Drago, "Recensione" a P. Carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), 1929, in "Civiltà moderna", 1932 e Idem, "Recensione" a P. Carabellese, L'idealismo italiano, I ed. 1938, in "Logos", fasc. I, 1938.

[11][11] Guido Calogero, Filosofia della filosofia nel pensiero contemporaneo, 1933. Cfr. anche Idem, La conclusione della filosofia del conoscere, Le Monnier, Firenze, 1938, pp. 90-101.

[12][12] Michele Federico Sciacca, "La crisi dell'idealismo", in "Ricerche filosofiche", fasc. I, 1934, e Idem, Linee di uno spiritualismo critico, Perrella, Napoli, 1938. Vedi anche sempre di Sciacca, "La filosofia di P. Carabellese", in "Logos", fasc. IV, 1937, pp. 580-608; "Aspetti e sviluppi dell'idealismo critico italiano", in "Logos", fasc. II, 1938, pp. 211-18; "Conclusione dell'idealismo critico e valutazione critica dell'ontologismo del Carabellese", in "Logos", fasc. IV, 1938; "Per una storia della filosofia italiana", in "Logos", fasc. III, 1939, pp. 362-68; "Rosmini nella storiografia italiana", in "Studi Rosminiani", fasc. I, 1940, pp. 4-38.

[13][13] Cesare Luporini, "Critica e metafisica nella filosofia kantiana", in "Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche" della Reale Accademia Nazionale dei Lincei, 1935, pp. 88-89.

[14][14] Armando Carlini, "Orientamenti e problemi speculativi del pensiero filosofico nell'età presente", discorso pronunciato al Congresso delle Scienze di Palermo, in "Giornale critico della filosofia italiana", a. XVII, II Serie, vol. IV, fasc. I-II, genn.-apr. 1936, pp. 44-45, che diede adito alla polemica tra i due pensatori. Cfr. anche Idem, Il mito del realismo, Sansoni, Firenze, 1936, pp. 93 sgg., e Idem, "Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano", in "Logos", fasc. I, pp. 1938, pp. 21-34.

[15][15] Mario Dal Pra, Il realismo e il trascendente, Cedam, Padova, 1937. Vedi anche Idem, Pensiero e realtà, La Scaligera, Verona, 1940, pp. 47 sgg.

[16][16] Prima di dedicare a Carabellese la sua relazione al XIV Congresso Nazionale di Filosofia del 1940, negli anni successivi al 1931 Bontadini scrisse Saggio di una metafisica dell'esperienza, Vita e Pensiero, Milano, 1938.

[17][17] Enzo Paci, Principi di una filosofia dell'essere, Guanda, Modena, 1939. Vedi anche Idem, "Concretezza e dialettica dell'essere", in Idem, Pensiero, esistenza, valore, Principato, Milano, 1940, pp. 173-87.

[18][18] Calogero Angelo Sacheli, "Idealismo italiano", in "Logos", a. XII, fasc. IV, 1939, pp. 574-612.

[19][19] Augusto Guzzo, oltre alla relazione al XIV Congresso Nazionale già ricordata, e a un articolo sullo stesso pubblicato su "La Gazzetta del Popolo" sempre nel '40, fa riferimento a Carabellese anche in Idem, Sguardi sulla filosofia contemporanea, Perrella, Roma, 1940, pp. 104-09. In seguito, sempre su "La Gazzetta del popolo", scriverà un articolo su "Carabellese" il 26 novembre 1942.

[20][20] Luigi Pareyson, La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers, Loffredo, Napoli, 1940, con saggi su K. Barth, M. Heidegger, P. Carabellese, A. Carlini, A. Guzzo, Berdiaoff, S. Kiekegaard.

[21][21] Un quadro degli sviluppi del suo pensiero è stato appena delineato nell'Introduzione" stessa, alla quale rimandiamo.

[22][22] I rapporti con Gentile furono costanti a partire dal 1909 sino alla morte di Gentile stesso, e dopo: ne riparleremo più avanti. In questo contesto facciamo riferimento all'opera di Giovanni Gentile, La filosofia italiana contemporanea, Sansoni, Firenze, 1941, pp. 29 sgg.

[23][23] Michele Federico Sciacca, La filosofia italiana, Bocca, Milano, 1941, capp. IV-V; vedi inoltre il già cit. "P. Carabellese", in Idem, Il  secolo XX, nel 1942, pp. 299-335; Idem (a cura di), Filosofi italiani contemporanei, I ed. Marzorati, Como, 1944, II ed. accresc. Marzorati, Milano, 1946, con un saggio su La coscienza di P. Carabellese; e ancora Idem, "Pantaleo Carabellese: la religione dell'oggetto immanente", in Idem, Il problema di Dio e della religione nella filosofia contemporanea, Morcelliana, Brescia, 1944, II ed. Morcelliana, Brescia, 1946, III ed. Marzorati, Milano, 1950, IV ed. Marzorati, Milano, 1968, pp. 105-10, pubbl. anche in Idem (a cura di), Con Dio e contro Dio, raccolta sistematica degli argomenti pro e contro l'esistenza di Dio, Milano, 1973, 2 voll., vol. II, pp. 141-51; Idem, "L'ontologismo critico di P. Carabellese", in Idem, La filosofia oggi, Bocca, Milano, 1945, II ed. aggiorn. Bocca, Roma-Milano, 1954, 2 voll., vol. II, cap. VI, par. 2b, pp. 32-41; Idem, "Recensione" a P. Carabellese, "Stato etico o teismo politico?", 1945, in "Giornale di metafisica", 1945; Idem, "La crisi dei valori e delle filosofie", in "Giornale di Metafisica", 1946, pp. 407-08.

[24][24] Nicola Abbagnano, "L'esistenzialismo in Italia. Repliche ai contraddittori" a A. Banfi, P. Carabellese, U. Spirito, A. Carlini, A. Guzzo, ecc., in "Primato", fasc. VI, 1943.

[25][25] Pietro Cristiano Drago, "La metafisica di P. Carabellese", in AA. VV., Filosofi contemporanei, Pubblicazione del Reale Istituto di Studi Filosofici, Sezione  di Torino, Bocca, Milano, 1943, pp. 1-43.

[26][26] Teodorico Moretti Costanzi, "A proposito di Che cos'è la filosofia?", in "Archivio di Filosofia", nn. 1-2, 1943. Vedi anche il già cit. Idem, "Il mio debito verso Pantaleo Carabellese", in Idem, L'asceta moderno, Edizioni Italiane, Roma, 1945.

[27][27] Luigi Pareyson, Studi sull'esistenzialismo, Sansoni, Firenze, 1943.

[28][28] Calogero Angelo Sacheli, come P. C. Drago nel 1938, pubblica una "Recensione" alla I ed. di P. Carabellese, L'idealismo italiano, 1938, in "Logos", 1943, e inoltre si interessa al Carabellese educatore in Idem, Linee di una filosofia critica dell'educazione, Ferrara, Messina, 1944, pp. 26-27.

[29][29] Guido Calogero, Lezioni di Filosofia, vol I: "Logica Gnoseologia Ontologia", Einaudi, Torino, 1947.

[30][30] Giuseppe Mattai, Il pensiero filosofico di P. Carabellese con particolare riguardo al problema di Dio, Tip. G. Martano, Chieri, Torino, 1944.

[31][31] Benedetto Croce, "Recensione" a N. Abbagnano, C. Antoni, A. Banfi, F. Battaglia, G. Bruguier Pacini, G. Calogero, P. Carabellese, Il problema della storia, 1944, in "Quaderni della 'Critica'", vol. I, n. 3, dic. 1945, Sezione "Rivista Bibliografica", pp. 81-84. Ma i rapporti tra i due studiosi si erano già definitivamente guastati.

[32][32] Per tutte queste rimandiamo sempre al par. dell'"Introduzione" sulla storia della critica.

[33][33] Carlo Antoni, "Recensione" a P. Carabellese, L'idea politica d'Italia, 1946, in "La Rassegna d'Italia", n. 6, 1948, pp. 703-704.

[34][34] Ornella Nobile Ventura, "I filosofi parlano di Dio", in "La Rocca", n. 4, 1948.

[35][35] Luca Pignato, "La filosofia del XX secolo", App. come Parte VIII a W. Windelband, Storia della filosofia, versione italiana di C. Dentice D'Accadia riveduta sulla 13a edizione tedesca, con Appendice sul XX secolo di L. P. dell'Università di Roma, ristampa stereotipa, Edizioni Sandron, Firenze, 1967, 2 voll., vol. II, par. 47: "L'idealismo italiano", punto 13, pp. 413-14.

[36][36] Emilio Pignoloni, "L'ontologismo critico di Pantaleo Carabellese", in "Rivista Rosminiana", fasc. IV, 1948, pp. 148-64, fasc. I-II, 1949, pp. 14-29, fasc. I, 1950, e fasc. III, 1950, poi pubbl. in estratto per la Tip. La Cartografica C. Antonioli, Domodossola, 1951.

[37][37] C. Riva, "Recensione" a P. Carabellese, "I giovani e la politica", 1948, in "Rivista Rosminiana", fasc. IV, 1948.

[38][38] Giuseppe Pinto, nella sua biografia commemorativa "Pantaleo Carabellese" cit., ricorda i quattro corsi inediti su Spinoza e i tre corsi anch'essi inediti su Leibniz, di cui non vi è traccia non solo in altra biografia, ma anche alla Biblioteca dell'Università di Roma dalla cui Cattedra di Storia della Filosofia Carabellese li tenne dopo il 1930. Degli altri scritti inediti o ancora da stendere dell'ultimo Carabellese si parlerà nel corso di quest'Appendice.

[39][39] Rosario Assunto, "Un Maestro", in "L'Italia socialista", 7 ottobre 1948, e "Profilo del Carabellese", in "Rivista di Filosofia", a. XL, n. 1, 1949, pp. 90-96.

[40][40] Giuseppe Pinto, "Pantaleo Carabellese" in "Giornale critico della filosofia italiana", a. XXVIII, Serie III, vol. III, fasc. I, genn.-mar. 1949, pp. 6-17, con biografia e bibliografia.

[41][41] Vito Fazio Allmayer, "Un Maestro scomparso: P. Carabellese", in "Giornale di Sicilia", 30 ottobre 1948, Palermo.

[42][42] Giuseppe Semerari, "P. Carabellese" (necrologio), in "Rivista internazionale di filosofia del diritto", n. 3-4, 1948, e "Significato e valore della filosofia di P. Carabellese", in "Pagine nuove", n. 12, 1948, e n. 1, 1949.

[43][43] Luciano Anceschi, "Ricordo di Carabellese", in "Rassegna d'Italia", n. 2, febbraio 1949.

[44][44] Carlo Antoni, "Pantaleo Carabellese", Commemorazione in "Circolo della cultura e delle arti" di Trieste, a. I, n. 3, aprile 1949, pp. 5-6.

[45][45] Guido Calogero, "L'esperienza speculativa di Pantaleo Carabellese", in "Atti del XV Congresso Nazionale di Filosofia" tenutosi a Messina il 24-29 settembre 1948, D'Anna, Messina, 1949, e in "L'Italia socialista", 7 ottobre 1948, p. 3.

[46][46] Magda Da Passano, "Ricordo cristiano di Carabellese", in "Città di vita", n. 1, 1949.

[47][47] Ugo Spirito, "Pantaleo Carabellese", in "Giornale critico della filosofia italiana" cit., a. XXVIII, Serie III, vol. III, fasc. I, genn.-mar. 1949, pp. 1-5.

[48][48] Teodorico Moretti Costanzi, "L'asceta moderno P. Carabellese", ivi, pp. 39-48.

[49][49] Antonio Aliotta, "Commemorazione del socio Pantaleo Carabellese", in "Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali", Roma, 1950. Carabellese era divenuto membro della prestigiosa Accademia il 6 marzo 1935, così come nel '36 era anche Cavaliere della Corona d'Italia e Cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.

[50][50] Ci siamo rifatti, come base da cui partire per tale quadro storico-politico-ideologico, principalmente a Antonio Desideri, Storia e Storiografia, Nuova ed. aggiornata e ampliata con la collaborazione di Mario Themelly, Casa editrice D'Anna, Messina-Firenze, I ed. 1989, IV ristampa aggiorn. 1994, 3 voll., vol. III: "Dalla prima guerra mondiale alle soglie del Duemila", capp. 1, 2 e 4, passim, nonché all'ampio ventaglio di documenti e di brani storiografici di diverso orientamento ivi contenuti nella parte antologica, che restituiscono le posizioni, a volte divergenti altre volte in sinergia, non solo dei protagonisti del periodo trattato ma anche  della storiografia più insigne che su quel periodo ha riflettuto sia di  recente che in anni più lontani da noi; documenti e interpretazioni storiografiche che citeremo, quando necessario, di volta in volta. Inoltre, abbiamo fatto riferimento pure ad alcuni ampliamenti che abbiamo ritenuto necessari in primo luogo perché legati a Carabellese, la sua biografia, la sua bibliografia, il suo pensiero e il suo rapporto epistolare e teoretico con Croce.

[51][51] Sulla "svolta liberale" giolittiana in senso democratico e progressista, compresa e attuata da Giolitti già all'’epoca del Ministero Zanardelli, vedi G. Carocci, Storia d'Italia dall'Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano, 1975, quando afferma: "Giolitti attuò la svolta liberale mettendo a partito e favorendo le propensioni democratiche che, in quella fase dello sviluppo, erano dominanti in seno all'industria italiana. Fu merito di Giolitti aver intuito con lucidità che solo stando a sinistra era possibile svolgere un'azione di governo fecondamente conservatrice, dal momento che la persistente assenza politica dei cattolici impediva il sorgere di un vero e proprio partito conservatore, non poneva freni alle simpatie popolari che si stringevano intorno all'estrema sinistra e le creava spazio fino a renderla arbitra della maggioranza. [...] era la via maestra della democrazia moderna, della democrazia industriale [...]. Era la via maestra per rendere equilibrata una società moderna (tale cominciava ad essere la società dell'Italia centro-settentrionale), integrandovi la classe operaia e inducendola ad assumere i caratteri della piccola borghesia radicale. [...] La natura di classe dello Stato non scompariva ma si spostava, per un verso immettendo tra i gruppi dominanti i nuovi ceti industriali e, per un altro verso, dando, per così dire, diritto di cittadinanza alla spinta rivendicativa del movimento operaio. Era il passaggio da una struttura economica basata sulla terra e sulla banca di  vecchio tipo a una struttura basata sull'industria e sul capitale finanziario." 

[52][52] Vedi Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, Treves, Milano, 1922.

[53][53] Cfr. ancora G. Carocci, Storia d'Italia dall'Unità ad oggi cit.: "Giolitti calcolava di approfondire e rendere irreversibile la separazione in atto tra socialisti intransigenti e socialisti riformisti, catturando questi ultimi nel potere. [...] Nei confronti dei cattolici Giolitti seguì una politica analoga  a quella seguita nei confronti dei socialisti: lasciò che conquistassero fette sostanziose di  potere a livello della società civile, ma ebbe la massima cura che, nella direzione dello stato, il potere restasse saldamente in mano ai liberali. [...] La politica di Giolitti verso i cattolici innovò, sebbene in misura ben minore, come quella verso i socialisti. Diciamo <<in misura ben minore>> perché diverso era il rapporto che socialisti e cattolici avevano con la società. Mentre il movimento socialista elevava il livello civile della società, il movimento cattolico non tanto elevava il livello civile, quanto esprimeva e consolidava un livello già esistente. Il fatto è che i partiti moderni (cioè il socialista e, embrionalmente, il cattolico) svolgevano, e sempre più avrebbero svolto, una funzione insostituibile in un paese come l'Italia, nel quale ampi strati della società non si riconoscevano nello stato e nella sua istituzione rappresentativa, nel parlamento." 

[54][54] Dall'intervento di Benito Mussolini al XIII Congresso nazionale del Partito Socialista Italiano tenutosi a Reggio Emilia nel luglio del 1912: "Il parlamentarismo italiano è già esaurito. Ne volete la prova? Il suffragio quasi universale largito da Giovanni Giolitti è un abile tentativo fatto allo scopo di dare ancora un qualsiasi contenuto, un altro periodo di <<funzionalità>> al parlamentarismo. Il parlamentarismo non è necessario assolutamente al socialismo in quanto che si può concepire e si è concepito un socialismo anti-parlamentare o a-parlamentare, ma è necessario invece alla borghesia per giustificare e perpetuare il suo dominio politico. [...] Per queste ragioni io ho un concetto assolutamente negativo del valore del suffragio universale [...] il problema fondamentale, quello della <<giustizia nel campo economico>> dovrà essere risolto e la soluzione non potrà essere che socialistica: il passaggio alle collettività operaie dei mezzi di produzione e di scambio. L'utilità del suffragio universale è, dunque - dal punto di vista socialistico - negativa: da una parte esso affretta l'evoluzione democratica dei regimi politici borghesi, dall'altra esso dimostra al proletariato la necessità di non rinunciare ad altri metodi più efficaci di lotta. [...] [e, a proposito dell'autonomia politica dei vari gruppi in seno al partito] Io la voglio invece sopprimere. Il gruppo non deve avere che una sola autonomia: l'autonomia tecnica [...] dovete essere sottoposti al controllo del Partito. [...] I deputati, devono ubbidire alla Direzione." Da G. Manacorda, Il socialismo nella storia d'Italia, Laterza, Bari, 1970, vol. I.

[55][55] Il movimento modernista in Italia, molteplice e vario, è nato con la rivista "Studi religiosi" nel 1901 a Firenze ad opera di Salvatore Minocchi. Il "Programma dei modernisti", in cui era chiaro l'intento di una riforma religiosa in senso spirituale e dottrinario dall'interno della Chiesa - il movimento aveva radici teologiche in senso storicista soprattutto in Francia e in Germania - ebbe come risposta una dura condanna, prima ancora che con l'enciclica "Pascendi dominici greci", con il decreto "Lamentabili sine exitu", ambedue di Pio X, nei quali lo si bollava come eresia, come d'altronde avevano fatto in precedenza la Curia di Parigi e il Santo Uffizio. Oltre che a Ernesto Bonaiuti e alla sua rivista "Nova et vetera", fondata nel 1908 (dell'altra si parla nella nota relativa a Bonaiuti), il modernismo in Italia faceva riferimento ad Alfieri e alla sua rivista "Il rinnovamento" (1907-09), e a Casati e Gallarati Scotti. Sul modernismo vedi L. Ghiringhelli, Il modernismo nella polemica, Casa ed. G. D'Anna, Messina-Firenze, 1983, che raccoglie anche scritti dell'abate  Alfred Loisy, uno dei più noti modernisti francesi, teologo biblista e storico delle religioni, autore de L'Evangile et l'Eglisé, Paris, 1902.

[56][56] Carabellese scrisse più volte per un ritorno della Chiesa alla purezza delle origini e relativamente ai rapporti tra Stato e Chiesa, anche a partire dalla sua Tesi di Laurea in Lettere del 1900 Sulla vetta ierocratica del Papato cit., pubblicata nel 1910, e lo fece su una delle riviste del movimento modernista stesso: "Stato e Chiesa (a proposito di formule)", in "La riforma laica", n. 8, 1910; "Sul concetto di religione", ivi, n. 5, marzo 1911, n. 10, ottobre 1911, n. 12, dicembre 1911, e n. 1, gennaio 1912; "Felicità o dovere?", da un discorso tenuto al Circolo dei Professionisti di La Spezia il 7 novembre 1912, poi estratto da "La Nuova Riforma. Rivista di pensiero religioso e di etica sociale", a. III, fasc. V-VI, G. Avolio, Napoli, 1915. Un interesse che continuerà nel tempo, assumendo contorni sempre più marcatamente etico-politici: "Stato etico o teismo politico", in "Archivio di Filosofia", Quaderno "La crisi dei valori", Roma, 1945, pp. 7-14, poi rist. come cap. XIX di Idem, L'idea politica d'Italia, Ediz. F. V. Nardelli, Roma, 1946; e "Il rinnovamento politico", a. I, II settimana, 21 giugno 1945, "In nome di che?", a. I, VI settimana, 21 luglio 1945, "In cerca di chiarezza", a. I, XX settimana, 27 ottobre 1945, "I partiti e le funzioni sovrane", a. I, XXIV settimana, 24 novembre 1945, tutte brevi note pubblic. in "1945. Sestante per la realtà in costruzione", Rivista fondata e diretta da Ernesto Bonaiuti, sacerdote suo amico e Direttore in precedenza della "Rivista storico-critica delle scienze teologiche", nonché autore di uno studio del 1932 sui Tentativi di un rinnovamento del concetto di religione in Italia e in Francia in cui fa riferimento anche a Carabellese.

[57][57] Ernesto Bonaiuti, trentacinque anni dopo quell'enciclica, scrisse nel Pellegrino di Roma. La generazione dell'esodo, Laterza, Bari, 1964, che quel documento fu mortifero per lui stesso nel suo ruolo e per il modernismo,  che coinvolgeva con la  Rivista da lui diretta da giovane migliaia di abbonati in tutto il clero italiano, e che: "Il problema della religiosità, del suo contenuto sostanziale, delle sue concrete espressioni storiche, dalla sua realizzazione suprema nella forma datale dalla rivelazione del Cristo e dalla disciplina della Chiesa, cominciava ad uscire dai chiusi recinti del monopolio teologale, per diventare alimento e pungolo di ogni spirito senziente, consapevole dei compiti e delle esigenze della moralità associata. [...] [[Vi era] la necessità di rinnovare il logoro suo [dell'Italia] patrimonio spirituale, perché all'unità territoriale della nazione corrispondesse una organica e chiaroveggente compagine culturale. [...] L'afflato religioso di cui il cosiddetto <<modernismo>> costituiva una prima ancora indistinta formulazione avrebbe dovuto dare al popolo italiano un orientamento spirituale in armonia col suo passato, in conformità ai bisogni dell'albeggiante avvenire." Molto più distaccato, perché non direttamente coinvolto, e sostanzialmente critico il giudizio dello storico G. De Rosa ne Il movimento cattolico in Italia dalla Restaurazione all'età giolittiana, Laterza, Bari, 1970, dove afferma che il modernismo non fu movimento di riforma religiosa, ma movimento culturale di matrice idealistica, nato non con intenti morali ma eruditi, quelli dell'applicazione del metodo storico-critico alla teologia e alle Sacre Scritture, tant'è che rimase un movimento elitario che non penetrò nell'animo del credente. E questi metodi storico-critici inseriti negli studi religiosi e derivanti dallo "storicismo moderno" con l'intento di riportare tali studi ad "un'oggettività scientifica sollecitata dal criticismo razionalistico" avevano, al di là dei "frutti importanti e duraturi" che hanno dato, uno scopo sostanzialmente relativistico in campo dottrinale e rivoluzionario in campo politico, volendo infatti "opporre alla Chiesa esistente un'altra Chiesa, un'altra dottrina cattolica, in cui la negazione delle sovrastrutture significa negazione di ogni elemento sovrannaturale e della rivelazione".

[58][58] P. Carabellese, Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti, intuizioni cit., 1900, pubbl. nel 1910.

[59][59] Idem, La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini, 1905 (sulla data di Laurea non vi è concordanza tra i critici, alcuni riportando il 1906),  pubbl. nel 1907.

[60][60] E' possibile che il giovane Carabellese e Croce si fossero conosciuti a Napoli, grazie a Giuseppe De Blasiis, storico e Relatore della Tesi di Laurea in Lettere, amico di Benedetto Croce e Segretario della Società Napoletana di Storia Patria.

[61][61] Idem, Educazione e civiltà. Il criterio di valutazione sociale dei sistemi educativi e l'odierno problema della scuola. Note e appunti, Tip. La Speranza, Roma, 1907; "Il criterio spenceriano di valutazione del sapere come disciplina educativa mentale", in "Rivista pedagogica", n. 8, 1909; poi seguiti, nel 1912, da "Il fatto educativo", in "Rivista di Filosofia", n. 4, 1912, pp. 432-66.

[62][62] Cfr. Idem, "La pedagogia come filosofia", recensione a G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. I: "Pedagogia generale", Laterza, Bari, 1913, in "Logos", vol. I, fasc. I, 1914, poi rist. in Append. III in P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., II ediz. con aggiunte, 1946; "La didattica", recensione a G. Gentile, Sommario cit., vol. II: "Didattica", Laterza, Bari, 1914, in "Il Conciliatore", a. II, fasc. II, 1915, poi rist. in Append. III a P. Carabellese, L'idealismo italiano cit. Ma l'interesse pedagogico e per i problemi della scuola non abbandona Carabellese neanche quando

più tardi si orienta professionalmente in modo deciso verso l'Accademia, e anzi nel suo insieme può essere considerato costituire una vera e propria filosofia dell'educazione, contenuta, oltre che negli scritti citati di questo periodo, anche in alcuni saggi e articoli successivi, di cui parleremo a suo tempo.

[63][63] G. Gentile, "Recensione" a P. Carabellese, La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini cit., in "La Critica", fasc. IV, luglio 1909, che testimonia, col luogo stesso in cui la recensione fu pubblicata, oltre che dei rapporti di Carabellese con Gentile, anche di quelli con Croce, come emergerà dalla prima cartolina del 1908.

[64][64] Si ricordi che il primo scritto di Gentile fu Rosmini e Gioberti, del 1898, e dunque i due pensatori si incontravano su un terreno comune. Riguardo agli articoli carabellesiani cui si fa riferimento qui, essi sono P. Carabellese, "Intuito e sintesi primitiva in A. Rosmini" cit., 1911 e "La potenza e l'intuito come potenza nell'ideologia rosminiana" cit., 1912. Essi, già  discussi nell'"Introduzione" di questo lavoro a proposito dei rapporti teoretici con Gentile, sono, lo ricordiamo, al tempo stesso una sintesi  della Tesi di Laurea in Filosofia pubblicata come La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini cit., 1907, e una continuazione della riflessione sul suo  tema stimolata anche dalla diversa interpretazione che di quella teoria dava Gentile.

[65][65] Agli scritti carabellesiani citati su Rosmini, e a quello sul suo rapporto con Kant ("L'elemento categorico kantiano nell'’ideologia rosminiana", in AA. VV., "Atti del IV Congresso Internazionale di Filosofia" tenutosi a Bologna nel 1911, Formiggini, Modena, 1912-16), si affiancarono altri scritti di matrice filosofica come "Il valore e la filosofia", in "Rivista di filosofia", n. 1, 1914, "I soggetti come unità primitive", in "Logos", n. 1, 1914, poi rist. come cap. I in Idem, L'Essere e il problema religioso cit., 1914, oltre a scritti che, come questo stesso L'Essere..., sono testimonianza dell'interesse precoce di Carabellese per gli aspetti, oltre che storico-politici (penso alla Tesi di Laurea in Lettere), anche più specificatamente filosofico-politici della religione: gli articoli su "Stato e Chiesa"  e "Sul concetto di religione" citati a proposito della sua partecipazione al movimento  modernista; ma anche "Religione e libertà", estratto da "Rivista di filosofia", a. V, fascc. II-III, 1913, pp. 276-87; oltre a scritti di filosofia morale, come La coscienza morale, Tip. Moderna, La Spezia, 1915, che segna, secondo quanto dice Carabellese stesso, l'inizio del suo "periodo precritico", durato sino al 1925, e del suo rapporto teoretico e non solo umano e professionale con Croce.

[66][66] Al decollo industriale del Nord e al suo distacco dall'arretratezza del Sud in rapporto alla politica protezionistica giolittiana sono dedicate alcune pagine di M. L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea, Loescher, Torino, 1976, vol. I, dove afferma: "Il tipo di crescita dell'industria italiana in questo periodo fu quello proprio della fase monopolistica dominata dal capitale finanziario con l'appoggio dello Stato. Il <<connubio>> tra industria, finanza e Stato fu particolarmente accentuato  dalla debolezza della struttura produttiva nazionale, che, nonostante i suoi progressi, non era in grado di sostenere il confronto con la concorrenza sul mercato internazionale.  Sicché il <<protezionismo>> doganale, le commesse statali, un regime di alti prezzi e il controllo del mercato interno da parte di gruppi monopolistici furono le caratteristiche prevalenti e tali da continuare le linee di tendenza iniziate negli anni '80. I progressi furono assai rilevanti [...]Il Sud rimase decisamente alla retroguardia, e di fatto escluso dal moto ascendente del resto del paese. Le tariffe protettive in campo agricolo agirono come fattore di stasi nel Mezzogiorno. I grandi latifondisti [...] ebbero assicurate le loro rendite parassitarie, e premiarono per questo in modo sistematico i governi con il  loro <<ministerialismo>>, vale a dire mettendo i voti dei deputati da essi controllati a disposizione della maggioranza parlamentare. Anche i settori dei  vini, della frutta e dell'olio d'oliva, che per il loro carattere pregiato avrebbero potuto con esportazioni adeguate introdurre nel Mezzogiorno notevoli capitali, rimasero al di sotto  delle loro possibilità [...]. Si spiega così come, specie nel Sud d'Italia, la piaga della disoccupazione e della sottoccupazione fosse cronica, e come l'ondata dell'emigrazione meridionale, insieme con quella del Veneto (la zona più sottosviluppata del Settentrione), raggiungesse, proprio nel periodo giolittiano, cifre enormi." Cfr. anche G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. VII, Feltrinelli, Milano, 1974. 

[67][67] E' superfluo dire che Gaetano Salvemini aveva nel momento in cui lo viveva un giudizio tutt'altro che positivo sul "decennio felice" di Giolitti, che chiamò "ministro della malavita"  e la cui politica di sostanziale indifferenza, quando non di vero e proprio disegno reazionario a suo parere nei confronti del Sud denunciò ripetutamente, come in queste affermazioni: "L'onorevole Giolitti [...] approfitta delle miserevoli condizioni del Mezzogiorno per legare a sé la massa dei deputati meridionali; [...] mette nelle elezioni a loro servizio la malavita e la questura; [...] mantiene in ufficio i sindaci condannati per reati elettorali [...]. L'onorevole Giolitti non è certo il primo uomo di governo dell'Italia una che abbia considerato il Mezzogiorno come terra di conquista aperta ad ogni attentato malvagio. Ma nessuno è stato mai così brutale, così cinico, così spregiudicato come lui nel fondare la propria potenza politica sull'asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d'Italia [...] in quel decennio in cui fu al governo, quando le condizioni economiche e finanziarie italiane sarebbero state favorevoli ad una riforma a fondo, e lui ebbe ai suoi ordini una vasta e sicura maggioranza parlamentare, e una solida burocrazia, Giolitti non trovò mai la volontà che per qualche ritocco secondario, al quale spesso del resto fu trascinato da iniziative dell'opposizione parlamentare [...]." Cfr. G. Salvemini, Il ministro della malavita e altri scritti sull'età giolittiana a cura di E. Apih, Feltrinelli, Milano, 1962.

[68][68] Il settimanale si opponeva, come già detto alla politica giolittiana sia estera che interna, interessandosi anche ai rapporti tra Stato e Chiesa e alla crescente organizzazione politico-sociale dei cattolici, soprattutto dopo il "Patto Gentiloni" del 1913, alla questione meridionale (troppo nota per fornirne qui anche solo qualche cenno sulla vastissima bibliografia esistente), e schierandosi per un interventismo democratico nella prima guerra mondiale nel relativo dibattito.

[69][69] P. Carabellese, "La politica dell'unità", su "L'Unità", 30 maggio 1913; "Il concretismo dell'Unità", ivi, 6 giugno 1913, poi rist. in G. Salvemini, L'Unità, a cura di Beniamino Finocchiaro, Ed. E. Neri Pozza, Venezia, 1958, pp. 55-62; e infine "Intorno alla proporzionale", in "L'Unità", V Serie, 15 marzo 1919, anch'esso poi rist. in G. Salvemini, L'Unità cit., pp. 704-07. Tutti articoli che testimoniano dell'interesse di Carabellese per la vita politica nazionale e, assieme a quelli vicini al modernismo, della riduttività dell'immagine di filosofo puro lontano dai problemi politico-ideologici della sua epoca che certa critica ha voluto dare.

[70][70] B. Croce, Storia d'Italia dal 1870 al 1915, Laterza, Bari, 1928. Ma Croce inoltre già precedentemente, nella celebre intervista sul socialismo, in "La Voce", III, 1911, denunciò, suscitando uno scalpore che nella stessa "La Voce" trovò riscontro nel n. 7 del 1914, la morte del socialismo, che non era né quello utopistico basato sull'"ingenuo e quasi bambinesco desiderio della regolarità o dell'uguaglianza", che non tiene conto della complessità e delle contraddizioni della vita politico-sociale concreta, né quello marxiano, che, al giudizio della storia, si caratterizza come una previsione politica dettata dall'entusiasmo per la Rivoluzione Francese e per la sua classe nascente, la borghesia, e dalla constatazione delle contraddizioni e dei conflitti sempre più intensi e rapidi che da quelle nascevano mettendo in moto un processo di dissoluzione e ricomposizione sociale che faceva  sperare nell'avvento di una nuova società. Quella speranza, sembra voler dire Croce, è morta, e con lei il vero socialismo, in cui egli stesso credé per un anno come "la via regia dell'umanità", anche se poi riconosce come non "[...] piccoli effetti [del socialismo] l'abbandono definitivo del socialismo egalitario e ottimistico [...]; l'aiuto che il moderno e storico socialismo ha dato e dà contro ogni conato di reazione; la legislazione del lavoro, i miglioramenti prodotti nella vita della classe operaia e un certo elevamento intellettuale di questa: un senso più concreto [...]; e, nel campo dell'intelligenza, l'avere contribuito al risveglio filosofico e alla eliminazione  del goffo positivismo, l'avere intensificato gli studi e la cultura economica, e guardato in modo nuovo alcune parti della storia. Questi, o simili a questi, sono i doni che il socialismo ha fatto alla civiltà moderna."

[71][71] Secondo l'’opinione dell'insigne storico Denis Mack Smith, "Nel 1911 la Libia era ormai diventata nell'immaginazione popolare un vero e proprio Eldorado,ed in quello stesso anno venne pubblicato su di essa un libro intitolato La nostra terra promessa. La storia e la geografia furono invocate per stabilire un diritto di proprietà su questa antica provincia di Roma. [...] Furono in modo particolare i Siciliani a farsi trascinare emotivamente dalla prospettiva dell'impresa libica, in quanto l'argomento economico era per essi della massima urgenza e non esistevano ancor dati sufficienti a dimostrar loro che questa non era una soluzione. [...] Giolitti, come Cavour, aveva cura di non restare mai troppo indietro rispetto all'opinione pubblica ed egli intuì che il prestigio nazionale richiedeva ora una politica estera più ferma. Nell'estate del 1911 decise pertanto di agire. Se fosse stato prevenuto da altri, tutto il suo delicato sistema politico avrebbe corso il rischio di andare in pezzi, mentre un'azione di forza avrebbe potuto conciliargli i nazionalisti ed il nuovo elettorato di massa al quale egli si stava apprestando a concedere il diritto di voto. [...] L'opinione pubblica italiana di sinistra era   chiaramente ostile ad una guerra [...]Salvemini, nel suo giornale l'<<Unità>>, dimostrò di conoscere le effettive e poco attraenti condizioni della Libia assai meglio di quanti la consideravano potenzialmente una notevole fonte di ricchezza [...]. Secondo questi intellettuali radicali, l'Italia doveva rinunciare alla sua aspirazione ad essere una Grande Potenza, poiché era chiaro ch'essa non poteva permetterselo, e quanto alla Libia, essa minacciava di diventare non già l'Eldorado, ma la tomba dei coloni italiani. [...] favorevoli erano i cattolici, che vedevano con entusiasmo una crociata contro la Mezzaluna. [...] Uomini di tendenze umanitarie ed estranei alla politica  come Giovanni Pascoli erano convinti che l'Italia avesse bisogno di colonie per la sua eccedenza di popolazione, e persino il savio e moderato liberale Giustino Fortunato [...] si rallegrò tuttavia sinceramente per quella ch'egli interpretò come la prima dimostrazione che l'Italia era finalmente uno Stato veramente unitario." Cfr. D. Mack Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1958, Laterza, Bari, 1959.

[72][72] Schierato dalla parte della guerra, perché, insieme a Papini e a Prezzolini, tra le figure più rappresentative del nazionalismo italiano, ci fu Enrico Corradini, fondatore nel 1903 e Direttore fino al 1905 de "Il Regno", rivista di propaganda nazionalista di cui avremo modo di riparlare, su cui egli esercitò il proprio populismo demagogico nei confronti dei ceti più umili di un'"Italia proletaria" cui trovare un "posto al sole". Nell'articolo "La guerra", comparso sul fasc. XIV de "Il Regno" nel 1904, Corradini scrive, prendendo spunto dalla guerra russo-giapponese: "[...] si mostrano presi dal fascino della guerra, hanno anch'essi delle sensazioni estetiche dallo spettacolo lontano delle forze scatenate, [...] sono tornati insomma, senza saperlo, ad essere uomini sinceri allo stato di natura. Tutto questo dimostra sino a qual punto l'esempio e lo spettacolo del fatto possano sugli spiriti, e come vi travolgano sentimenti e convincimenti, e come la guerra quando scoppia, non venga considerata più come un fatto sottoposto alle leggi del piccolo bene e del piccolo male, ma venga considerata quasi come un grandioso e terribile fenomeno della natura, un cozzo di forze primordiali ed eterne, irrefrenabili. Perciò dinanzi ad esse l'uomo civile è abolito e ritorna l'uomo sincero allo stato di natura. [...] le guerre rispondono mirabilmente allo spirito della nostra età. La credenza nella modernita della guerra è cosa che urta tutte le opinioni di moda fondate sulla dottrina e su certa coscienza cosmopolita; ma la modernità della guerra è un fatto. [...] i sentimentalisti, gli umanitaristi, gli evangelisti dell'amore e della pace, i dottrinari delle classi e delle culture cosmopolitiche, sono addirittura contrari allo spirito del nostro tempo, piuttosto che esprimerne, come vorrebbero, la parte migliore. Essi dicono di essere i preparatori della civiltà avvenire; ma tutta la reale civiltà di oggi accenna a discostarsi sempre più da loro. E i più di loro altresì, come ho detto in principio, si discostano da se medesimi, quando tuona il cannone."

[73][73] Sul fronte opposto a quello nazionalista, i giovani socialisti elaborarono nel 1911 il Manifesto "Guerra alla Guerra", in cui tra l'altro si proclamava: "Lavoratori! In questo momento il governo italiano sta preparando una spedizione militare in Tripolitania, con il pretesto di portare in quella regione la civiltà. Nessuna ragione può scusare tale atto di brigantaggio determinato soltanto da loschi interessi capitalistici della classe dominante. [...] Per effettuare questa spedizione saranno a voi chiesti immensi sacrifici [...] nell'interesse della borghesia sfruttatrice. [...] Dite chiaramente al succhionismo nazionalista guerrafondaio che se osasse spingervi ad una guerra, voi combattereste non per conquistare nuovi possessi alla monarchia; ma per conquistarvi un avvenire migliore di libertà e di giustizia."

[74][74] Sul nazionalismo non solo italiano vedi G. Lehner, Il nazionalismo in Italia e in Europa, Casa ed. G. D'Anna, Messina-Firenze, 1973.

[75][75] Le analisi che qui si stanno conducendo tengono dietro allo studio dello storico Giancarlo Lehner, Economia, politica e società nella prima guerra mondiale, G. D'Anna, Messina-Firenze, 1973.

[76][76] La data, che non corrisponde a quella della cartolina in questione, è presa da Michele Del Vescovo, Pantaleo Carabellese. Profilo biografico - Profilo umano cit., p. 30.

[77][77] P. Carabellese, La politica del Dovere e l'Italia, ed. L'Universale, Roma, 1945. Come si vede, però, questa è una riflessione che Carabellese stenderà in forma d'opera durante la Seconda Guerra Mondiale, e che pubblicherà nell'anno della sua fine. Ad essa è affiancabile l'opera L'idea politica d'Italia, Ed. F. V. Nardelli (Signorelli), Roma, 1946, nella quale, come cap. XIX, è rist. "Stato etico o teismo politico?" cit, 1945, e ancora "I giovani e la politica", da un discorso tenuto all'Università di Roma nel maggio 1947 per il "Movimento giovanile internazionale di Unione e Fraternità", poi stamp. nei "Quaderni di orientamento" del suddetto "Movimento", n. 1, F.lli Stianti, San Casciano Val di Pesa, 1948, e anche estratto dal "Giornale critico della Filosofia italiana", n. 1-2, genn.-giu. 1948, poi rist. postumo in P. Carabellese, Padre G. Bozzetti, U. Spirito, Mons. P. Pavan, V. Vinay, A. Bausani, D. Are, G. Calogero, U. Serafini, R. Assunto, E. Giudici, A. M. Masu, J. Ma. De Semprun Gurrea, Laicismo e non laicismo, a cura di Magda Da Passano e Diego Are, Edizioni di Comunità, Milano, 1955, pp. 23-62, e ancora rist. in P. Carabellese, I giovani e la politica, con una Premessa di R. Assunto e una Postilla di G. Semerari, Ediz. Centro Librario, Bari, 1978.  

[78][78] Carabellese ne scrisse una sola volta: "La nostra sconfitta", in "L'Italia del popolo", n. 37, 21-24 maggio 1919. A questo proposito vedi anche Carlo della Corte, "Introduzione" a un classico della letteratura sulla prima guerra mondiale in Italia, Emilio Lussu, Un anno sull'Altipiano, I ed. Paris 1938, II ed. Giulio Einaudi Editore, Torino, 1945, III ed. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1970, pp. 5-11. La stesura del volume e l'edizione parigina furono volute fortemente da Gaetano Salvemini, amico di Lussu, proprio a testimonianza del distacco tra le speranze che la Guerra aveva aperto in una parte cospicua degli intellettuali italiani, e la cruda realtà di essa.

[79][79] Com'è noto, Guglielmo II di Hohenzollern, salito al trono nel 1888, aveva dato un'impronta espansionistica alla politica estera del suo Impero di Lander e un'impronta autoritaria e accentratice alla sua politica interna, che di fatto  esautorò il Reichstag che invece il Cancelliere BismarcK voleva conservare nel suo ruolo istituzionale, e distrusse il suo paziente lavoro diplomatico, fino al punto da costringerlo a dimettersi nel 1890, dopo la vittoria alle elezioni del partito socialdemocratico. La politica di potenza, che aveva trovato sino allora espressione militare e navale soprattutto in direzione coloniale in Africa, ebbe quindi occasione di oggettivarsi, dopo l'attentato di Sarajevo, nell'alleanza con l'Impero Austro-ungarico, che aveva anche ragioni di solidarietà dinastica - da cui l'ultimatum alla Russia del 1917, che l'Austria vedeva come rivale nei Balcani - oltre che ragioni espansionistiche nei confronti dell'Alsazia e della Lorena, francesi, e del Belgio, da subito invasi secondo la strategia della "guerra lampo". Il Kaiser Guglielmo II, da cui com'è noto questo periodo della storia tedesca ha preso il nome  di età guglielmina, restò Imperatore sino alla sconfitta della guerra e allo scoppio della rivoluzione socialista tedesca, e precisamente sino al 9 novembre del 1918, ma la sua abdicazione dall'Impero, che lo condusse a rifugiarsi in Olanda, non riguardò anche il titolo di Re di Prussia. Nonostante ciò, alla firma del durissimo Trattato di Versailles del 28 giugno 1919, nell'ambito della Conferenza di pace di Parigi iniziata il 19 gennaio, la Germania giunse con la Repubblica di Weimar, che era nata da quella rivoluzione e che nel frattempo ad agosto si era data, attraverso l'Assemblea Nazionale eletta a suffragio universale, la sua nuova Costituzione. Ma l'esperienza di Weimar, che com'è noto aveva aperto molte speranze anche negli intellettuali tedeschi, si avviò a una fine drammatica, oltre che per le disastrose condizioni post-belliche e per l'opposizione dei ceti industriali e del grande capitale a partire dal 1923, già dal 1921 quando  Hitler  divenne capo del Partito nazional-socialista fondato a Monaco nel 1920, e poi definitivamente il 30 gennaio del 1933, quando sempre Hitler venne chiamato ad essere, per volontà del Presidente della Repubblica Hindenburg, Cancelliere della Repubblica, avocando a sé, nel marzo del '34, per voto del Reichstag, i pieni poteri, e poi, alla morte di Hindenburg sempre nel '34, in un clima di ormai totale dittatura politico-militare, anche la sua carica di Presidente. Tra gli intellettuali che aderirono alla Repubblica di Weimar, Friederich Meinecke, dall'esilio svizzero durante la Seconda Guerra, a proposito della Prima scrive: "Gli eventi [...] erano molto più oscuri ed imprevedibili, di quel che si era acceso [...] nel luglio del 1870. [...] la mia moderazione [...] Ma il terreno comune che ci [noi intellettuali] sosteneva era ancora tanto forte, che accettai con entusiasmo un piano [...]: di contrapporre cioè alla malvagia propaganda nemica una grande opera collettiva, a fondamento scientifico, che presentasse specialmente ai popoli neutrali la Germania reale nella sua essenza e nella sua volontà attuale. Avrebbero dovuto collaborarvi studiosi e uomini di Stato di chiara fama [...]. Il mio contributo ad essa, su Kultur, Machtpolitik und Militarismus, era destinato a diventare uno dei capitoli principali dell'opera. Esso doveva disarmare l'affermazione degli avversari, che cioè esistessero due Germanie, l'una spirituale e l'altra no [...] nell'epoca delle guerre di liberazione (che era stata contemporaneamente l'epoca di Goethe) si è effettivamente giunti a un'alleanza tra due forze che fino a quel momento si erano sviluppate ciascuna per suo conto: spirito e potenza; spiritualità tedesca estesa come il mondo, e statalità prussiana solida. Questa alleanza, continuavo, era in vigore anche oggi [...] non avevo ancora compreso a fondo il demonismo della vecchia politica di potenza e i più recenti demonismi, provenienti dalle profondità del secolo XIX, del nazionalismo. [...] Credo bensì tuttora che  ce la faremo [...] Vedo il mio vecchio ideale nazionale, statale e culturale, sfigurato e insudiciato dai fautori della politica di potenza. La hybris dell'idea di potenza continuerà a infuriare. In relazione con questo fatto, anche gli estremi del radicalismo, socialismo, pacifismo si inaspriranno. Quanto immature sono tuttora le masse, senza le quali, come ho sempre ripetuto, lo Stato moderno non può vivere [...] L'8 novembre a Berlino si aveva già la sensazione certa che il giorno dopo sarebbe scoppiata la rivoluzione. [...] [Il 17] Rathenau e Troeltsch convocarono una piccola riunione per discutere di un appello che ammonisse gli elementi borghesi della Germania a stringere adesso la mano ai lavoratori e a creare insieme a loro, difendendola dal bolscevismo, la nuova repubblica tedesca. [...] Ho lasciato la mia firma all'appello, con intimo dolore." Cfr. F. Meinecke, Esperienze. 1862-1919, Guida, Napoli, 1971.

[80][80] Sulla situazione italiana durante la neutralità e sull'Italia in guerra, nonché sul giudizio che ne dava Croce, vedi B. Croce, Pagine sulla guerra, Seconda Edizione con aggiunte, Laterza, Bari, 1928, (opera che raccoglie anche articoli, interviste, riflessioni, ecc. di e su quel periodo), capp. I, II e III, pp. 9-298. Vedi anche, sul periodo che va dall'età liberale alla prima guerra (1871-1914), analizzata pure in  merito allo scenario internazionale, sempre di Croce, Storia d'Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari, 1965, in partc. capp. IX e X, pp. 234-306, o anche Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Scritti di Storia letteraria e politica, XXII, Laterza, Bari, 1928, in partc. i capp. V, VI e VIII sugli ideali dal 1871 al 1900, il cap. IX sul rapporto tra governo liberale e rigoglio economico, il cap. X ancora di storia delle idee nel decennio fino al 1914, e i capp. XI e XII sull'Italia nelle guerre libica e mondiale.

[81][81] Su "L'Unità" del 3 marzo del 1917, Salvemini scriveva: "I gruppi <<interventisti democratici>> hanno voluto la guerra: per questo si sono divisi dai neutralisti socialisti, e si sono associati per un momento agli <<interventisti nazionalisti>>, che si staccarono per conto loro dai neutralisti conservatori. Ma se interventisti - democratici e nazionalisti -hanno avuto un comune programma di guerra, hanno avuto anche un opposto programma di pace. Come dice benissimo il Popolo d'Italia, l'intervento è avvenuto e non conta più: sono oramai i soli fini che contano. E sui fini della guerra, c'è fra nazionalisti e democratici un abisso. Per i nazionalisti la guerra dovrebbe servire a stabilire la loro egemonia in Italia, e l'egemonia dell'Italia in Europa. Per noi la guerra deve assicurare un giusto equilibrio di nazioni solidali e pacifiche in Europa contro la Germania, finché la Germania non sia tornata alla umanità e non sia degna di entrare anch'essa nella lega delle nazioni [...] Il nostro giornale vorrebbe appunto, [...] sui fini della guerra, e rompere la confusione che troppo a lungo è durata fra i nazionalisti e noi." Da G. Salvemini, Interventismo nazionalista e interventismo democratico, in Opere. Dalla guerra mondiale alla dittatura. 1916-1925, Feltrinelli, Milano, 1964.

[82][82] Sempre nelle Memorie della mia vita, ed. Garzanti, Milano, 1945, Giolitti afferma: "Io avevo invece la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima, e tale convinzione manifestavo liberamente a tutti i colleghi della Camera [...] sarebbe durata almeno tre anni, perché si trattava di debellare i due Imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarant'anni si preparavano alla guerra; i quali, avendo una popolazione di oltre centoventi milioni potevano mettere sotto le armi sino a venti milioni di uomini; [...] che il nostro fronte sia verso il Carso, sia verso il Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo d'altra parte che, atteso l'enorme interesse dell'Austria di evitare la guerra con l'Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli italiani irredenti in un Impero di cinquantadue milioni di popolazione, si avevano le maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare all'accordo. Di più osservavo che l'Impero Austro-ungarico, per le rivalità fra l'Austria e l'Ungheria, e soprattutto perché minato dalla ribellione delle nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi, czechi, sloveni, rumeni, croati ed italiani, che ne formavano la maggioranza, era fatalmente destinato a dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all'Italia. [...] Ciò che era facile prevedere erano gli immani sacrifici d'uomini [...], dati i nuovi, potenti e micidiali mezzi di offesa e di difesa [...]; come era facile prevedere che un conflitto così tremendo avrebbe segnata la totale rovina di quei paesi ai quali non avesse arriso una completa vittoria. Oltre a ciò una guerra lunga avrebbe richiesto colossali sacrifizi finanziari, specialmente gravi e rovinosi per un paese come il nostro, ancora scarso di capitali, con molti bisogni e con imposte ad altissima pressione. Consideravo ancora che la guerra assumeva già allora il carattere di lotta per la egemonia del mondo, fra le due maggiori Potenze belligeranti, mentre era interesse dell'Italia l'equilibrio europeo, a mantenere il quale essa poteva concorrere solamente serbando intatte le sue forze. [...] [inoltre, a proposito dell'aggressione tedesca al Belgio neutrale] l'Italia, come l'America, non era tra quelle potenze che avevano  garantito quella neutralità, e l'America non si mosse [...] non si può portare il proprio paese alla guerra per ragione del sentimento verso altri popoli, ma solo per la tutela del suo onore e dei suoi primari interessi."

[83][83] Su tutto questo quadro del vario e complesso movimento d'opinione che si venne a creare nella prospettiva della guerra tra interventisti e neutralisti, vedi G. Lehner, Economia, politica, società nella prima guerra mondiale, Casa ed. G. D'Anna, Messina-Firenze, 1973.

[84][84] Il 12 aprile, prima della firma del Patto, Salandra inviò come Ministro degli Interni una circolare riservatissima ai prefetti per sapere lo stato dell'opinione pubblica: "[...] dalla lettura delle risposte risalta [...] la corrente neutralista: non tanto quella del neutralismo organizzato, dei socialisti ufficiali o di altre correnti politiche, quanto piuttosto quello spontaneo, non protestatario delle masse contadine, tinto talora di indifferentismo verso il problema della guerra. [...] passiva protesta contro l'insufficiente attività dello Stato nei confronti [...] [del] Mezzogiorno, mentre al Settentrione [...] ritengono doveroso ricorrere alla guerra soltanto come rimedio di difesa da un'invasione armata del territorio nazionale. [...] il paese per motivi diversi non desiderava la guerra [...] Salandra nello scorrere questi rapporti non poteva che constatare di rappresentare una ristretta minoranza, ma nello stesso tempo indubbiamente si compiaceva nel vedere che l'opposizione violenta al conflitto non ci sarebbe stata [...] Salandra al momento della firma del patto di Londra era pienamente cosciente di operare contro la grande maggioranza degli italiani [...]." Da A. Monticone, Gli italiani in uniforme. 1915-1918, Laterza, Bari, 1972.

[85][85] La maggioranza del Parlamento era neutralista (come d'altronde l'opinione pubblica contadina e operaia del Centro e del Sud, i sindacati, la Chiesa e gran parte dei cattolici), sicché l'ormai interventista Salandra rassegnò le dimissioni da Capo di Gabinetto, che il Re respinse rinviandolo alla Camera e costringendo così il Parlamento ad assegnargli pieni poteri: "Le dimissioni del governo lasciarono un vuoto politico [...] l'abdicazione del governo abbandonò il paese nelle mani del re e delle forze extraparlamentari. L'alternativa fondamentale - pace o guerra - si poneva chiaramente a tutto il paese, e gli interventisti entrarono in azione. [...] gli sforzi di Giolitti erano orami inutili. Vi fu un'esplosione di manifesti e di dimostrazioni [...]. Nel Sud [...] ordinate e con un'impronta conservatrice: in decine di città e di villaggi i notabili locali sfilarono in corteo nelle strade, spesso guidati dal sindaco e accompagnati dalla banda musicale, per dimostrare pubblicamente la loro lealtà verso il re e il loro conterraneo conservatore, Salandra. [...] I neutralisti erano visibilmente assenti. Nell'Italia centrale e settentrionale le passioni erano più accese [...]. Il via fu dato dagli universitari, professori e studenti [...] A Firenze, Bologna, Genova e in altre città, gli scontri tra dimostranti delle opposte fazioni causarono vittime, e furono effettuati migliaia di arresti: esponenti neutralisti furono minacciati, e i consolati austriaci assaliti. L'agitazione fu particolarmente acuta a Milano: [...] la parola d'ordine fu <<guerra o rivoluzione, guerra alla frontiera o guerra all'interno>>. Mussolini ammonì ancora una volta il re che il rifiuto di inchinarsi alla volontà popolare gli sarebbe costato il trono. [...] La tensione raggiunse il culmine a Roma. [...] Il 12 maggio D'Annunzio arrivò nella capitale e fu accolto alla stazione da circa centomila persone. [...] egli eccitò fino al parossismo la folla: <<[...] Se è considerato come crimine l'incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine [...]>>. Molti lo presero in parola: gruppi di studenti invasero palazzo Montecitorio e dettero la caccia per le strade agli amici di Giolitti, per picchiarli: Peano e Bertolini furono riconosciuti e malmenati, e soltanto un cordone di truppe impedì che la casa di Giolitti fosse assalita. [...] Roma apparve una città in preda al terrore e alla rivoluzione. [...] La posizione personale del re fu sempre chiara: egli riteneva che l'onore della monarchia sarebbe stato messo in giuoco se il parlamento non avesse approvato la decisione di entrare in guerra, e fu quindi con gioia e con sollievo che il 16 maggio pote' respingere le dimissioni di Salandra. [...] Il paese accettò nel complesso il proprio destino con rassegnazione. Gli amici di Giolitti [...] riconobbero che il  re aveva il diritto di esercitare le proprie prerogative costituzionali: ora che la Corona aveva deciso, solo una rivoluzione avrebbe potuto scongiurare una guerra. [...] solo a Torino vi fu una seria opposizione: qui, il 16, il Partito socialista e la CGL proclamarono lo sciopero generale [...] 100.000 operai [...] furono erette barricate [...] Salandra ribadì le disposizioni ai prefetti di mantenere l'ordine ad ogni costo: le dimostrazioni contro la guerra vennero energicamente represse [...] Il parlamento si riunì il 20 maggio e il governo chiese i pieni poteri per la guerra. Soltanto Turati parlò contro [...] Il 22 maggio fu ordinata la mobilitazione: il giorno seguente Sonnino inviò un ultimatum all'Austria, e il 24 l'Italia entrò in guerra. [...] L'Italia entrò dunque in guerra con entusiasmo, ma in un'atmosfera di guerra civile: sotto la superficie, il paese era profondamente diviso. [...] Una minoranza entusiasta aveva imposto la propria volontà, così come cinquantacinque anni prima un'altra minoranza aveva realizzato l'unità. [...] Dopo la vittoria, i nazionalisti esaltarono il fatto che una ribellione della coscienza nazionale avesse abbattuto la tirannide parlamentare. Turati deplorò <<la sconfitta generale [...]>>: <<La guerra [...] avrebbe prodotto questo primo effetto [...]: di aver abolito fra noi il vigore e la dignità dell'istituto parlamentare>>." Da Ch. Seton-Watson, L'Italia dal liberalismo al fascismo. 1870-1925, Laterza, Bari, 1973. 

[86][86] A questo proposito l'insigne storico idealista Adolfo Omodeo, che rispetto alla guerra, cui partecipò come ufficiale volontario nell'artiglieria, aveva una posizione interventista liberale ma vicina a quella dei democratici, pone in uno scritto del 1934, con puntuale e innovatrice precisione, il "[...] problema di una storia spirituale della guerra; ché, certamente, quegli eserciti ebbero un'anima che li resse; che circolò nella parola sussurrata nella trincea; che urtò contro i motivi eterni dell'egoismo e della conservazione personale; che sofferse e pianse la famiglia lontana, il dolore assiduo, i compagni caduti; che si levò nell'ebbrezza degli assalti; che spasimò nei rovesci." E continua, con notazioni metodologiche precise, ma soprattutto in  singolare coincidenza anche temporale con lo storico della Rivoluzione francese Georges Lefebvre e la sua scuola de "Les Annales d'histoire economique et sociale" (dal 1929) nello studio delle fonti minori come documenti altrettanto validi di quelli ufficiali: "Per fare un primo passo in questa storia, io credo che convenga iniziare lo studio delle vestigia di quest'animo dell'esercito italiano, cominciando dalle lettere e dai diari dei combattenti, [...] documenti [....] come di chi ricapitoli in un momento supremo tutta la propria vita e ne determini le grandi linee. [...] E' tutta una letteratura oscura, di scarsa diffusione, ma che merita d'essere scrutata. [...] e tenendo anche presente che ogni più ricco archivio è pur sempre lacunoso e tendenzioso [...] La storia non è il documento bruto, ma il documento ravvivato e inverato dalla critica, e collocato nel suo giusto posto. Tornando al nostro argomento, [...] Il lavoro sarà inevitabilmente frammentario; ma solo ponendovi mano si può iniziare la storia morale della guerra, che non sarà senza importanza per la storia più strettamente militare. Questo incentramento della storia nelle personalità viventi ed operose [...] è condizione essenziale della storia, anche per quegli indirizzi che amano concepire sociologicamente la realtà, come conflitti di ceti e di classi. Ad un certo punto, classi, ceti, nazioni, s'esprimono e si rappresentano a se stessi in uomini di ricca vitalità; senza di essi, quei vasti corpi rimarrebbero mere potenze, da nulla fecondate. Uomini rappresentativi, si dice [...]. Ma la sfumatura collettivistica non è esatta [...]." Cfr. Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra, Laterza, Bari, 1934.

[87][87] P. Carabellese, La coscienza religiosa in Italia. Risposte di Pantaleo Carabellese, Firenze, 1916; Idem, "La coscienza morale come teoria della volontà" cit., 1917, scritto in risposta alla "Recensione" di G. Vidari al suo La coscienza morale cit., 1915, in "Rivista di Filosofia", fasc. II, 1916.

[88][88] Per i particolari sul conseguimento di questo titolo riguardanti la Commissione giudicatrice e altro, rimandiamo a Michele del Vescovo, Pantaleo Carabellese... cit., n. 14, p. 31.

[89][89] Nello stesso 1917, il I agosto, papa Benedetto XV, ribadendo l'appello del '14, scrisse la "Nota di pace" nella quale, come "Padre comune che tutti ama, nello sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene",  esortava dall'alto della sua autorità morale i belligeranti "a più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una <<pace giusta e duratura>>." E continuava: "Noi, non per mire politiche particolari [...] ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, [...] alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un più caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. [...] vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche, ed invitare i Governi [...] ad accordarsi sopra i seguenti punti [...] il punto fondamentale, deve essere che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti, [...] nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato [...] Quanto ai danni e alle spese di guerra [...] una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai beneficii  immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione [...] per ragioni di ordine economico. [...] la reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. [...] Per ciò che riguarda le questioni territoriali, [...] le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, [...] delle aspirazioni dei popoli [...] Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono [...] la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l'assoluto dovere di procurare. Vi inspiri il Signore [...], meritandovi il plauso dell'età presente, vi assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori. [...]" La Nota pontificia, che fu pubblicata su "La Civiltà cattolica" del I settembre 1917 e che ebbe grandissima risonanza in tutto il mondo occidentale, venne recepita in Italia a seconda delle parti come "una pugnalata alla schiena dell'esercito e un incitamento al disfattismo" o come una giusta e autorevole voce da seguire. Dopo la disfatta di Caporetto, nella polemica che da subito la seguì, fu indicata, assieme alla propaganda socialista, tra i motivi che spinsero i soldati alla rotta.

[90][90] I "Quattordici punti" che costituivano il programma di pace enunciato da Wilson al Congresso degli Stati Uniti l'8 gennaio 1918, erano una perfetta sintesi di ideologia democratica e pragmatismo politico-economico. Si noti anche, oltre al punto 9 che riguarda l'Italia, la visione d'insieme non solo della guerra, ma anche della sua risoluzione politica per quanto attiene a tutte le nazionalità coinvolte in essa, sì da porre le basi per un loro controllo che spostava da allora in poi l'asse dell'equilibrio del potere dal piano internazionale del Vecchio Mondo al piano intercontinentale del Nuovo: "1) Convenzioni di pace palesi [...] non [...] accordi internazionali segreti di alcuna specie [...]. 2) Libertà assoluta della navigazione sui mari all'infuori delle acque territoriali, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra [...]. 3) Soppressione, per quanto sarà possibile, di tutte le barriere economiche e creazione di condizioni commerciali eguali fra tutte le nazioni che consentiranno alla pace, e si associeranno per mantenerla. 4) Garanzie [...] che gli armamenti nazionali saranno ridotti all'estremo limite compatibile con la sicurezza del Paese. 5) Libera sistemazione [...] imparziale, di tutte le rivendicazioni coloniali basate sulla stretta osservanza del principio che, nel determinare tutte le questioni di sovranità, gli interessi  delle popolazioni interessate dovranno avere un peso eguale a quello delle domande eque del Governo il cui titolo dovrà essere conosciuto. 6) Sgombero di tutti i territori russi [...] per dare alla Russia [...] l'indipendenza del proprio sviluppo politico e della propria politica nazionale, per assicurarle una sincera accoglienza nella Società delle Libere Nazioni [...] [e] ogni aiuto di cui abbia bisogno [...] 7) Quanto al Belgio, [...] dev'essere sgombrato e restaurato senza alcun tentativo di limitare la sovranità [...]. Nessun altro atto servirà quanto questo a ristabilire la fiducia tra le Nazioni nelle leggi che esse stesse hanno stabilito e fissato per regolare le loro reciproche relazioni. [...] 8) Tutto il territorio francese dovrà essere liberato [...]. Il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871 per quanto riguarda l'Alsazia-Lorena e che ha turbato la pace del mondo per quasi cinquant'anni, dovrà essere riparato affinché la pace possa ancora una volta essere garantita nell'interesse di tutti. 9) La sistemazione delle frontiere dell'Italia dovrà essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili. 10) Ai popoli dell'Austria-Ungheria, il cui posto desideriamo vedere tutelato e garantito fra le Nazioni, si dovrà dare [...] uno sviluppo autonomo. 11) La Romania, la Serbia, il Montenegro dovranno essere sgombrati [...] Alla Serbia dovrà accordarsi [...] accesso al mare. Le relazioni tra i vari Stati balcanici dovranno essere fissate amichevolmente secondo i consigli delle potenze e in base a linee di nazionalità stabilite storicamente. Saranno fornite [...] garanzie di indipendenza politica ed economica e per l'integrità dei loro territori. 12) Una sicura sovranità sarà garantita alle parti turche dell'Impero ottomano attuale; [...] I Dardanelli dovranno essere aperti permanentemente e costituire un passaggio libero [...]. 13) Dovrà essere stabilito uno Stato polacco indipendente [...] si dovrà assicurare un libero e sicuro accesso al mare [...]. 14) Un'associazione generale delle Nazioni dovrà essere formata [...] allo scopo di fornire mutue garanzie di indipendenza politica e di integrità territoriale ai grandi come ai piccoli Stati." Dal "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1918.

[91][91] La storiografia successiva, ma anche già da subito gli stessi ambienti politico-militari dell'epoca, hanno a lungo discusso se Caporetto sia stata una sconfitta militare o politica: "Intorno alla rotta dell'esercito italiano nell'ottobre del 1917 è fiorita una vasta pubblicistica ed una interminabile diatriba storiografica. [...] La classe militare [...] addusse come causa primaria della sconfitta dapprima la viltà dei soldati e subito dopo il disfattismo che dall'interno del paese aveva via via contagiato le truppe [...] si evitava a priori la tesi d'una <<Caporetto>> militare riconducendo tutto il disastro ad una debolezza morale e politica dell'intera nazione. [...] invece [...] [gli] alleati franco-inglesi [...] comunicarono al governo Orlando la loro piena sfiducia nel Comando italiano. Lloyd George, primo ministro inglese, richiese ufficialmente il siluramento di Cadorna e del suo stato maggiore [...] anche in Italia si venne formando, specie tra gli interventisti democratici, la convinzione [...] dei gravi errori militari e, infatti, alla fine della guerra fu creata una commissione d'inchiesta per chiarire le responsabilità dei vari Cadorna, Porro, Capello, Badoglio, ecc. Le conclusioni dell'inchiesta furono, però, ambigue perché da un lato si misero in luce alcuni errori strategici, dall'altro [...] lasciando ampio spazio a nuove polemiche ed alla cristallizzazione delle due tesi della <<Caporetto>> militare e di quella politica. [...] usate per avvalorare le diverse scelte ideologiche degli storiografi. Sotto il fascismo, per esempio, parve più rispondente ai bisogni del regime addossare tutta la responsabilità agli avversari politici - socialisti, cattolici e giolittiani - rivalutando, nel contempo, l'operato dei comandi militari. [...] D'altro canto, la storiografia liberale e democratica [...] ha insistito sulle responsabilità militari, con una documentazione sempre più ampia e schiacciante, ma ha finito col negare quasi del tutto il carattere politico ed il potenziale   rivoluzionario di Caporetto. [...] il generale Badoglio comunicò di essere <<soddisfatto dello stato morale delle truppe>> [...] stante la diffusa opinione che l'autunno e l'inverno sarebbero trascorsi senza importanti azioni belliche [...]. Eppure erano giunte, sia al Cadorna che al presidente del Consiglio V. E. Orlando, da parte del servizio informazioni e dai prigionieri austriaci, notizie sempre più precise ed insistenti d'un prossimo attacco nemico sul fronte dell'Isonzo [...] Durante le varie fasi di questa tragica avanzata austro-tedesca, i comandi italiani persero completamente la testa: in una relazione dell'ufficio storico dello stato maggiore, mai resa di pubblico dominio [...]: <<[...] Troppi comandanti si ritirarono prima delle truppe.>> Già nel 1920 un esperto di cose militari affermò senza tema di smentite che: <<Gli ufficiali superiori e i generali [...] disponendo di automobili, si misero senz'altro in salvamento.>>  [...] La sconfitta militare era stata, però, effettivamente accompagnata da una sorta di sciopero, dall'insubordinazione generalizzata, dalla diserzione di massa, da un diffuso spirito di rivolta e di protesta. Il malcontento delle truppe, a stento soffocato dalle dure repressioni, si era già ampiamente manifestato in precedenti casi [...] nelle uccisioni [...] soprattutto, di carabinieri (tale corpo, svolgendo le funzioni di polizia militare, era particolarmente odiato dai soldati) [...] Caporetto diveniva per i fanti il momento della vendetta: le truppe, dapprima si erano rifiutate di farsi nuovamente massacrare ed avevano senz'altro rinunciato ad opporsi [...], poi, in una confusa ritirata avevano cominciato a inneggiare alla rivoluzione, al Papa, a Giolitti, all'Austria stessa che con la sua stessa vittoria avrebbe assicurato finalmente la fine della guerra." Cfr. G. Lehner, Economia, politica e società nella prima guerra mondiale cit.

[92][92] Infatti continua Lehner, che qui esprime chiaramente una visione di parte, nell'op. cit. alla n. precedente: "Non v'era, in tutto ciò, un preciso obiettivo politico, ma un enorme potenziale di protesta che avrebbe potuto spegnersi di lì a poco - come, infatti, avvenne - o trasformarsi in un'impresa rivoluzionaria [...]. La seconda soluzione avrebbe avuto possibilità di successo nel caso che i dirigenti dei partiti proletari - specie del P.S.I. - non avessero rinunciato da tempo ad instaurare degli stretti rapporti con la massa dei combattenti e si fossero coraggiosamente messi a capo della rivolta. In realtà, i socialisti, massimalisti o riformisti che fossero, non solo non compresero [...] il momento - auspicato da Lenin e dalla Sinistra rivoluzionaria europea - di trasformare la guerra imperialistica in lotta armata contro la borghesia per la instaurazione del socialismo, ma, sorpresi e sconvolti, si affrettarono a dissociarsi [...] i riformisti Turati e Treves, alla Camera e sui loro giornali, rivolsero appelli alla resistenza contro gli invasori, e la Confederazione del lavoro, anch'essa diretta dai riformisti, si fece garante del patriottismo dei lavoratori (<<Il proletariato farà tutto intero il suo dovere>>). [...] ormai, la formula del <<né aderire, né sabotare>> era pubblicamente corretta in [...] <<aderire e non sabotare>> [...]. A comprendere il potenziale rivoluzionario [...] furono, per assurdo, proprio i loro avversari di classe: la casta militare, gli interventisti, i conservatori, la borghesia capitalistica, gli intellettuali. [...] alcuni ricchi borghesi, presi dal panico, si allontanarono [...] sulla riviera ligure [...] Si passava così rapidamente alla seconda tesi: Caporetto era stata il frutto della campagna disfattista all'interno del paese. Si citavano la nota papale auspicante la pace dell'agosto del 1917 (in particolare la definizione della guerra come <<inutile strage>>) e le parole pronunciate nel luglio in parlamento dal Treves (<<Il prossimo inverno non più in trincea>>), come esempi lampanti di tale sottile e insinuante disfattismo, tanto più efficace vista la fragilità della psiche contadina, unanimemente teorizzata dagli scienziati borghesi. [...] quella massa di sbandati, esaltati sulle prime per il loro primo grande atto d'insubordinazione e di riscatto dopo due anni di sofferenze e di umiliazioni, senza una parola od una guida politica, privi di contatti con l'interno del paese [...] assaporando, sopra ogni cosa, il piacere della liberazione dall'incubo della guerra, sostituirono alla primitiva [...] rabbia contro i borghesi imboscati, i capi militari e politici, i responsabili della guerra, l'ansia del rapido ritorno a casa. Ma il potere militare era ormai in grado di riprendere il controllo della situazione: non ci sarebbe stata né la pace, né il ritorno a casa per i fanti di Caporetto, ma nuove repressioni [...+ Dopo più di mezzo secolo di sbrigative negazioni o di interessati silenzi, il problema di Caporetto come occasione rivoluzionaria mancata è stato riproposto, dapprima dal Valiani [...] e poi, in un clima di sempre nuovo interesse per la storia della guerra 1915-'18, in tutta una serie di saggi [...] Caporetto, al di là degli schemi tradizionali, si ripresenta oggi aperto a nuove interpretazioni e discussioni."

[93][93] Afferma F. Catalano, nell'opera Stato e società nei secoli, Casa ed. G. D'Anna, Messina-Firenze, 1968, vol. III: "[...] sotto il governo Orlando, vennero lanciate le parole d'ordine della <<terra ai contadini>> e della partecipazione degli operai agli utili delle imprese. A proposito di quest'ultima, il <<Corriere economico>> dell'aprile 1918 sosteneva che [...] <<[...] il salariato è un socio dell'impresa>>; [...] ed era meglio concedere anziché essere costretti a cedere (Arturo Labriola, alla Camera, il 17 ottobre '17, aveva rimproverato il governo di aver chiesto la vita ai proletari ma di non aver saputo chiedere ai latifondisti la terra). Alcune società, come l'Ilva, la Fiat, la Pirelli, verso la metà del '18, mostravano di voler prendere in considerazione questo problema dell'azionariato operaio [...]. Ma L. Einaudi, dall'alto della sua scienza economica classica, giudicava negativamente tutto questo affannarsi per trovare una soluzione anticipata ai conflitti tra capitale e lavoro [...]: <<[...] una cosa vecchissima, provata e riprovata, per lo più con insuccesso o mediocrissimo successo, com'è la partecipazione ai profitti [...]>> [...]."

[94][94] A questo periodo immediatamente successivo alla guerra appartengono gli articoli citati su "La nostra sconfitta" e "Intorno alla proporzionale", ambedue del 1919, il secondo a testimonianza della partecipazione di Carabellese al dibattito politico sulle forme di sistema elettorale.

[95][95] P. Carabellese, "L'insegnamento della filosofia", in "Giornale critico della filosofia italiana", n. 2, 1921, poi rist. in Idem, Che cos'è la filosofia? cit., II ed. 1942.

[96][96] Idem, "L'attività concreta. Introduzione allo studio del Bene", 1920, poi rist. in Idem, Critica del concreto cit., I ed. 1921. Sempre nel '20 Carabellese recensisce un volume di E. Juvalta su I limiti del razionalismo, in "Giornale critico della filosofia italiana", n. 2, 1920.

[97][97] Idem, "Che cos'è la filosofia?", in "Rivista di filosofia", a. XIII, n. 3, Bologna, 1921, poi rist. in Idem, Che cos'è la filosofia? cit., II ediz. 1942.

[98][98] Idem, "Un saggio di filosofia concreta", nella neonata Rivista "La cultura", a. I, n. 8, Roma, 1922, poi rist. in Idem, Che cos'è la filosofia? cit., II ediz., 1942.

[99][99] Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L'Italia dal 1918 al 1922, La Nuova Italia, Firenze, 1950, che afferma, citando inizialmente Mussolini: "'Se la rivoluzione borghese del 1789 [...] aprì le porte e le strade del mondo alla borghesia che aveva fatto un lungo e secolare tirocinio, la rivoluzione attuale, che è anche una guerra, sembra schiudere le porte dell'avvenire alle masse che hanno fatto il loro duro tirocinio di sangue e di morte nelle trincee. [...] Si apre nella storia un periodo che potrebbe definirsi <<della politica delle masse>> [...] Dobbiamo indirizzarlo verso la democrazia politica e verso la democrazia economica' E' questa l'atmosfera torbida ed esaltante che i combattenti, i reduci trovarono ritornando a casa [...] I contadini [...] rientrano per rivendicare il loro diritto alla terra. Gli operai guardano alla Russia [...] <<La caduta degli Hohenzollern in Germania - scrive un reduce, Pietro Nenni -, lo sgretolamento dell'Impero degli Asburgo [...] suscitarono la speranza che il vecchio mondo stesse per crollare [...] Bisognerebbe, anche in Italia, [...] portare le masse a partecipare alla vita politica, a costruire lo Stato popolare. L'Italia potrebbe in questo modo compiere, infine, quella sua rivoluzione nazionale che il Risorgimento aveva eluso. [...] In novembre le elezioni politiche rivelano la nuova faccia dell'Italia. Sono, grazie a Nitti, le prime elezioni veramente libere da quando il regno è unito. La proporzionale, da lui introdotta, favorisce il sorgere di grandi partiti, il socialista ed il <<popolare>> (cattolico). [...] Il Vaticano ha tolto il non expedit, malgrado la <<questione romana>>. I cattolici hanno potuto votare e prendono il loro posto nella vita nazionale [...] E' una rivoluzione nella rivoluzione. Poiché il 1919 è proprio l'anno della rivoluzione italiana, della rivoluzione democratica."

[100][100] Afferma N. Valeri, La lotta politica in Italia dall'Unità al 1925, Le Monnier, Firenze, 1973: "[...] il vecchio mago, avrebbe potuto rinnovare, componendo i dissidi sociali, ridando ordine al Paese, rialzandone il prestigio all'estero e resuscitando all'interno il buon mercato [...] Soltanto un uomo della sua autorità era in grado di risolvere onorevolmente il problema di Fiume. [...] La preoccupazione di Giolitti era [...] l'imminente allargamento del moto rivoluzionario. [...] il colpo di Stato, variamente progettato fino allora a Fiume, pareva sul procinto di tradursi [...] in realtà. Nel settembre del 1920, era corso tra il <<Comandante>> e Mussolini [...] un preciso piano d'azione, prevedente una rivolta armata guidata da D'Annunzio, che avrebbe dichiarato decaduta la Monarchia e assunto la somma dei poteri insieme con un triumvirato politico. [...] Giolitti tagliava alle radici il bubbone concludendo il trattato di Rapallo con la Jugoslavia (12 novembre 1920) [...] la Dalmazia ceduta alla Jugoslavia, Fiume riconosciuta Stato indipendente, Zara annessa all'Italia. L'accordo fu votato dal Parlamento e accolto [...] da tutti i partiti, e perfino da Mussolini, che non esitò [...] a piantare in asso il suo <<Comandante>> [...] Ma il poeta s'irrigidì. [...] Giolitti allora, visti vani i consigli, ordinò [...] di far sgomberare la città [...] E fu il famoso <<Natale di sangue>> [...]."

[101][101] Antonio Gramsci, in un articolo su "Ordine Nuovo" del 2 agosto 1919 (quindi ben prima del fallimento del "biennio rosso"), poi stamp. in Idem, Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo 1921-22, Einaudi, Torino, 1966, afferma: "Le conquiste spirituali realizzate durante la guerra, le esperienze comunistiche accumulate in quattro anni di sfruttamento del sangue, subito collettivamente, stando gomito a gomito nelle trincee fangose e insanguinate, possono andare perdute se non si riesce a inserire tutti gli individui in organi di vita nuova collettiva, nel funzionamento e nella pratica dei quali le conquiste possano solidificarsi, le esperienze possano svilupparsi, integrarsi, essere rivolte consapevolmente al raggiungimento di un fine storico concreto. Così organizzati i contadini diventeranno un elemento di ordine e di progresso; abbandonati a se stessi [...] un tumulto incomposto [...] Ma con le sole forze degli operai d'officina la rivoluzione non potrà affermarsi stabilmente e diffusamente: è necessario saldare la città alla campagna, suscitare nella campagna istituzioni di contadini poveri sulle quali lo Stato socialista possa fondarsi e svilupparsi [...]."

[102][102] Sempre A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Laterza, Bari, 1972, afferma: "[...] dopo le elezioni del novembre 1919, si produce una corsa verso la Confederazione del lavoro <<rossa>>, a cui partecipano tutte le categorie, ivi comprese quelle degli impiegati privati, dei tecnici, dei funzionari dello Stato [...] I [...] tesserati [...] C.G.L. [...] divengono, verso la fine del 1920, 2.200.000. [...] Una epidemia di scioperi [...] sarà vinta dovunque dalla doccia fredda della crisi economica. [...] I conflitti tra i manifestanti e la forza pubblica si moltiplicano [...] morti sulla strada [...] Il manifesto redatto il 25 giugno 1920 [...] dalla Direzione del Partito socialista, dal Gruppo parlamentare socialista e dalla C.G.L., si pronuncia contro le azioni locali [...] Giolitti [...] Inizia così quel ruolo di liquidatore della crisi borghese che lo mette, in settembre, davanti a un avvenimento pericoloso: l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai in tutto il paese. La Federazione degli operai metallurgici (F.I.O.M.) aveva cominciato in maggio la discussione di un contratto di lavoro con gli industriali, decisi a rifiutare ogni concessione. [...] Bisogna trovare qualcosa di diverso dallo sciopero [...] lo <<sciopero bianco>>. Gli industriali si preparano a rispondere [...] con la serrata. [...] la F.I.O.M. dà l'ordine agli operai di occupare le fabbriche [...] Il 31 agosto [...] Milano [...] nei due giorni successivi a tutta l'Italia [...] tutti i tecnici e gli impiegati hanno abbandonato le officine per ordine dell'organizzazione padronale. [...] La classe operaia italiana [...] si è creduta alla soglia del potere [...] e vede invece il solito orizzonte [...] Ciò nonostante una rivoluzione si è compiuta [...] I Fasci, anemici e quasi inesistenti prima del settembre 1920, si moltiplicano [...] Non è il fascismo che ha vinto la rivoluzione, è l'inconsistenza della rivoluzione che provoca il sorgere del fascismo. La borghesia ha ricevuto, con l'occupazione delle fabbriche, uno choc psicologico che spiega il suo furore e determina i suoi atteggiamenti successivi. Gli industriali [...] colpiti nei loro diritti di proprietà e di comando [...] mostrano soprattutto un gran rancore contro Giolitti, che <<non li ha difesi>> [...]."

[103][103] I <<Sansepolcristi>>, dal nome della Piazza di Milano in cui si costituirono radunando reduci dell'Associazione Nazionale Combattenti, sindacalisti, militari, nazionalisti e antisocialisti, redassero questo Manifesto, pubbl. su "Il Popolo d'Italia" il 6 giugno '19: "Italiani! [...] Per il problema politico: Noi vogliamo: a) Suffragio universale [...] voto ed eleggibilità per le donne. b) Il minimo di età per gli elettori abbassato a 18 anni [...] c) L'abolizione del Senato. d) La convocazione di un'Assemblea Nazionale [...] [per] stabilire la forma di costituzione dello Stato. e) La formazione di Consigli Nazionali tecnici [...] eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro. Per il problema sociale: [...] la giornata legale di otto ore di lavoro. b) I minimi di paga. c) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell'industria. [...] Per il problema militare: [...] a) L'istituzione di una milizia nazionale [...] b) La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi. c) Una politica estera nazionale intesa a valorizzare, nelle competizioni pacifiche della civiltà, la Nazione italiana nel mondo. Per il problema finanziario: [...]a) Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze. b) Il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l'abolizione di tutte le mense Vescovili che costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi. c) La revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell'85% dei profitti di guerra."

[104][104]  A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Laterza, Bari, 1965.

[105][105] Ancora A. Gramsci, in Socialismo e fascismo cit., afferma: "Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti avrà specialmente questo significato: la classe operaia si stacca da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite nel parassitismo statale [...] per creare aristocrazie proletarie, che accanto al protezionismo doganale borghese (forma legale del predominio del capitalismo industriale e finanziario [...])avevano creato un protezionismo cooperativo [...] I riformisti portano come <<esemplare>> il socialismo reggiano, vorrebbero far credere che tutta l'Italia e tutto il mondo può diventare una sola Reggio Emilia. La classe operaia afferma di ripudiare tali forme spurie di socialismo [...] l'emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l'alleanza degli operai industriali del nord e dei contadini poveri del sud per abbattere lo stato borghese [...]."

[106][106] A questo drastico giudizio di Tasca su Giolitti si contrappone quello espresso da Renzo De Felice in "Mussolini il fascista", in La conquista del potere 1921-23, Einaudi, Torino, 1966: "Del preteso filofascismo di Giolitti [...] spera ancora che a Livorno [...] avvenga il miracolo che egli ha atteso per tutta la vita: che il socialismo accetti di collaborare con lui; che usciti i comunisti [...] Nell'attesa [...] conduce, con poco successo, una politica di contenimento del fascismo, preoccupandosi di salvaguardare [...] l'autorità delle istituzioni [...] quando è tramontata la possibilità dell'accordo con Turati, egli decide di fare le elezioni [...] ridurranno la forza dei socialisti [...] e dei popolari [...] L'azione di Giolitti, dunque, non era in funzione dei fascisti, ma dei socialisti e [...] dei popolari. [...] la collaborazione con il governo, unico mezzo [...] per fronteggiare l'offensiva reazionaria [...] Giolitti non solo non consentì che i fascisti fossero armati dagli elementi militari [...] [ma volle] assicurare un'attenta vigilanza del movimento fascista, la repressione di ogni connivenza con esso della forza pubblica [...] per il rispetto della legge [...] inadeguatezza delle autorità periferiche e delle forze di polizia [...] nell'attuare con fermezza le istruzioni del governo [...]: le vaste simpatie che i fascisti godevano tra i funzionari, soprattutto dei gradi più bassi, e i militari dei corpi di polizia. [...] l'origine piccolo e medio borghese di gran parte dei funzionari e dei militari [...] dato il carattere <<antibolscevico>> e <<d'ordine>> del fascismo [...] alleato contro quei <<sovversivi>> dei quali per oltre due anni [biennio rosso] [...] In questo senso [...] esiste tutta una vastissima documentazione che non lascia dubbi. [...] Che il vecchio statista vedesse di buon occhio il risveglio delle classi medie [...] L'importante era che il fascismo potesse essere  mantenuto sotto controllo e incanalato nell'alveo delle forze medie: [...] integrato nello Stato liberale. [...] In realtà, per capire il <<caso>> Giolitti è necessario rifarsi al particolare momento storico, alla crisi di trasformazione che stava attraversando la società italiana sotto ogni profilo, [...] e alla inadeguatezza degli strumenti [...] con i quali il governo e Giolitti si trovavano a fronteggiare questa crisi [...]  contrapporre partiti di massa a partiti di massa, giornali a giornali, propaganda diretta e capillare a propaganda diretta e capillare, in una parola a formare, guidare e orientare anch'essi l'opinione pubblica [...] ha notato il De Rosa, dalle istruzioni di Giolitti  [...] considerassero le violenze del fascismo sotto l'unico angolo visuale della violazione della legge, come reati che bastasse perseguitare  semplicemente con gli strumenti normali della legge, applicando il codice [...] vedevano i reati, ma non il sovversivismo [...] sfuggisse la complessità del moto insurrezionale, che stava sgretolando tutta l'impalcatura dello Stato liberaldemocratico>>. [...] non si rendevano conto che il fascismo non aveva nulla in comune con i vecchi partiti e movimenti patriottici e d'ordine, e neppure col vecchio sovversivismo prebellico [...]."

[107][107] Giorgio Candeloro, nella sua Storia dell'Italia moderna, Feltrinelli, Milano, 1978, vol. VIII, afferma: "L'andata al potere era divenuta d'altra parte per i fascisti una necessità. Dopo circa venti mesi di azioni squadristiche [...] scomparso il cosiddetto pericolo bolscevico; era quindi probabile che la borghesia prima o poi si stancasse di sostenere finanziariamente e politicamente l'apparato squadristico del fascismo e si orientasse verso correnti politiche moderate che facilitassero un sollecito ritorno alla normalità. Inoltre non era possibile fare coesistere a lungo l'apparato dello Stato e l'apparato militare e repressivo dei fasci [...] due diverse impostazioni delineatesi tra i dirigenti fascisti riguardo al metodo per la conquista del potere: una legalitaria [...] una insurrezionale [...] [che] voleva arrivare alla conquista del potere, e non soltanto ad una partecipazione fascista al governo, mediante la cosiddetta marcia su Roma. [...] irrealizzabile se l'esercito fosse sceso in campo contro i fascisti. L'azione insurrezionale implicava quindi  una preventiva preparazione politica mirante a ottenere che il re, il governo e gli alti gradi dell'esercito rinunciassero a usare contro i fascisti le forze armate dello Stato. Questo comprese Mussolini, che svolse un'azione politica assai complessa. [...] Insieme a questo complesso lavoro politico Mussolini diede impulso alla preparazione della marcia su Roma, che egli concepì in sostanza come una grossa messa in scena insurrezionale destinata a rafforzare il lavoro politico con la minaccia della guerra civile. [...] sul Popolo d'Italia il 3 e il 12 ottobre. Veniva così ufficialmente costituito una sorta di esercito privato, senza che il governo prendesse alcun provvedimento. [...] il Presidente del Consiglio intendesse allungare quanto più possibile la vita del suo traballante governo in attesa della [...] successione di Giolitti. [...] Comunque il re, la sera stessa del '26, inviò a Facta un telegramma che diceva: "[...] contatto con l'on. Mussolini [...] opportuna soluzione [...] il solo efficace mezzo di evitare scosse pericolose è quello di associare il fascismo al governo nelle vie legali>> [...] quando, alle ore 20 del 27 ottobre, il re arrivò in treno a Roma. [...] apparve molto preoccupato [...] disse che Roma doveva essere difesa. <<La Corona doveva poter deliberare in piena libertà, e non sotto la pressione dei moschetti fascisti>>."

[108][108] Continua ivi Candeloro: "[...] Facta [...] andò al Viminale [il 27 ottobre '22] per preparare il decreto sullo stato d'assedio, che il re avrebbe dovuto firmare la mattina seguente. [...] Ma alle 9 [del 28 ottobre], quando Facta presentò al re il decreto sullo stato d'assedio, il re rifiutò di firmarlo. [...] La decisione del re aprì di fatto la via al governo Mussolini, sebbene Vittorio Emanuele preferisse probabilmente un ministero presieduto da Salandra, con la partecipazione dei fascisti. [...] dopo le dimissioni di Facta, [...] l'incarico a Salandra, che accettò e subito chiese [...] di persuadere Mussolini ad accettare il ministero dell'interno. Ma questi rispose negativamente [...] dichiarando [...] che si sarebbe recato a Roma solo quando il re gli avesse conferito l'incarico di formare il governo. [...] Il sovrano decise quindi di chiamare Mussolini, che [...] arrivò a Roma la mattina del 30. [...] da quel momento in poi fino alla Repubblica l'Italia non ebbe più un regime parlamentare. Il parlamento infatti perse via via di importanza anche prima che il governo fascista divenisse un regime. In questo senso nei giorni 28-30 ottobre 1922 fu attuato in Italia un colpo di Stato, che ruppe la continuità della tradizione costituzionale-parlamentare, anche se formalmente non violò la lettera del vecchio Statuto albertino. Il 30 ottobre le colonne fasciste [...] entrarono in Roma. [...] Vi furono morti e feriti; poi la calma fu ristabilita dall'intervento delle truppe. [...] Tempi durissimi si preparavano per le superstiti organizzazioni politiche e sindacali della classe operaia e per tutti quegli italiani che [...] vollero resistere ai nemici della libertà".

[109][109] Cfr. Ch. Seton-Watson, L'Italia dal liberalismo al fascismo 1870-1925, Laterza, Bari, 1973, vol. II: "[Dopo le elezioni dell'aprile '24] La nuova Camera si riunì il 24 maggio [...] i ministri fascisti apparvero per la prima volta in uniforme del partito [...] il discorso pronunciato da Giacomo Matteotti, che mostrò in quell'occasione le doti di un vero leader. [...] un pacifista intransigente, e dopo Caporetto [...] internato per disfattismo [...] esperto di problemi finanziari, della scuola e delle amministrazioni locali, era intellettualmente superiore alla gran massa dei suoi colleghi socialisti. [...] Il 30 maggio, per oltre quattro ore, tra una tempesta di interruzioni fasciste, Matteotti denunciò [...]. Quando finì di parlare dichiarò ai compagni: <<Ed ora potete anche prepararmi l'orazione funebre>>. [...] Mussolini scrisse sul <<Popolo d'Italia>> del 1o giugno [...] che la mostruosa provocazione di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale [...] il 10 giugno si apprese che Matteotti era scomparso [...] Il corpo era stato sepolto [...] in un bosco a venticinque chilometri da Roma, dove fu scoperto due mesi dopo. Gli assassini appartenevano alla cosiddetta <<Ceka>> che era sotto il controllo diretto di Cesare Rossi, capo dell'ufficio stampa del presidente del Consiglio, e di Giovanni Marinelli, amministratore del partito fascista [...] Il problema che sconvolse il paese nei sei mesi seguenti fu quello di determinare in quale misura il governo fosse responsabile dell'assassinio. Molto prima che questi fatti venissero alla luce, un'ondata di orrore e di indignazione [...]. Per alcune critiche settimane il fascismo apparve impotente e demoralizzato; Mussolini era isolato [...]." 

[110][110] Continua infatti ivi Seton-Watson a partire da dopo il delitto: "[...] uno spettatore casuale del rapimento aveva riferito alla polizia il numero dell'automobile di Filippelli, e questa pista portò le indagini nel cuore del partito fascista. [...] Il 13 giugno Mussolini affrontò di nuovo la Camera: <<Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto>>, egli dichiarò; era un delitto antifascista, antinazionale. [...] affermò che la coscienza del governo era tranquilla [...] le indagini della magistratura proseguivano. [...] Il 13 giugno i rappresentanti di tutti i settori dell'opposizione - i liberal-democratici di Amendola e di Di Cesarò, i popolari, i due gruppi socialisti, i repubblicani e i comunisti - decisero di non partecipare più ai lavori del parlamento fino a che dubbi tanto gravi persistessero sul sinistro episodio: fu questo l'inizio della <<secessione dell'Aventino>>, alla quale presero parte circa cento deputati. Guidati da Amendola, Turati e De Gasperi (successore di Sturzo [...] sicuri che, una volta dimostratane la complicità nel delitto, il fascismo sarebbe crollato [...] L'Aventino fu un gesto morale, basato sulla fiducia [...] che la giustizia avrebbe vinto. [...] tuttavia, nascondeva l'indecisione e l'impotenza dell'opposizione, che [...] rigorosamente fedele ai metodi costituzionali sostenuti da Amendola, riaffermò la propria decisione di tornare alla Camera soltanto quando fosse stato costituito un nuovo governo che avesse abolito la milizia e restaurato l'impero della legge. [...] La passività dell'Aventino rese il re arbitro della situazione [...] Vittorio Emanuele si rifugiò dietro il paravento delle forme costituzionali [...] perché egli potesse agire, il governo avrebbe dovuto essere prima sconfitto in parlmento. A suo giudizio,  l'opposizione si era messa dalla parte del torto abbandonando la Camera. [...] crisi per tutta l'estate [...] le iniziali speranze di tornare presto alla Camera svanivano. [...] L'Aventino continuò quindi ad attendere una direttiva dal re, questi rimase ad aspettare un'iniziativa del parlamento, e il parlamento continuò ad essere boicottato dall'Aventino: il circolo vizioso era completo."

[111][111] Renzo De Felice, Mussolini il fascista I. "La conquista del potere", Einaudi, Torino, 1966.

[112][112] Da un'intervista al "Giornale d'Italia" del 27 ottobre 1923: "[...] sono e non saprei non essere liberale. Perché? Non per deduzioni filosofiche o teoriche che ho già escluse dalla considerazione politica; [...]. Tutto il mio essere intellettuale e morale è venuto fuori dalla tradizione liberale del Risorgimento. [...] Se i liberali non hanno avuto la forza e la virtù di salvare l'Italia dall'anarchia in cui si dibatteva, debbono recitare il <<mea culpa>>, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto [...]". E dal "Corriere italiano" del 1 febbraio 1924: "[...] parlando da filosofo e da storico, non escludo in tesi generale che qualcosa di politicamente nuovo possa sorgere dal travaglio presente della vita italiana ed europea. Lo spirito umano è creatore [...] Dunque, potrà ben darsi che il fascismo crei un sistema politico affatto diverso dal liberale. Ma, per ora, non ne vedo in modo determinato neppure le prime linee. [...] invece lo spontaneo avviamento, mercè le elezioni politiche, a un ritorno, come si dice, alla legalità, cioè alla pratica costituzionale. [...] Il cuore del fascismo [...]: è l'amore alla patria italiana, è il sentimento della sua salvezza, della salvezza dello Stato. [...] e produrrà i suoi effetti. Tra i quali [...] quello di accrescere il numero di coloro che, scotendo il tradizionale indifferentismo italiano, sentono la passione politica e prendono profondo interesse alle cose dello Stato. Anche il liberalismo [...] ha per suo fondamento il concetto di uno Stato così saldo che possa accogliere in sé le tendenze antitetiche e permetterne lo sviluppo, mantenendo di continuo l'equilibrio tra esse e compiendo di continuo opera unitaria, d'interesse generale e nazionale. [...] Dalla ideologia viene la parte utopica di ogni moto politico [...] Veramente, di disegni politici, ossia di nuove costituzioni pare che finora si siano messi innanzi scarsi e vaghi accenni. C'è piuttosto la formula gerarchica del <<nuovo Stato fascista>> [...] Odo parlare perfino del nuovo pensiero, della nuova filosofia, [...] e, quantunque abbia qualche pratica e qualche abilità in coteste analisi e sintesi logiche, in coteste riduzioni a principi, questa volta non sono venuto a capo di nulla. Temo che il nuovo pensiero non ci sia [...]." Da B. Croce, Pagine sparse, Ricciardi, Milano, 1953, vol. II.

[113][113] Croce, com'è noto, fondò "La Critica" il 20 gennaio 1903 e la diresse con regolarità, nonostante il fascismo e poi in opposizione ad esso, per oltre quarant'anni, raccogliendovi intorno i migliori ingegni italiani dell'epoca e costituendo per gli altri una valida guida. Solo nel '44, per le difficoltà della Seconda Guerra, la rivista fu momentaneamente sospesa e poi sostituita dal '45 dai "Quaderni della 'Critica'".

[114][114] G. Gentile, "Manifesto degli intellettuali del Fascismo", in E. R. Papa, Storia di due manifesti, Feltrinelli, Milano, 1958.

[115][115] B. Croce, Risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, Roma, 1925.

[116][116] In occasione, e subito dopo, della morte di Gentile, Carabellese scrisse, nell'"Annuario" dell'Università di Roma, A.A. 1944-45, "Giovanni Gentile (30 maggio 1875 - 15 aprile 1944)" cit.

[117][117] Per la Prolusione all'insegnamento vedi dopo la nota relativa ai rapporti tra Carabellese e Gentile rispetto al "Giornale critico della filosofia italiana", dove fu pubblicata.

[118][118] Le voci, che ricordiamo in ordine cronologico e che coprono quasi tutti i nove anni di uscita dei volumi dal 1929 al 1937, sono: "Appercezione", in Grande Enciclopedia Italiana Treccani, 1929; "Astratto", ivi, vol. V, 1930, poi rist. in Idem, Critica del concreto cit., III ed. 1948; "Certezza", "Concreto", "Cosa in sé", "Criticismo", tutte in Grande Enciclopedia Italiana cit., vol. XI, 1931, le prime tre voci poi rist. anch'esse in Idem, Critica del concreto cit., III ed. 1948; "Errore", in Grande Enciclopedia Italiana cit., 1932, poi rist. anch'essa  in Idem, Critica del concreto cit., III ed. 1948; "Giovanni Amedeo Fichte", in Grande Enciclopedia Italiana cit., vol. XV, 1932, poi rist. in Idem, Da Cartesio a Rosmini cit., 1946; "Federico Enrico Jacobi", in Grande Enciclopedia Italiana cit., vol. XVIII, 1933, poi rist. anch'essa in Idem, Da Cartesio a Rosmini cit., 1946; "Emmanuele Kant", in Grande Enciclopedia Italiana cit., vol. XX, 1933, poi anch'essa in Idem, Da Cartesio a Rosmini cit., 1946; e infine "Bernardino Varisco", in Grande Enciclopedia Italiana cit., 1937, dove è da notare anche la politica linguistica del fascismo di italianizzazione dei nomi propri stranieri, quando non di sostituzione o bando di quelli comuni. Riguardo all'importanza della Grande Enciclopedia Italiana negli anni del regime anche come baluardo accademico di libero pensiero, ma anche riguardo in generale alla cultura italiana di quegli anni e al rapporto tra intellettuali, sia eminenti che "minori", sia allineati che non, e fascismo, cfr., tra gli altri, Norberto Bobbio, "Cultura italiana e fascismo" in Guido Quazza, Valerio Castronovo, Giorgio Rochat, Guido Neppi Modona, Giovanni Miccoli, Norberto Bobbio, Fascismo e società italiana, Piccola Biblioteca Einaudi, Einaudi, Torino, 1973, pp. 209-246.

[119][119] La prima forma di collaborazione di Carabellese al "Giornale critico della filosofia italiana" fu la "Recensione" a E. Juvalta, I limiti del razionalismo etico, in "Giornale critico della filosofia italiana", fasc. II, 1920; seguirono "L'insegnamento della filosofia" cit., 1921; "Il pensiero filosofico di Bernardino Varisco" cit., 1926; "Il pensiero pedagogico di B. Varisco" cit., altra recensione, 1927; "L'esigenza dell'oggettività", in "Giornale critico della filosofia italiana", n. 3, 1929, e in AA.VV., "Atti del VII Congresso Nazionale di Filosofia", Bestetti e Tumminelli, Roma, 1929, pp. 109-18, poi rist. come Append. V in Idem, L'idealismo italiano cit., II ed. 1946; "Il valore storico della filosofia moderna", Prolusione per l'insegnamento sulla Cattedra di Storia della Filosofia all'Università di Roma pronunciata il 17 gennaio 1930, in "Giornale critico della filosofia italiana", a. IX, fasc. III, 1930, anch'esso poi rist. in Idem, L'idealismo italiano cit., II ed. 1946; e poi, anche dopo il periodo 1908-1931 di cui ci stiamo specificatamente occupando, "Risposta a Carlini" cit., 1936; "Il mio ontologismo" cit., da un discorso tenuto presso la Biblioteca Filosofica della Società per gli Studi Filosofici di Palermo, fondata nel 1910, oltre che da Giuseppe Amato Pojero, dallo stesso Gentile, anche Direttore dell'"Annuario della Biblioteca Filosofica" stessa, poi in "Giornale critico della filosofia italiana", 1936; "L'essere e il problema religioso", in ivi, 1937; e poi continuando a collaborare alla rivista anche dopo la morte di Gentile: "Leibniz nel suo e nel nostro tempo", in ivi, fasc. III-IV, luglio-dicembre 1947, pp. 349-67; "Cattolicità dell'attualismo" cit., 1947 (proprio, come abbiamo discusso, in polemica con il pensiero di Gentile), poi rist., lo ripetiamo per maggiore chiarezza riguardo ai luoghi del suo incontro con Gentile che qui sono in oggetto, in memoria di Gentile in AA.VV., Giovanni Gentile. La vita e il pensiero cit., Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici, Sansoni, Firenze, 1948; "Tra arcaismo e ateismo" cit., 1948; "L'Essere", estratto dal "Giornale critico della filosofia italiana", fasc. III-IV, lugl.-dic. 1948; "I giovani e la politica" cit., 1948; "L'uomo", estratto da ivi, a. XXVIII, Serie Terza, vol. III, fasc. III, lugl.-sett. 1949, pp. 261-78.

[120][120] A Gentile Carabellese dedicò anche nel 1927 l'opera La filosofia di Kant cit.: "A Giovanni Gentile che il rinnovamento spirituale d'Italia volle e persegue con la dottrina con l'opera con la sua fede profonda".

[121][121] A proposito dell'opposizione di Croce al fascismo, ma anche in merito alla sua posizione centrale nella cultura del Novecento italiano di cui qui stiamo dando questi brevi cenni, vedi i due saggi di Norberto Bobbio, "Benedetto Croce" e "Croce oppositore", in Idem, Profilo ideologico del Novecento italiano, Storica Einaudi, Einaudi, Torino, 1986, capp. VI e XI, pp. 74-85 e 141-50. Ma il Profilo è molto interessante dal punto di vista della storia delle idee del '900, e quindi molto utile per allargare il discorso  rispetto al periodo che più in generale stiamo schizzando in questo paragrafo 2, poiché tratta pure, negli altri capitoli, ad esempio del rapporto dei "cattolici col mondo moderno", oppure dell'"intermezzo di guerra", o ancor prima delle "forze dell'irrazionale" e degli "antidemocratici", dei "due socialismi", ecc.

[122][122] Per comprendere la natura dei rapporti tra Croce e Gentile prima della rottura, nonché per comprendere la natura di Croce stesso, si veda B. Croce, Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana, Laterza, Bari, 1909, in partc. pp. 6-7: sfortunatamente, Croce fa riferimento a Filippo Masci, che iniziò Carabellese allo studio di Kant.

[123][123] Sulla cultura durante il fascismo, nelle sue espressioni allineate e non, vedi Norberto Bobbio, "La cultura e il fascismo", in AA.VV., Fascismo e società italiana cit., pp. 209-46, in partc. per il periodo che stiamo trattando pp. 214-42.

[124][124] Ma su cui invece pubblicarono su Carabellese sia Santino Caramella, "Teologia e filosofia", in "L'educazione nazionale", nn. 5-6, giugno 1932; sia E. Cione, recensione a P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, 1931, in "L'educazione nazionale", n. 3, 1932.

[125][125] Il testo del Giuramento, riportato, insieme ad altri particolari che lo riguardano, da Michele Del Vescovo nell'op. cit., p. 33, n. 15, recita: "Io [...] giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime fascista, di osservare lealmente lo statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l'ufficio di insegnante e adempiere a tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime fascista."

[126][126] Afferma Norberto Bobbio in "La cultura e il fascismo" cit., p. 214, che fu "la prova del fuoco" cui il regime, che aveva rinunciato nei suoi confronti alla subordinazione manu militari, sottopose l'Accademia, ma che fu nella sua drammaticità un atto tutto sommato pacifico, non tanto perché solo undici professori (tra cui Ernesto Bonaiuti e Piero Martinetti) su milleduecento non giurarono, ma soprattutto perché fu ben diverso da ciò che, subito dopo l'emanazione delle leggi razziali nel 1938, successe ai numerosissimi professori ebrei.

[127][127] P. Carabellese, "Religione e filosofia", Prolusione cit., in "Annuario" della Biblioteca Filosofica della Società per gli Studi Filosofici di Palermo, fondata e diretta come già detto da Gentile e Pojero, vol. VI, fasc. I, pp. 1-18, Palermo, 1923, e in "Logos", Napoli, 1923, poi rist. in Idem, Che cos'è la filosofia? cit., II ed. 1942.

[128][128] A Pojero Carabellese dedicherà nel 1931 Il problema teologico come filosofia: "A Giuseppe Amato Pojero. Questo Saggio nacque nella Biblioteca filosofica di Palermo.A Lei, sapientissimo Dottore di essa ed animatore degli studi filosofici, a Lei che ne promosse con l'assidua cura la nascita, esso dunque torna, ora che può andar solo pel mondo. E torna anche a significare il memore affetto che lega me a Lei, agli amici, agli scolari della luminosa Palermo."

[129][129] P. Carabellese, La filosofia di Kant. I. L'idea teologica cit., 1927, e anche in Idem, "Il problema teologico nella filosofia italiana contemporanea", in AA.VV., Omagiu lui  Ramiro Ortiz, Bucuresti, 1929, in onore del XXV anno di insegnamento di R. Ortiz a Bucarest, poi appunto rist. in P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., 1931.

[130][130] I. Kant, Scritti minori cit., 1923 e Idem, Prolegomeni a ogni futura metafisica cit., 1925.

[131][131] P. Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni. I. Kant cit., 1928. Come si è detto nel testo or ora, il rogetto si fermerà a Fichte con l'opera del 1929.

[132][132] Idem, "La storia" cit., 1925, poi ripubbl. come opuscolo cit. nel 1926.

[133][133] Oltre a Idem, "La storia", nel volume in onore del LXXV anno di età di Varisco, anche i già cit. "Il pensiero filosofico di B. Varisco", 1926 e "Il pensiero pedagogico di B. Varisco", 1927, ambedue sul "Giornale critico..." cit.

[134][134] Il già cit. Idem, "L'esigenza dell'oggettività", pubbl. oltre che negli "Atti", anche sul "Giornale critico..." cit., 1929.

[135][135] Afferma A. Galante Garrone che alla fine "Lo Statuto albertino era ormai ridotto a una facciata di cartapesta": il 24 dicembre 1925 fu emanata la legge che di fatto concentrava tutto il potere nelle mani del capo dell'esecutivo, Mussolini, con quella del 31 gennaio 1926 l'esecutivo assorbiva in sé i poteri del legislativo, esautorando il Parlamento, con quella di pubblica sicurezza del 6 novembre dello stesso anno si istituiva il confino di polizia comminato direttamente da una commissione prefettizia senza garanzie giuridiche e variante da uno a cinque anni in un sito nazionale o coloniale, con quella di poco successiva del 25 novembre ancora del '26 per la difesa dello Stato si istituiva il Tribunale speciale che reinseriva la pena di morte, mentre infine con quella del 9 dicembre '28 il Gran Consiglio del Fascismo diveniva organo dello Stato con forti poteri di influenza sugli altri organi dello stesso.

[136][136] G. Carocci, nell'op. cit., afferma che: "[...] la stessa rigorosa coerenza con la quale il progetto Rocco venne attuato lo pose in contrasto con le aspirazioni dei conservatori più legati alla tradizione liberale. Questi avevano mirato a uno stato nel quale il potere della camera elettiva fosse variamente bilanciato e frenato dall'esecutivo e dal re, non al totale rovesciamento di ogni potere a favore dell'esecutivo e del suo capo politico. Ma [...] furono un'esigua minoranza. La grande maggioranza prese per buona la versione ufficiale che lo stato fascista, sovvertitore di quello liberale, ne era il continuatore e il realizzatore a un livello più alto. In realtà tra stato liberale e stato fascista  c'era un rapporto che era insieme di continuità e di rottura." Sostanzialmente simile, seppure molto più incisivo nell'analisi anche perché direttamente coinvolto, il giudizio di continuità e rottura di G. Dorso nel 1924, ossia prima dell'emanazione delle leggi che sovvertirono lo Stato postunitario: nel suo La Rivoluzione meridionale, scrive: "Il Partito fascista, alla vigilia della marcia su Roma, si presentava come  un amalgama informe di  forze discordanti e contraddittorie, tenute insieme dal prestigio personale di un uomo [...] in nome del mito della Nazione, interessi proletari ed interessi padronali, produttori e parassiti, rivoluzionari e trasformisti [...]. Ma il regime quale si era costituito dopo l'unificazione del paese era ormai ridotto allo stremo [...] Occorreva impadronirsi della nuova formazione [...] D'altronde [...] Mussolini comprendeva che un momento simile non si sarebbe più ripresentato. [...] D'altra parte, chi poteva conoscere di quali forze disponesse la Corona, [...] quali risultati avrebbe prodotto una presa di posizione contro la monarchia? [...] La cosiddetta rivoluzione, dunque, doveva essere monarchica o non essere. [...] Del resto il fascismo [...] non poteva soddisfare tutte le esigenze rivoluzionarie del paese, perché, pur essendo alla base un movimento rivoluzionario, era diretto da un'élite che aveva già transatto con tutte le forze della conservazione sociale preesistente. Queste forze gli impedivano qualsiasi attentato sia alla costituzione politica che alla costituzione economica del paese [...]. Così tutta la novità politica del fascismo si riduceva a una sostituzione violenta di uomini nelle cariche pubbliche fatta per via militare (cioè per una via estremamente dannosa la fascismo stesso, che vedeva [...] i più violenti e perciò i meno competenti [...]." Per un ritratto di Rocco, vedi Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano cit., "Capitolo Decimo: L'ideologia del fascismo", pp. 138-39.

[137][137] Norberto Bobbio, "L'ideologia del fascismo", in Idem, Profilo ideologico del Novecento italiano, Storica Einaudi, Einaudi, Torino, 1986, "Capitolo Decimo", pp. 128-136.

[138][138] Cfr. G. Gentile, "Recensione" a P. Carabellese, La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini cit., in "La Critica", fasc. IV, luglio 1909, e risposta a P. Carabellese in "La Critica", fasc. III, 1911.

[139][139] Si tratta del IV Congresso Internazionale di Filosofia, tenutosi a Roma dal al..... Cfr. B. Croce, "Inaugurazione", in Atti...

[140][140] Carabellese fa evidente riferimento al "Giornale critico della filosofia italiana".

[141][141] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 131. Per il prosieguo della citazione si fa riferimento ivi, n. 1 sempre di p. 131 e sgg.

 

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