STEFANIA SAPORA

        COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO

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                                                       Dalla

 

Dissertazione di Dottorato in Filosofia IX ciclo

 

1993-1996

 

 

 

Stefania Sàpora – Dottore di Ricerca in Filosofia IX ciclo

Università degli Studi “Federico II” di Napoli

 

 

 

Dalla metafisica critica alla metafisica della Ragione Assoluta:

l’asse Kant-Hegel-Carabellese

  

CARABELLESE INTERPRETE DI KANT: 

DALLA FILOSOFIA TRASCENDENTALE ALLA FILOSOFIA DELL’ESSERE POSTKANTIANA

  

1. L’allargamento del concetto di coscienza

  

In questo scritto, che mira alla costruzione di una  metafisica razionale postkantiana e posthegeliana, vorremmo dare un nuovo significato al concetto diltheyano di uomo intero[1]: per fare ciò sono necessari una revisione e un allargamento[2] del concetto di coscienza, il che  significa del pari una modificazione sul piano scientifico del soggetto di giudizio, ossia dell’io tout court: solo in questa direzione di un Io razionale intelligibile è realizzabile una fenomenologia dello Spirito  che si faccia Storia. Lo strumento umano per giungere alla nuova Logica che Carabellese intravede, la Logica della Ragione Assoluta, essendo appunto la ragione da intendere in un senso molto più ampio e inclusivo di quello tramandatoci, non può prescindere anche dall’immaginazione e dall’intuito, che è, come è stato scritto da Giuseppe Cantillo seguendo il pensiero di Ernesto Grassi, una sintesi di “ratio e inventio” [3], perché il soggetto sia un vero e proprio soggetto trascendentale. In questo senso la Ragione Assoluta è, seguendo fino a un certo punto la traccia di Carabellese, la vera cosa in sé di Kant, che, intesa dal lato del soggetto, è il tì come confine di volta in volta superabile - ma per ora non ancora estinguibile - del pensiero, che evidentemente si inserisce in una concezione dell’essere come flusso[4].

Vorremmo qui perciò adombrare alcune concezioni della coscienza di autori peraltro diversissimi: oltre Kant, il quale notoriamente distingue la coscienza empirica dalla coscienza “scientifica”, Hegel, che parla di stati della coscienza  non appartenenti alla coscienza ordinaria, o agli stati ordinari della coscienza, e anche dell’irrazionale, sia come ciò che lui stesso prima di Freud chiama inconscio attribuendovi un senso razionale, sia come ciò che irrompe nella storia degli uomini e del mondo senza un’apparente spiegazione. Su questa stessa strada di un allargamento del concetto di coscienza e di uomo intero, troviamo ancora Carabellese, che parla del sapere come coscienza comune, nonché Moretti-Costanzi, che teorizza il cammino soggettivo di progressiva ascesi di coscienza per ciò che definiremmo l’accesso a diversi livelli dell’essere nella diversità che - è ormai patrimonio scientifico - caratterizza gli stati spirituali dell’esperienza umana in ambito più propriamente teologico-metafisico.

Ora, il concetto di coscienza, ossia il sapere della ragione,  trasposto sul piano dell’esperienza spirituale, in senso stretto è detto mistica: Tommaso  nella Summa Theologiae la definisce “cognitio Dei experientialis”[5],  palesando così ciò che da secoli nella storia, ben prima di Galileo e della scienza sperimentale, costituisce un programma di fondazione dell’esperienza mistica in termini razionali e, in quanto esperienziali, controllabili: il “grande enigma” e dei mistici e degli studiosi di mistica è nel come sciogliere razionalmente il nodo di quest’esperienza, e dunque anche farsene soggetti e non oggetti. Vorrei ricordare che l’assunto che l’esperienza mistica prova e su cui la mistica si basa è quello della possibilità, fondata nello stesso Antico Testamento ma antica di millenni, di un rapporto immediato e diretto con Dio, come nel Brahmanesimo[6]. Tale possibilità di comunicazione col trascendente, che diventa dogma, è, oltre che fondamento foriero di sviluppi nella cultura cristiana (penso al protestantesimo in particolare luterano), anche ancor prima, nel pensiero teologico, apriori di Agostino come poi, per non citare Hegel e l’intuizione dell’Assoluto, di Carabellese, che infatti su tale credo del rapporto immediato e diretto col trascendente fonda  non poche sue concezioni – in tali termini è leggibile tutto il percorso di Carabellese, nel senso che questa è, se non la principale, una delle chiavi di accesso prioritarie di tutto il suo pensiero.

Così interpretare Carabellese nel suo programma di una metafisica razionale post-kantiana che riveda il concetto di coscienza e di io significa inserirla nell’orizzonte della scoperta (aletheia) di una Logica che sovrasta – e modifica anche filogeneticamente - i diversi livelli e modi della logica umana consapevole, Logica di cui il Non essere o Nulla è momento necessario e presenza positiva[7], e di cui il problema del Male trova non una giustificazione meno che mai, ma almeno una spiegazione, essendo Nulla e Male, come insegna Carabellese con la sua teoria dell’altro e della reciprocità, necessariamente l’altro dell’Essere e del Bene. La nuova Logica della Ragione Assoluta, ne siamo ben consapevoli, richiederebbe però necessariamente di approfondire in Carabellese le concezioni sia dell’essere come flusso, sia della Cosa in sé come Ragione Assoluta da raggiungere in infinitum. Nella metafisica carabellesiana infatti solo andando oltre il pensiero scritto dell’Autore è possibile rintracciare una considerazione dell’essere come emanazione di ascendenza plotiniana, e la stessa Cosa in sé, ben oltre il kantismo carabellesiano come fase che precede la sua metafisica, è, potremmo dire, uno dei nomi che Carabellese dà a Dio, ossia all’Essere.  Essere - semplificando un discorso ben più complesso - il quale è sotteso a tutta la sua metafisica e chiamato, appunto, con diversi nomi a seconda di come si manifesta (motivo per cui Furia Valori, in vari luoghi dei suoi scritti su Carabellese, che citeremo oltre, ne accusa il sottile e persistente, mai superato, fenomenismo, nonostante tale fenomenismo a noi non appaia di sostanza, dal momento che Carabellese stesso afferma esplicitamente - alla fine di una lunga argomentazione dell’intera opera L’Essere e la sua manifestazione. Parte I La Dialettica delle Forme, solo apparentemente conclusiva se Carabellese stesso non continuasse giungendo appunto poco più avanti alla Ragione Assoluta - che “Dio, dunque, è il reale in sé.”[8]

 

2. Carabellese neo o post-kantiano?  Oltre Kant

 

Carabellese ripensa il kantismo[9]  dagli anni Venti sino a oltre i Quaranta, e per i modi e i risultati di tale ripensamento si può dire che ne costituisca una delle voci del versante italiano. Ma se questo suo ripensamento non ha avuto seguito allora, e ancor oggi è solo della critica più accorta, è perché la definizione di un Carabellese neokantiano strictu sensu è limitativa e bisogna invece allargarla e comprenderla, definendolo semmai postkantiano. Infatti la sua rilettura originale e allora controcorrente  di Kant come colui il quale mirava nelle sue intenzioni più recondite a fondare, già negli scritti precritici, una nuova metafisica critica partendo dalle tre idee di Dio del mondo e dell’anima[10], fa sì che lo stesso Carabellese si ponga già dai primi scritti sul criticismo l’obiettivo di fondare una nuova metafisica critica a cui, nella sua posteriorità alle tre Critiche, giungere nel costituirle allora quale punto da oltrepassare, e nel porle come nuovo punto di partenza[11]. Le quali Critiche dunque, nelle vere intenzioni di Kant, secondo Carabellese dovevano essere non una nuova filosofia, come furono considerate da certo pensiero post-kantiano con cui egli appunto polemizza, considerandolo una falsificazione del vero Kant, ma una propedeutica a una nuova filosofia ancora di là da venire, e di cui Kant nelle tre Critiche aveva soltanto impostato i limiti fondandone la possibilità sull’esigenza della ragione, e aveva aperto con la critica non della metafisica tout court, ma delle metafisiche esistenti al suo tempo. In questa più che ventennale interpretazione non disinteressata del Kant metafisico consiste la validità del tentativo carabellesiano: pensare la metafisica come scienza del soprasensibile dopo Kant – questo nel suo periodo critico –, pensarla anche dopo Hegel – nel periodo metafisico[12]. Riteniamo perciò necessario che la ricerca di un Carabellese interprete di Kant abbia come sfondo l’asse Kant-Hegel-Carabellese, Hegel che Carabellese conosceva approfonditamente non soltanto per i suoi studi sul neoidealismo italiano, ma anche per la conoscenza dei testi hegeliani, sebbene solo, ovviamente, di quelli disponibili nella sua epoca.

L'itinerario  carabellesiano  può ad un primo livello, che darà origine al Carabellese critico e troverà parziale espressione nel sistema del Carabellese metafisico, essere  visto  svilupparsi partendo  da  due  differenti direttrici, originate e convergenti ambedue in un unico punto  fina­le: il problema dell’Essere. In ciò il ciclo del pensiero del Carabellese critico, oggettivato appunto nelle opere di quello che lui stesso ha definito “periodo critico”, il cui punto di arrivo metafisico consiste nello stendere il sistema dell’Essere a partire dalla manifestazione dell’Essere stesso, e dunque a considerare l’Essere origine, e origine della sua stessa scissione (la coppia circolare[13] Dio Io), risolvendo il problema religioso in termini trinitari cristiani – la sua prima pubblicazione del periodo critico è L’Essere e il problema religioso. A proposito del “Conosci te stesso” di Bernardino Varisco[14], l’ultima opera – meglio, serie di opere - a cui attende nella sua vita, che chiude il periodo critico e apre il periodo metafisico è L’Essere e la sua manifestazione (ma di questo, ossia dell’impostazione del Carabellese metafisico e del passaggio tra periodo critico e periodo metafisico, si parlerà diffusamente più avanti) - . E’ possibile infatti leggere in termini trinitari il triangolo Essere: Dio[15] Io (o Io Dio), in cui la coppia coscienziale pura Dio Io – quella formata da Dio e Io prima (in termini logico-temporali) della sua manifestazione, quella cioè anche detta Coscienza qualitativa pura - esige l’Essere a un tempo come sua Idea (e in quanto Idea origine), realizzazione (il circolo[16] Io Dio), manifestazione (nelle forme in cui tale manifestazione avviene in termini analogici umani, anche se, come sappiamo e come vogliamo, Carabellese era realista in senso forte o stretto, ossia considerava l’empirismo e il fenomenismo una manifestazione reale dell’Essere). In questo senso si può parlare, come fa Furia Valori,  di una natura soggettivo-oggettiva di Dio: in realtà la coppia circolare Io Dio o Dio Io sottesa alla manifestazione dell’Essere attraversa tutta questa manifestazione stessa dell’Essere. Non è infatti del vero Dio di Carabellese che trattano le tre dispense relative a L’Essere e la sua manifestazione. I L’Essere nella dialettica delle forme, II La dialettica, III La realtà e l’attività spirituale umana[17], ma della coppia circolare Dio Io come manifestazione dell’Essere, ed è per questo che sono leggibili sia in termini gnoseologici sia in termini ontologici sia in termini metafisici, ossia facendo, come fa Carabellese, interagire i tre livelli di lettura. Il vero Dio di Carabellese è l’Essere, punto di origine della coppia coscienziale pura Dio Io – o incrocio spaziotemporale a partire dal quale si determina l’Essere di Coscienza puro, distinto[18] dalla Coscienza qualitativa, che è lo spazio a partire dal quale si dipana la manifestazione della coppia circolare Dio Io. Qui l’Essere, come primum assoluto apparentemente inoriginato ma che dà origine, è il filo rosso che dà sostanza al circolo puro Dio Io, e poi alla sua manifestazione. E’ sull’Essere in sé che Carabellese scrive nella parte centrale del suo sistema metafisico – ci riferiamo a La Dialettica , mentre ci sembra che non abbia scritto sull’Essere come Assoluto, a meno di non interpretare l’Assoluto come Principio, e quindi di rimanere, come Carabellese fa nel sistema giuntoci, in una visione cristiana dell’Essere. Ha scritto però sull’altro dell’Essere: l’io, che si trova protetto sotto l’arcobaleno che rappresenta l’Essere, sotto l’ombrello dell’Essere, e che è la prospettiva da cui egli guarda il suo Dio, l’Essere: è questo il vero rapporto tra Principio e termini: la verticale Essere: io, quasi a che ci sia tra i due un rapporto biunivoco di necessità, per cui l’io è necessario all’Essere. Ma il problema è non soltanto che se si considera l’Essere in sé come Principio, punto zero del rapporto coi Termini, o per meglio dire con l’io come ciascun termine, c’è sempre il problema dell’Essere nella sua estensione, o anche nella sua protezione – Provvidenza? – dell’io, ma anche c’è il problema che l’aver chiamato l’io Carabellese anche Termine, si presuppone che facesse riferimento al latino terminus a quo e terminus ad quem, ossia a una visione finita dell’esistenza, e quindi anche dell’Ego o Io assoluto, o Assoluto Io. Il vero Io infinito, ma anch’esso finito secondo lo spazio curvo delle geometrie non euclidee, è l’Io penso, che esce dall’antitesi Essere Non essere e che coincide in un punto con l’io sia dell’Essere (l’es come terminus a quo in collegamento col mondo delle idee e dei desideri) sia del Non essere (l’Ego come Io assoluto o terminus ad quem, fine dell’esistenza in un infinito finito).

Questo studio vorrebbe, come si vede, conciliare scienze esatte, religione e filosofia (scienza filosofia e religione), e in particolare geometrie non euclidee, razionalismo e la triade religiosa bramanesimo-ebraismo-cristianesimo – che è interna al pensiero carabellesiano così come espresso nel Disegno storico della filosofia come oggettiva riflessione pura, e che quindi non è nostra ipotesi non documentata -, portando alle estreme conseguenze – radicalizzando per dove ora posso vedere e sapere – il pensiero di Carabellese.

Tornando al discorso del rapporto tra il Principio e ciascun Termine in cui Carabellese sottende la fungibilità di ciascun io pur nella sua funzionalità attiva al sistema della Ragione assoluta, in realtà questa definizione carabellesiana del rapporto – diretto - con l’io come Termine fa riferimento alla terminazione (a quo, ad quem), alla fine stessa del pensante nel Principio, a un ritorno al Principio e al principio, ritorno necessario, razionale, raggiunta la pace. In ciò noi vediamo non solo Hegel, ma anche Vico e la cultura – o meglio la teologia - indiana che Carabellese iniziava a scoprire. Infatti il rapporto Principio Termine è leggibile anche nei termini di rapporto Brahman Athman. Perciò teologia, o meglio gnosi, indiana, coniugata con Vico, porta con sé anche il ciclo delle rinascite, alla fine del quale c’è pace, ossia ricongiungimento col Principio dal quale il ciclo stesso è iniziato, potremmo dire, riportandoci al simbolo greco-cristiano del Chi-Rho – le due lettere dell’alfabeto greco -  del quale parleremo diffusamente più avanti in nota, dopo gli otto raggi della sua ruota del tempo.

Le due direttrici di pensiero di Kant da un lato e – intenzionalmente nel periodo metafisico – di Hegel e di un senso religioso profondo dall’altro guidano Carabellese, secondo il nostro punto di vista, attraverso tutto il suo itinerario bio-bibliografico, e il loro punto di fusione può essere rappresentato da quello che è l’obiettivo implicito ma sempre presente nello spirito del Carabellese  anche giovane e, via via che diveniva esplicito progetto di lavoro, sempre presente anche alla mente del Carabellese maturo: la creazione di una nuova metafisica.

Ma se il ciclo critico di Carabellese può dirsi apparentemente concluso e risolto nel suo inizio e nella sua fine nell’Essere – a nostro parere, come già si sottintende, è così solo se si considera l’Essere non solo come origine ma anche come Assoluto,  nonché se si sorvola sul fatto che questo Essere lascia fuori il Non Essere -, non altrettanto può dirsi del suo periodo precritico: l’Essere è il punto di partenza del percorso critico come il punto di arrivo della metafisica critica, l’Essere è l’Idea prima, l’idea di confine a un tempo positiva in quanto generatrice, e negativa in quanto la morte di Carabellese ha lasciato vuoto in termini teoretici (ossia non sistematizzato) il percorso inverso (ciò che precede l’Essere come sua origine). Questo risalire a monte dell’Essere è il percorso che si apre dopo Carabellese. Egli è giunto all’Essere mediante l’intuizione pura che lo ha condotto lungo tutto l’arco della sua ricerca (l’intuito come potenza) – testimoniato dalla sua vita e dal continuo ricorso a Rosmini come suo maestro. In questo senso si può dire che il periodo precritico di Carabellese è irrisolto, e che dunque tale ciclo di pensiero non è concluso, poiché egli avrebbe dovuto investigare in campo gnoseologico il percorso dall’intuito dell’idea dell’Essere (inteso come Principio, Idea, Sostanza) all’Essere come Assoluto, sia in termini ontologici negli elementi che compongono l’Intuito Essere (Idea-Principio-Sostanza), sia in termini metafisici positivi in che cosa precede logicamente l’Essere come sua origine assoluta, sia nel rapporto dell’Essere col Non Essere, oppure con un Essere che comprendesse il Non Essere – se si vuole il Male o il Nulla – come presenza positiva.  Ma con la sua morte Carabellese testimonia che prima della triade Intuito Essere Idea-Sostanza-Principio Carabellese non seppe e non volle andare - la morte gli impedì di stendere il sistema dell’Essere prima della generazione, ossia di tornare a risolvere il problema dal quale aveva preso l’avvio il suo percorso filosofico: l’intuito, oggettivato nella sua Tesi di Laurea La teoria della percezione intellettiva in Antonio Rosmini[19]. Ma è l’intuito il vero Principio generatore della storia di Carabellese – in questo senso ne abbiamo parlato come sintesi di ratio e inventio, da investigare in Carabellese stesso -, e una riflessione sul valore dell’intuito in Carabellese è ancora tutta da scrivere. Pertanto, se è vero che l’Essere è punto di partenza e di arrivo della metafisica critica[20], Carabellese sceglie di considerarlo appunto origine del suo percorso di studio e di riflessione – e non solo sceglie, ma lo usa come strumento di indagine critica -, e da qui di darne la sua lettura nella diade Dio Io. Tale scissione dell’Essere in Dio e Io può essere vista come manifestazione a valle – e quindi considerare come fa anche la critica più attenta l’io la seconda parte de L’Essere e la sua manifestazione, contro la lettera carabellesiana che titola L’Essere: io - solo se si considera come prima manifestazione dell’Essere – se vogliamo sua prima emanazione – l’Essere di Coscienza puro ossia il triangolo Essere: Dio Io, rappresentabile anche come occhio di Dio o terzo occhio. L’Essere di Coscienza puro è  da distinguere dalla Coscienza come Concreto, e anche dalla Coscienza qualitativa. In questo senso anche Dio, che Carabellese tratta ne L’Essere e la sua manifestazione nei tre volumi citati L’Essere nella dialettica delle forme, La dialettica, La realtà e l’attività spirituale umana, è una manifestazione dell’Essere: Dio in questo senso è la legge dialettica delle forme in cui è esprimibile dall’io che lo ricerca, è la legge dialettica che regola il rapporto tra fato e fatto, è la legge dialettica che regola il rapporto tra la realtà e l’attività spirituale umana: è il Dio di Mosè, il Dio della Legge che si incontra, nella coppia circolare Dio Io, con l’Io, e che dà a questo le Leggi. Ma questo non è il vero Dio, per Carabellese: il vero Dio di Carabellese è l’Essere, la vera cosa in sé kantiana per Carabellese, la res, il limite di Carabellese oltre il quale non seppe andare, e che noi oggi dobbiamo superare spostandolo nei suoi confini quel poco più in là che ci è consentito. E questa res carabellesiana è Essere che nel punto zero si incontra con il Non Essere, che non è il Nulla d’essere ma anch’esso uno dei due modi dell’Essere, determina la creazione come manifestazione continua[21], o se si vuole in termini biblici la Genesi , quella dell’istante in cui l’Essere inteso come YHWH afferma: “Fiat lux”nell’asse di intersecazione tra lo spazio e il tempo, il punto zero dei piani cartesiani, e ciò lo affermo al di là del pensiero di Carabellese, almeno della sua lettera.

Per quanto queste nostre riflessioni tendano ad abbracciare con un unico sguardo tutto il pensiero filosofico di Carabellese, anche nel cosiddetto periodo metafisico, nonché negli sviluppi possibili che a partire dalla sua metafisica si aprono, la nostra ricerca prende in considerazione dal punto di vista strettamente scientifico-analitico soltanto il cosiddetto “periodo critico” di Carabellese. Pertanto i  confini all'interno dei quali si situa dal punto di vista storiografico sono quelli interni delimitati dal "periodo precritico" da un lato  e  dal "periodo  metafisico" dall'altro, che sono esclusi da una trattazione approfondita – è chiaro che tali delimitazioni, nonostante siano suffragate da Carabellese stesso, sono da considerarsi se non arbitrarie, quanto meno interne alla continuità e unitarietà di un pensiero che è però visto in progressione dinamica, e che consente anche nuovi sviluppi post-critici. Infatti la metafisica critica carabellesiana non si pone soltanto come lo sbocco e il punto di arrivo dell’ontologismo critico, ma anche come nuovo punto di partenza per la costruzione di una nuova metafisica oltre la Critica : una nuova metafisica della Ragione assoluta in infinitum, in cui includere oltre la fede anche l’arte e la scienza, concludendo così da un lato il ciclo di pensiero che va dal Nous anassimandreo alla sua manifestazione nel concreto, passando per l’Illuminismo – ma abbiamo già detto che Carabellese nella sua storia della filosofia inizia dal brahmanesimo e non dalla filosofia greca, né dal Dio ebraico – dall’altro, il ciclo illuministico stesso della Critica come fede nel progresso della Ragione. In questa nuova metafisica devono essere compresi, pena la non realizzazione della Ragione Assoluta in infinitum, anche elementi apparentemente irrazionali quali la fede, l’intuito, il sentimento, il caso, il destino – Carabellese, oltre a partire egli stesso dalla fede e dall’intuito, parla nelle sue dispense anche fuggevolmente dell’astrologia, tentando di riportarla alla ragione, oltre a mettere in relazione Dio e fato in bellissime densissime pagine. In tal modo, quello di una razionalizzazione dell’irrazionale, la storia diviene metafisica, e la metafisica a sua volta diviene storia della Ragione assoluta ab e in infinitum, ossia nello spaziotempo, da distinguere da ab ed in aeternum, che richiedono e presuppongono il solo tempo. Ciò per giungere, uscendo dalla storia come processo, alla Ragione assoluta come metafisica, al Regno dei puri spiriti. I  confini teoretici, invece, si situano a cavallo tra  gnoseologia, ontologia e metafisica, e non soltanto si muovono nella direzione di trasformare in fisica la metafisica, spostandone in avanti i confini – il limite della ragione kantiano - lasciandole nuovi quesiti da risolvere, ma pure, tali confini teoretici, sono da considerarsi in connessione, se è vero  che a rigore è impossibile scindere, se non a posteriori, gnoseologia e metafisica, e che in particolare in Carabellese l'indagine sulle condizioni  di possibilità  della conoscenza costituisce il punto di apertura  del  discorso metafisico, e che in ogni caso il livello gnoseologico e fenomenico è uno dei possibili livelli di lettura, il primo, anche della sua metafisica critica, nella sottolineatura che in Carabellese essere e apparire sono unum et idem, e che appunto la battaglia di tutta la sua vita consiste nel superamento della scissione tra essere e conoscere, tra essere e fenomeno, in direzione di un realismo metafisico distinto da quello neoscolastico, ma che lo ri-comprenda. D’altro canto è stato detto da un critico  dell'epoca di  Carabellese che la gnoseologia  costi­tuiva  in  generale già prima di Carabellese  stesso  il terreno di scontro apparente tra diverse scuole  filosofiche in vista di più profonde lacerazioni che riguardavano la concezione metafisica della realtà, e che dunque essa,  implicando  il  problema  dell'oggettività  della conoscenza e quello del rapporto tra verità e  certezza, sottintendeva diverse concezioni di Dio[22].

Vorrei tornare sulle due direttrici che a un primo livello sono rintracciabili in Carabellese: fin dagli anni giovanili, Carabellese è mosso profondamente da due  interessi fondamentali, che, a partire dalla sua individualità di Individuum metafisico irripetibile,  fanno  parte  della  sua formazione di persona e di filosofo, e che pertanto  occupano una consistente parte sia della sua vita che della sua bibliografia:  Kant  e  un senso religioso – Carabellese, educato dal profondo senso religioso della madre, ha poi studiato nel Seminario di Molfetta in vista dell’abito talare, poi mai vestito -, a un tempo nuovissimo e antichissimo, in cui il cristianesimo si pone come elemento fondamentale – e punto di partenza del suo itinerario, ma si vedrà punto di arrivo solo del suo sistema, poiché a nostro parere il suo pensiero in fieri degli ultimi anni avrebbe portato a nuovi sbocchi - ma non esclusivo, tanto che si può dire che la filosofia dell’ultimo Carabellese voglia porsi a un tempo come pre-cristiana e post-cristiana, e dunque sulla linea di un allargamento della tradizione occidentale nel senso dell’oltrepassamento non solo delle sue radici ebraico-cristiane nell’incontro con comuni radici orientali – si è già detto che il suo Disegno della storia della filosofia inizia col brahmanesimo - , ma anche dei suoi sviluppi, al di là della stessa consapevolezza carabellesiana, oltre il mondo attuale. Si vuol dire che Carabellese, in ciò posthegeliano puro, mira nelle sue intenzioni più recondite a ricollegare l’impersonalità ma anche la razionalità del Brahman con la Ragione assoluta di stampo kantiano-hegeliano. Solo infatti tenendo presente la concezione di tale Ragione assoluta è possibile comprendere fino in fondo, al di là della sua benevola concezione che si rifà al Discorso della Montagna e al senso del cristianesimo come riconoscimento della Persona, la sua concezione che l’io sia un quanto dell’Essere. Ciò significa, pur al di là della critica carabellesiana a Hegel come colui che mortifica la soggettività dell’io rendendolo funzionale al sistema della Ragione, nel quale trova più che una giustificazione anche e soprattutto senso il Male il conflitto e la contraddizione nella superiore sintesi dell’Aufhebung, è possibile penetrare, al di là del riconoscimento anch’esso hegeliano dell’insostituibilità funzionale del pensiero del pensante quando questo è attivo pensiero pensante – e dovrebbe, ma forse lo è nell’apparente irrazionalità, esserlo sempre -, in quella che secondo noi è una profonda certezza carabellesiana.       Questa profonda certezza è testimoniata non solo dall’essere l’io quanto dell’Essere – quantità fungibile -, ma anche termine del Principio. Termine del Principio significa non solo e non tanto rapporto privilegiato col Principio (che farebbe pensare a un nuovo umanesimo metafisico antropocentrico se non si tenesse conto che termine è riferito non solo a uomo ma a pensante, e che quindi in realtà l’asse del giudizio e della conoscenza va già consistentemente spostandosi non soltanto verso l’essere spirituale tout court, verso lo Spirito, ma anche proprio verso il Pensiero come essere più profondo e più vero dello Spirito stesso, il Pensiero come Aufhebung dello Spirito. Il Pensiero da un lato come intuito o Idea nasce da una superiore sintesi – la forma doverosa del Mondo delle Idee, nel quale è da risolvere il problema non soltanto del rapporto tra il Possibile e l’impossibile, ma anche quello tra Perfetto e imperfetto che implica quello del Valore, pena la non risoluzione del problema del Bene e del Male. Il Pensiero come sforzo attua una superiore sintesi nella realtà che si muove verso la Ragione assoluta: ma resta sempre il problema di fondo: perché la Ragione assoluta si manifesta-oggettiva-rivela nel ritorno a se stessa nella Realtà, anche solo intesa come Spirito o, salendo di livello, come Idea? Non basta dire che Dio è Amore. La domanda metafisica fondamentale non è perché c’è l’essere piuttosto che il nulla visto che anche il nulla è una forma d’essere. A meno di non ribaltare l’ordine di valore tra essere e nulla e considerare il Nulla superiore all’essere, e quindi a identificare il Nulla con la Ragione assoluta[23]. In questo caso la domanda sarebbe: perché la Ragione assoluta non rimane Nulla? Ma forse la domanda più radicale, atea se si affida a una risposta scettica, è: perché la Ragione assoluta? -, anche intesa nella forma positiva del Nulla assoluto, anche ideale e spirituale, il Nulla come potenza (che si fa atto, domanda successiva)? In realtà su questa strada, che la teologia negativa pratica, si arriva prima a dire che Dio è l’Innominabile - come per l’ebraismo -, e poi, radicalizzando ancora, che è l’Indeterminabile, e anche questa è una forma positiva.

"La filosofia o è anche metafisica,  o  non è” [24]. Questa perentoria affermazione, che il  Carabellese maturo fa in quella che un’importante corrente della critica attuale, quella guidata da Edoardo Mirri, considera la sua opera principale,  è al tempo stesso il risultato di un percorso, una dichiarazione di intenti e una presa di posizione rispetto a quelle correnti di pensiero  che maggior  fortuna avevano allora,  e in alcuni casi  mag­gior risonanza critica hanno oggi. Essa sta a significare  che, sebbene i campi in cui si esercita il  pensiero filosofico siano molteplici e diversi, nella sua accezio­ne più stretta ed essenziale la filosofia, aristotelicamente, si  identifica con la metafisica, intesa inoltre come sistema. Carabellese  definirà - in una fase matura del suo pensiero ma non definitiva - la  sua  metafisica  "ontologismo critico": critico sia perché, come egli stesso scrive[25], si  inserisce in quella linea ideale del  pensiero  che, ancor  prima che ciò fosse esplicitamente teorizzato  da Kant,  vuole essere indagine filosofica avulsa  da  pregiudizi dogmatici  e da soluzioni aprioristiche, perché trova un  sicuro punto di riferimento nella Critica  kantiana, di  cui vuole essere la continuazione e al tempo  stesso l'oltrepassamento, come si evince dal suo scritto Dalla critica all'ontologismo critico, del 1940. In questo senso, quello che vede Carabellese interprete e continuatore di Kant in vista di una nuova  metafisica critica,  si  può individuare una prima, ma non unica come si è già suggerito, originalità  del  suo pensiero.  Il  suo "periodo critico"  infatti  si  situa sulla  linea  di sviluppo della  riflessione  filosofica criticista:  quella che vuole una ripresa degli  studi kantiani  nella prospettiva di una rilettura critica  di Kant  che  consenta la ricerca di  una  metafisica  dopo Kant. E' questo infatti ciò che vuole essere l'ontologi­smo carabellesiano, che non a caso si definisce critico: una nuova metafisica che si riallaccia a Kant, nel quale trova  il suo antecendente più prossimo, ma che  vuole -  e  deve - anche porsi necessariamente dopo  Kant,  il Kant che sembra aver negato, com'è noto, la  possibilità di una metafisica che non sia critica di quegli  apriori e di quelle strutture del pensiero che costituiscono gli apriori  e  la  struttura delle  scienze matematiche e fisiche. Carabellese  in altre parole  rifiuta  l'interpretazione di Kant come critico della conoscenza che nega qualunque  metafi­sica, e assume quell’interpretazione in cui Kant è sì critico della conoscenza, ma in vista della fondazione della scienza come scienza dei principi della  ragione, o ancor meglio come scienza critica (aggettivo) della ragione, laddove la ragione è intesa in senso metafisico di Ragione assoluta, e quindi deve tenere anche conto del cammino di Hegel e dell’hegelismo. Carabellese quindi intende il Kant critico della scienza in senso metafisico: la  continuità dell’ontologismo critico con la metafisica tradizionale, che Kant sembrava aver rotto una volta per tutte, è in Carabellese solo apparente.

Ma bisogna intendersi sul concetto di metafisica tradizionale: se per metafisica tradizionale si intende quella che si involge nelle aporie della ragione, sicuramente Carabellese ne prende le distanze. Ma se per metafisica tradizionale si intende quella che separa l’essere dal conoscere, Carabellese, al di là delle sue dichiarazioni esplicite, nei fatti la condivide, pur spostandone più oltre e in altro significato i confini. Si vuol dire, come mostreremo più avanti in questo studio, che Carabellese conserva uno iato, sebbene non un salto, tra essere e conoscere, e pur ponendoli sulla stessa linea di continuità, li vede distinti: l’essere è superiore al conoscere come livello, e vi è potremmo dire un rincorrere del conoscere verso l’essere. Ma se essere e conoscere restano, al di là della lettera e dell’intenzione carabellesiana, separati, non altrettanto essere e sapere, che seppur distinti, sono in rapporto sullo stesso piano. Infatti egli instaura un filo diretto tra essere e sapere, per cui il sapere è sempre un sapere l’essere; altra cosa il conoscerlo: il sapere è immediato e intuitivo, potremmo dire a priori o pregenetico in tutti i sensi: metafisico, religioso, fisico, biologico, ecc., il conoscere è razionale e sistematico, a posteriori nel senso che svolge l’essere, è postgenetico. In questo senso l’Essere-Sapere è in Carabellese, come sintesi anche chiamata Concreto, uno dei livelli cardine del sistema di Carabellese stesso, che però mira a un tempo a risalire più indietro e ad andare più avanti, forse per la separazione che implica tra filosofia e teologia, ossia tra l’Essere che si vede, si oggettiva, come Sapere e il Sapere che si vede come Essere – livello pregenetico e poi postgenetico sia in senso metafisico che religioso, ossia in senso teologico, anche se il Vecchio Testamento lo pone come postgenetico -, e uno dei livelli in cui si attua il sistema della Ragione assoluta.

E Carabellese rompe con la metafisica tradizionale che si involge nelle aporie della ragione poiché egli ritiene che è a partire da Kant che la metafisi­ca come scienza sia possibile. La metafisica è scienza, ed è dimostrabile razionalmente, diremmo esperibile nel senso di sapere l’essere: bisogna, con un’operazione attiva che criticamente riscopra le scoperte precedenti del pensiero filosofico-religioso (teologico) sia occidentale che orientale, ri-costruire il sistema della Ragione assoluta attraverso la metafisica. E ciò non tanto e non solo per il Progresso, ma perché la Ragione torni a se stessa (il progresso, inteso come senso inarrestabile delle cose,  è un mezzo del Bene). Tale metafisica come scienza  dell'essere  Carabellese  vuole propugnare  partendo  da  Kant poiché  in lui individua lo spazio aperto di  una  nuova metafisica critica: nella prospettiva di tale metafisica critica, la filosofia trascendentale viene  interpretata non  soltanto nell'accezione tradizionale che ne  esalta l'aspetto  gnoseologico,  ossia come una  critica  della conoscenza  in vista della fondazione della scienza,  ma proprio  mettendo  in risalto di  Kant  l'interrogazione sulla  possibilità  dei giudizi  metafisici  apriori,  e dunque  della  metafisica come  scienza[26]. L'ontologismo critico vuole essere una ripresa e una continuazione del criticismo  kantiano  portatrice  dei  suoi  germi  "più dimenticati e più veri". Una delle chiavi per interpretare la mia ricerca consiste nel fatto che la ripresa di Kant in direzione metafisica avviene nella trasformazione del problema gnoseologico soggetto-ogget­to in problema ontoteologico[27]. L'interpretazione carabel­lesiana di Kant si inserisce in un progetto più vasto che riprende i temi e i problemi che caratterizzano la filosofia trascendentale da un lato de­viandola dall’impostazione gnoseologica in direzione decisamente metafisica, dall'altro portando avanti l’allargamento del concetto di soggetto trascendentale nel senso per un verso della quantificazione dell’Io penso kantiano, per l’altro dell’elevazione di tale quantificazione a livello metafisico: l’innalzamento al piano metafisico dell’Io penso kantiano nella coppia dualistica Dio Io sottesa al sistema dell’Essere è la trasposizione in termini filosofici del Cristo religioso, a partire dal quale si ha la quantificazione metafisica degli io omogenei e quanti dell’Essere. In questo senso l’Io, come Cristo, è l’Uno – l’Uomo, il primo Uomo - dell’Essere, la sua Quantità pura, l’Uomo Universale in quanto sostanza di tutti gli io particolari suoi quanti, e in questo senso Unico di tutti, e in questo senso ancora Soggetto in quanto Individuum metafisico, che costituisce l’individualità dei viventi in quanto pensanti, e pensanti Dio, e come Spirito identico ab aeterno e in aeternum nei suoi vari gradi in tutti e per tutti.

Inoltre in questo allargamento del concetto di soggetto trascendentale il concetto di esperienza a livello umano viene allargato a tutte le sfere dell’esperienza umana secondo una lettura della distinzione tra intelletto, sentimento e volontà molto meno rigida e più penetrativa, e soprattutto non a priori ma a posteriori, poiché a priori vi è la ragione[28].

In  questo  senso si può  ascrivere pure  Carabellese, tenendo conto anche delle distinzioni storiografiche del tempo forse oggi in via di superamento riguardo al neohegelismo – che Carabellese combatte ma che pure assorbe e sviluppa -, si può ascrivere anche Carabellese, dicevamo, nell'orizzonte del neokantismo, sebbene con i  dovuti chiarimenti e allargamenti del concetto stesso di neokantismo.  Neokantiano Carabellese   fu, secondo il suo compianto allievo Giuseppe Semerari - tra i primi a promuoverne una ripresa nell’ottica di un suo giusto rilievo nella filosofia europea del Novecento - nel senso che si pose in quel vasto movimento otto-novecentesco che combatté e risolse il  positivismo  in  un appello a Kant  che,  "[...]  di fronte  al pregiudizio dei fatti, proprio del  positivismo,  ripropose il problema di condizioni apriori  [...] della costituzione dei fatti come fatti."[29]. Ma è necessario intendersi sulla latitudine da dare al termine neokantismo, come movimento in fieri di sviluppo e allargamento del criticismo kantiano. Se neokantismo vuol dire "[...]  riprendere, però radicalizzandola,  la questione  kantiana  della possibilità delle  forme  del sapere  e dell'esperienza [...).", Carabellese è  neokantiano senz'altro. Ma limitare il neokantismo di Carabellese alla gnoseologia è riduttivo, a meno di non intendersi sul suo campo e sul suo oggetto, che nel progetto di Carabellese dovevano allargarsi a comprendere forme del sapere e dell’esperienza non ancora fondate, di cui da un lato dare la fondazione, dall’altro investigare il fondamento. La chiave è appunto nella radicalizzazione della questione delle forme del sapere e dell’esperienza, che nel neokantismo di Carabellese consiste nel travalicare i confini gnoseologici sin lì fondati e investigati, per allargare oggetto e metodo della scienza, affrontarne la questione di diritto alla radice e infine dare a quell’allargamento un contenuto positivo: questo il significato dell’apertura carabellesiana del campo delle questioni metafisiche. In altre parole, secondo  il nostro punto di vista, Carabellese può dirsi  neokantia­no se non si intende il neokantismo in senso ristretto,  ma se si allarga il concetto di neokantismo a comprendere la fondazione della scienza in senso stretto, la metafisica, e a darle, nel progetto che va da Aristotele a Hegel passando per Kant, un contenuto positivo nella forma del sistema, allargando contestualmente il campo di estensione dello strumento in grado di fondarla, la ragione, e quello della manifestazione del suo “soggetto”, la Ragione , nella quale, a livello gnoseologico, introdurre il ruolo dell’intuito. Questo allargamento è indispensabile perché  il progetto di Carabellese e il significato che ad esempio, per restare ai termini della questione in Semerari, attribuiva  al  termine coscienza era eminentemente metafisico e non  "semplice­mente"  trascendentale e gnoseologico, mentre ciò su cui  con più persistenza pose l'attenzione fu la conoscenza dell’Essere, da considerare nella sua possibilità, nel suo fondamento e nel suo oggetto, oltre che nella sua manifestazione.  Per  cui definire Carabellese neokantiano è possibile solo se non si limita il neokantismo alla ripresa della questione kantiana della possibilità dell’esperienza – a meno di non intendersi sul concetto di esperienza e sul suo campo: radicalizzare tale questione significa oltrepassare l’esperienza sensibile e quella intellettuale nel loro diritto e nel loro fatto per aprire con la speculazione e la meditazione il campo dell’esperienza razionale.  Inscrivere il percorso di Carabellese – il quale non a caso si pone il problema della scienza concreta, né aposteriori né apriori, ma dimostrativa - in tale sviluppo della scienza è possibile se retroattivamente si rompono i confini da lui voluti del suo neokantismo e se ne allarga il concetto facendo interagire Kant e Hegel, dal momento che se la sua meta finale è una metafisica critica che si interroga sulla possibilità teoretica, e cerca una risposta relativa al contenuto reale, delle tre domande kantiane su Dio, Io e Mondo, ciò non è possibile se non tenendo conto dell’importante cammino compiuto dalla filosofia con l’hegelismo[30], al di là della polemica che pure ci fu tra Carabellese e il neoidealismo italiano, in particolare di Gentile, che semmai fornisce elementi di comprensione del suo pensiero.  

3. Alcune note sui rapporti teoretici di Carabellese  con Gentile[31]

 

Allora  è necessario ritornare sul ricorso che  Semerari fa  al  giudizio  negativo espresso da  Gentile[32] di condanna  del  neokantismo e  contemporanea  esaltazione dell'idealismo  come unica prosecuzione  del  criticismo kantiano, e vedere anche il neokantismo come legittima, altrettanto legittima prosecuzione del criticismo kantiano, ambedue – idealismo tedesco e neokantismo – convergenti verso l’idealismo assoluto, in cui il primum oggettivo è l’Idea, il sistema è la Ragione assoluta, ma il primum soggettivo è l’intuito, o intuizione pura. E’ da vedere inoltre, come si è suggerito, quanto neokantismo e neoidealismo siano distanti oggi, e quanto viceversa sia possibile un discorso comune che ne superi inverandole le distanze e le contrapposizioni, come è stato fatto ad esempio in Italia nel campo dello storicismo, una volta a sua volta lacerato, da Fulvio Tessitore e dalla sua Scuola.

E’ possibile considerare che in Carabellese l'identificazione gentiliana tra  assoluto idealismo  e gnoseologia, dal momento che gnoseologia e  ontologia in lui si identificano anche nella metafisica critica o sistema della manifestazione dell’Essere, sia, anche se non esplicitamente, condivisa. Infatti per guardare il sistema triangolare Essere: Dio Io è necessario un quarto punto di vista: l’io che lo pensa. Così se l’Essere potremmo dire in sé – punto zero del sistema della sua manifestazione - è l’Idea come Dio prima della creazione, lo zenith, l’io pensante è il nadir. Ciò che Carabellese fortemente contrasta in Gentile è invece l’identificazione tra l'Idea e il soggetto inteso come Soggetto Universale, come si è già detto proprio a proposito del sistema l’Essere: Dio Io.  Egli  parla infatti  dei due Distinti della Coscienza, l'Io e  Dio, laddove  se  l'Io  può essere  considerato  il  Soggetto Universale,  Dio non è Soggetto. Carabellese  aprirà  un polemica   molto  violenta  su  questa  identificazione di Gentile come di Varisco dell'Io  con Dio come Soggetto Universale unico, teorizzato da ambedue come la somma realtà, e lo considera non “la profonda   radice   della   realtà,   ma un'astrazione vuota”[33], aprendosi così la strada anche alle feroci critiche da parte cattolica. Si è già chiarito che a nostro parere è possibile parlare in Carabellese dell’Io – non di Dio, che abbiamo visto avere una natura soggettivo-oggettiva e non come Persona (che non è il vero Dio carabellesiano nel senso di definitivo, bensì l’ultimo sistemato in ordine di tempo, e dunque uno dei suoi livelli, quello della manifestazione, potremmo dire kantianamente dell’oggettivazione) - come Soggetto Universale unico se ci si intende sul riferimento da dare a queste definizioni dell’Io: unico significa ad esempio unico per tutti gli uomini – ed è in riferimento a Cristo, appunto Persona o Uomo in senso pieno -, Universale significa unico per tutti i pensanti – e fa riferimento all’Io penso kantiano anche al di là del nostro mondo, di cui Cristo è l’incarnazione umana per eccellenza. E’ evidente che Carabellese intende contestare a Gentile il concetto di Dio come Soggetto, che parte dal giudaismo (vedi Disegno).

Per Carabellese la critica al gentiliano Soggetto Universale unico si incentra sul concetto che ammettere  il  Soggetto universale unico significa confondere il soggetto puro, che è per Carabellese un distinto della Coscienza concreta, con  la  Coscienza concreta stessa, il cui significato, per il vero Kant, consiste nella sintesi soggetto-oggetto, sintesi che non è, come vorrebbero certe interpretazioni posteriori a Kant, il prodotto dell’attività del soggetto. Considerare Soggetto il puro Universale – non l’Universale concreto - significa negarlo come tale in quanto lo si riduce a  un singolare,  e coinvolgere in questa negazione la  Coscienza stessa. Da ciò si evince il rifiuto carabellesiano  per l'identificazione dell'Io penso kantiano, che in Gentile è divenuto  il Soggetto  Universale, con Dio: immanente al  Concreto o Coscienza (necessario rapporto soggetto-oggetto), e distinto dall’Io come Soggetto – seppure in circolare rapporto con lui -, vi è  Dio visto come l’altro distinto dell’Essere (l’Io, l’Altro, potremmo dire radicalizzando Carabellese, in necessario rapporto ma anche in assoluta distinzione: ma non è questa una contraddizione interna al suo pensiero di un rapporto diretto con Dio, contraddizione che porta alla teologia negativa di Dio come l’assolutamente altro? Il pericolo si vede. Io Altro in rapporto diretto orizzontale, Principio Termine in diretto verticale, ecco un altro schema a croce).  Perciò in una  nota de L'idealismo italiano Carabellese precisa la  differenza fondamentale tra  l'idealismo di Gentile  e il suo idealismo concreto o ontologismo critico: per l'idealismo  attuale  l'idea coincide con lo stesso atto del conoscerla, per il concretismo essa è imma­nente all’atto e da questo distinta.[34]  L’idea è a priori rispetto all’atto, e, in quanto Idea dell’Essere, punto zero del rapporto Dio Io, è Dio prima della creazione, prima della Genesi: è, ci ritorniamo, il “Fiat lux”, precedente secondo le scienze esatte al cosmo, in cui ciò su cui porre l’attenzione non è la nascita della lux, ma il Fiat, il comando. Questo significa che prima dell’Idea, che non è Dio inteso come Assoluto, vi è il vero Dio, l’Assoluto, il Dio che dà come comando l’Idea-Principio.

Allora  Carabellese  si distaccherà da  Gentile dopo  un  primo periodo  in  cui il terreno di incontro[35], e  di  scontro rispetto  alla sua interpretazione[36], era costituito  dal pensiero  di  Rosmini (sul cui  rapporto  con  Gioberti,  com'è noto, Gentile si laureò[37]), da Carabellese poi riconosciuto come maestro[38].

Nell'articolo Intuito  e sintesi  primitiva del 1911, riprendendo alcune argomentazioni dalla sua Tesi di Laurea in Filosofia, Carabellese dà la sua  interpretazione della  teoria  della conoscenza in Rosmini  in  rapporto alla  teoria rosminiana dell'essere, mettendo  in relazione  gnoseologia e ontologia, ed enuncia i  termini della sua polemica con Gentile. Questa si può esporre  come questione  relativa alla diversa interpretazione che danno Gentile e Carabellese della teoria rosminiana della sintesi e dell'intuito  che  la fonda come condizioni  trascendentali dell'esperienza  in senso kantiano oppure con valore innatistico e sostanziale.

Nella conoscenza in primis vi  è  l'idea dell'essere, l'unico apriori  che  Rosmini conserva di Kant. Nella percezione intellettiva come primo atto della conoscenza razionale questa idea dell’essere è forma  in due modi (Carabellese dice valori): è forma dell'intuito, nel senso che "accende l'intelletto" in quanto forma manifestante o manifestazione  dell'essere,  ed è anche  forma  delle percezioni  sperimentali, ossia a posteriori -  Rosmini, secondo Carabellese, è colui il quale fonda, dopo  Kant, la conoscenza a posteriori -, e  in questo secondo senso è la  forma  manifestata. Secondo Carabellese, l’idea dell’essere nel primo senso – di forma manifestante l’essere -, pur essendo formale rispetto al complesso  della conoscenza, in Rosmini costituisce  un presupposto della  sintesi  che apre  l'individuo  al  mondo. Questa apriorità dell'idea dell'essere perciò riguarda non soltanto la logica, ma anche  la temporalità, al  con­trario che per Gentile: l’innatismo dell’idea dell’essere consiste nella sua preesistenza all’atto percettivo e dunque nel suo essere inter­na al tempo: Carabellese afferma, citando il Rosmini del Nuovo saggio sull'origine delle idee,  del 1830,  che l'idea dell'ente nel nostro   spirito  è preesistente all'atto  della  percezione sia per natura  sia per  tempo. Infatti si trova, nell’ordine, prima l'idea  dell'ente, seguita dalla sensazione e poi dal giudizio che le congiunge generando la percezione dell'esistenza dei corpi [39]: così si ha la sintesi  sperimentale che dà la  conoscenza trasformandosi nel giudizio percettivo.

Ma prima ancora della  perce­zione nel suo complesso, che si svolge nel tempo, conti­nua  Carabellese, vi è la percezione primitiva fondamentale, ossia la sintesi primitiva sui generis, che è la “prima percezione che noi facciamo venendo alla luce" (quella del frutto del concepimento). La percezione primitiva fondamentale costituisce la potenza della ragione ed è di  natura diversa  da tutte le altre, perché in essa non vi sono ancora confini distinguibili tra il nostro corpo e il resto del mondo, ma un unico sentimento fondamenta­le. Questo atto costitu­tivo  della ragione è dunque una  percezione  sui generis, come un’ideasui  generis è l'idea dell'essere. Intuito dell'ente e percezione  primi­tiva  fondamentale  sono  contemporanee,  poiché,  appena nasce nel grembo della madre,  l'uomo è ragione.

In questo senso, per Carabellese bisogna distinguere tra ordine logico e ordine temporale:   quanto all'ordine  logi­co, la ragione è una potenza posteriore alle due potenze del  senso e  dell'intelletto,  da  cui risulta; quanto all'ordine  cronologico, è un apriori, dal momento che quando è l'uomo,  è la ragione. E’ necessario perciò distinguere la sintesi sui generis, che fonda la ragione ed è  contemporanea all'intuito  dell'ente, dalla sintesi che costituisce la percezione  dei corpi  e  dell'io  come  dualismo soggetto-oggetto  (la cosiddetta percezione di  realtà), poiché  quest'ultima è sia logicamente che  cronologicamente posteriore all'intuito.

Il punto della  questione tra  Carabellese e Gentile è proprio qui:  per  Gentile[40], secondo  Carabellese, la percezione primitiva  fondamentale del nascituro e l’intuito dell'ente che  la  fonda  sono  soltanto  presupposti logici,  e  in ciò condizioni  trascendentali,  cosicché sono fuori dal tempo e quindi anteriori solo logicamen­te e non anche cronologicamente,  poiché  fondano il fatto  stesso  della  percezione intellettiva che invece è nel tempo. Ciò perché per Gentile  precedente  solo logicamente  e non anche cronologicamente, e dunque  fuori del  tempo, è l'idea dell'ente, ad essi atti  percettivi fondamentali immanente e anch'essa trascendentale in quanto loro presupposto. Per Carabellese invece, sia l'idea dell'ente, sia la percezione  primi­tiva fondamentale non sono condizioni trascendentali, ma potenze. La potenza,  afferma citando il Rosmini  della Teosofia, è  un  atto primo e costante a cui può anche mancare, come atto secondo, l’esplicazione, che è operazione passeggera: la potenza  c’è anche se non c’è l’atto, per cui la percezione primitiva  fondamentale non è condizione  trascendentale  della  sintesi  primitiva. Ciò significa che alle tre  potenze (la  sensibilità come potenza del sentire,  l'intelletto come  potenza dell'intendere, come intuito ossia  intuizione dell’idea,  e  la ragione  come  potenza  del conoscere)  ne  è anteriore una  quarta,  la  percezione primitiva fondamentale del frutto del concepimento, che fonda la ragione. La sintesi primitiva, come operazione o atto secondo della potenza della percezione primitiva fondamentale, è detta primi­tiva  in quanto prima funzione  della  ragione che dà la conoscenza sperimentale e che ha valore  creativo perché  fonda  la  percezione distinta dei  corpi e dell'io. Invece la percezione primitiva fondamentale del nascituro è il  “talamo” in cui il reale  e l'essenza che s'intuisce nell’idea  formano un tutt’uno, l'uomo. Ciò significa che nella potenza costituita dalla percezione primitiva fondamentale del frutto del concepimento evidentemente potenza ed atto sono un tutt’uno, il talamo in cui realtà e mondo delle idee si fondono nell’intuizione pura (non in senso kantiano, evidentemente), dando forma all’uomo come ragione. Tranne questa potenza, le prime tre potenze (intelletto, sensibilità, ragione) sono in quanto tali atti primi a cui manca l'atto secon­do,  l'operazione,  perché percezione ci sia,  cioè  per passare  dalla potenza all'atto.[41]

E,  al contrario di  quanto  afferma  Gentile, l'ordine di esistenza e l'ordine di "avvertenza" (come lo chiama Rosmini), ossia l'ordine in cui vengono  avvertite dal  soggetto,  sono ambedue  cronologici,  ma  inversi: nell'ordine  logico  la potenza  viene prima  dell'atto, nell'ordine  esperienziale  avvertiamo prima l'atto e poi la potenza. Da questa inversione, che Gentile considera logica e non  cronologica tra l’avere la coscienza  dell'atto e l'essere dell'atto  stesso,  Gentile ricava la trascendentalità dell'essere  dell'atto, ossia della potenza.

Crediamo di aver messo sufficientemente in luce i termi­ni della complessa polemica in cui Carabellese e Gentile si  addentrano poi ulteriormente     rispetto all'intepretazione del pensiero rosminiano non solo (a partire dalle rispettive Tesi di Laurea)  nei due articoli citati, ma anche  nel  successivo  articolo carabellesiano  La  potenza  e  l'intuito  come  potenza nell'ideologia  rosminiana[42],  in  risposta  all'articolo gentiliano  su  " la Critica " del maggio 1911.  Il  focus della  polemica  è nel  valore  formale  o  sostanziale dell'idea dell'essere, che Gentile vede come  condizione trascendentale  in  senso  kantiano,  ossia  con  valore relativo  alla  conoscenza,  mentre  Carabellese,  sulla linea  rosminiana,  le  attribuisce  valore  ontologico, connettendo già qui gnoseologia e ontologia in vista della metafisica. Per Cara­bellese  Gentile dovrebbe  dimostrare  che nella  percezione intellettiva  sorge immediatamente, senza  esistere  già prima,  l'idea dell'essere con un valore formale. Da ciò conclude che non è nello spiri­to   del  rosminianesimo  la   contemporaneità, e dunque la formalità, dell'idea dell'essere con la sintesi primitiva: l'intuito dell'ente  precede la conoscenza  sperimentale,  non ha  il  valore formale delle categorie kantiane, e, nel rapporto tra gnoseologia  e  ontologia,  l’idea  dell'essere ha valore innatistico e sostanziale, quelle  di sostanza e di causa  valore categorico e funzionale: il problema è quello del fondamento[43], e della conoscenza del fondamento.[44]

Nonostante  questa polemica, che si protrae dal 1907 al 1912 in diversi luoghi,  Carabellese condivide  con Gentile ne La pedagogia  dell'attualismo[45] la  considerazione dello spirito come  sviluppo  eterno, per cui la realtà tutta è spirito, ma ne dà una diversa interpretazione. In generale infatti la sua posizione critica  rispetto al  neohegelismo italiano riguarda, nella considerazione dello spirito  come  il processo reale, la riduzione di ogni realtà  a spirito, che per lui il neohegelismo intende implicitamente come spiritualità  umana, riducendolo a psicologia. Nel concepire il neoidealismo lo spirito come il potere umano di rappresentarsi la realtà, questa è sì rappresentabile ma non riducibile  né  alla rappresentazione,  né  al suo potere formatore, che è diverso dallo spirito[46]. Nella critica  al neohegelismo come psicologismo e filosofia della rappre­sentazione Carabellese disgiunge perciò lo Spirito come processo reale dal puro potere rappresentativo, dal momento che in questo le singole rappresentazioni possiedono sempre  un "chi"  e  un "che cosa" della rappresentazione stessa.[47] Egli vuole affermare, oltre il puro atto (il puro divenire), anche l’essere dell’atto: perciò egli arriverà a distinguere la realtà infinita come Essere dallo Spiri­to eterno, e questo dalla Coscienza o Concreto o  Essere-Sapere che  si manifesta e diviene come processo dialettico: lo Spirito è distinto dalla  rappresentazione. E’ solo al livello dello Spirito che c'è processo,  in senso lato divenire – dal momento che il divenire è per Carabellese apparenza, fenomenicità, temporaneità, anche se egli in molti luoghi della sua opera, ricordiamo, afferma che essere e apparire sono unum et idem, e dunque la sua posizione è realistica -, ma al livello sommo dell'Essere il divenire scompare, nel senso che l’Essere è, in quanto origine o punto zero del divenire,  Principio stesso del divenire. Carabellese  vuole  conciliare l'essere  con  il  divenire, Parmenide con Hegel, mantenendoli però distinti: l'Esse­re diviene al livello del Concreto o Coscienza, di cui lo Spirito è, al livello dell’Essere di Coscienza puro,  uno dei distinti – l’altro essendo Dio - , e nel Concreto o Coscienza in quanto  attivo, universale  ed unico  processo  reale, non può essere surrettiziamente identificato con l’uomo. E questa identificazione gentiliana dello Spirito con l’uomo è negata da Carabellese perché in tal modo la  Coscienza  come  concretezza dell'Essere  scompare per far posto o all'uomo vivo  ab aeterno o alla materia antecedente allo spirito, il quale non è né il singolo soggetto pensante né l’umanità intesa come unico soggetto pensante: Carabellese vuol dire che esiste il soggetto pensante unico, ma non è né il singolo uomo, né l’Uomo in generale: è, sulla Terra, Cristo, nel cosmo, l’Io.[48] Infatti per Carabellese l’Io penso kantiano, o Cristo, si identifica con lo spirito intelligente attivo, lo spirito pensante che sa Dio.

Per quanto attiene perciò all'identificazione gentiliana tra ontologia e  gnoseologia,  è possibile considerarla un punto di convergenza tra Carabellese e Gentile, poiché non soltanto   la Coscienza o Concreto in  Carabellese è Essere-Sapere, per cui questa identificazione e coincidenza  può esservi al livello della Coscienza, se con essa si intende il conoscere dell'Io  penso, che è uno dei due Distinti della Coscienza stessa, ma pure la coincidenza tra gnoseologia e ontologia attraversa anche l’ultimo Carabellese, quello che affronta il sistema metafisico dell’Essere. Infatti tutta la prima dispensa Dialettica delle forme, che parla di Dio, è un continuo traslitterare di piano tra gnoseologia e ontologia nel mentre parla di metafisica, poiche Dio è lì leggibile secondo i vari nomi, le varie forme di oggettivazione che Carabellese attribuisce a Dio, rimanendo in sé Qualità pura, che, nel rapporto circolare con l’Io diviene, come la chiama Carabellese nello schema grafico che chiude l’opera, Coscienza qualitativa.

In altre parole, proprio perché noi consideriamo la posizione di Carabellese realista (non in senso scolastico ma assoluto, ossia come identificazione tra essere e apparire, realtà e fenomeno, nonché tra essere e conoscere nella distanza tra i suoi vari livelli di metodo e di contenuto), poiché in Carabellese lo spirito non si  iden­tifica con l'Essere e  il Concreto carabellesiano ha due  condizioni che, seppure  intrinseche  e inseparabili,  sono  distinte (i soggetti  e  l'Oggetto, l’Io e Dio), l’identificazione assoluta tra ontologia e gnoseologia, come identificazione che riguarda tutti i livelli a partire dall’Essere, è possibile se si legge il sistema metafisico dell’Essere Essere: Dio Io dal punto di vista dell’io, ossia aggiungendo un quarto punto ai tre  individuati. In questo io si uniscono i due punti dell’Essere come Idea (anche abbiamo detto Sostanza e Principio) e dell’intuito che guida Carabellese alla scoperta dell’Idea. Ci sarebbe qui da fare, a partire dal rapporto diretto Dio io che guida tutto il pensiero di Carabellese, una digressione sul sapere l’Assoluto che rimandiamo.

Gentile, secondo Carabellese, misconosce il vero rapporto tra ontologia e gnoseologia perché connette quest’ultima a un assoluto  idea­lismo inteso come  identi­ficazione  tra l'Io e l'Idea, che sono invece distinti nell'Essere. Carabellese, pur avendo  sempre combattuto  contro  lo  gnoseologismo  come  separazione dell'essere  dal  conoscere, da  un lato non considera l’identificazione tra ontologia e  gnoseolo­gia, intesa come identificazione gentiliana tra Io e Idea, appartenente né al livello dell'Essere,  né a quello dell'Idea, dall'altro non la limita al livel­lo  della concreta coscienza,  bensì le fa investire anche il livello dell'immanenza dell'Oggetto nei soggetti,  dove l'ontologia ricomprende  la  gnoseologia intesa come coscienza dei soggetti nella loro singolari­tà. Vi è qui la rivendicazione dell’esigenza imprescindibile della molteplicità e diversità dei soggetti, che secondo Carabellese Gentile mortifica. Il problema dello spirito è per Carabellese problema metafisico[49], non problema umano, dunque né  problema  di origine né problema di storia: è problema  di fondamento, tipicamente filosofico.

Ma la critica più profonda al neohegelismo italiano egli, pur concordando con Gentile riguardo allo statuto  etico della conoscenza come attività spirituale che supera la distinzione tra intelletto e volontà, la esprime analizzando  l'atto puro gentiliano. In questo il  soggetto è “l'attivo  pensiero  pensante” e l'oggetto è  “il  passivo pensato”: poiché per Gentile non  può  esservi passività nello  spirito come atto puro,  l’oggetto come pensiero pensato diviene l'attivo  pensiero  pensante  (soggetto  unico)   negato (oggetto  molteplice).[50] La presa di distanza carabellesiana consiste nell’affermazione che  il molteplice è proprio del soggetto, e l'unico dell'Ogget­to,  e che è inammissibile qualunque negazione  all'interno  dell'Io: l'Oggetto, più che  il negato  gentiliano, è proprio ciò che fonda il  soggetto stesso, per cui negare l'Oggetto significherebbe negare  il fondamento: un assurdo.  Ciò significa che  il Concreto  carabellesiano  non  è  il  Soggetto  assoluto gentiliano come atto puro, perché non è soggetto, ma sintesi di soggetto e di oggetto, è soggetto-oggetto.

L'attualismo  è per Carabellese il soggettivismo assoluto che  Spaventa considera  l'essenza e il valore  di  tutta  la filosofia  moderna e da cui Schelling ed Hegel, rinvenendolo in Fichte, volevano liberare la filosofia in nome della scienza: Io (trascendentale) sono  l'Unico ed  il  reale. L'attualismo perciò,  in  quanto dialettica antitetica del soggetto puro,  non si inserisce per Carabellese nella tradizione dell'idealismo italiano[51] perché, negando l'oggetto e sussumendo tutta la realtà  sotto  il Soggetto, ne sconfessa l'oggettivismo che dal Rinascimento in poi fa  consistere  il vero  idealismo nell'immanenza del vero nel  certo, ossia dell’essere nel conoscere. Ma nonostante ciò, il suo valore consiste nel “potente anelito all'unità” e nella “dimostrazione  dell'inelimina­bile spiritualità del reale”.[52] Al di là di tale valore, a Carabellese preme  veder  riconosciuto  che su  un  livello  più  alto dell'Essere  si pone non il processo, ma la  realtà.  In una nota dell'Idealismo Italiano, nel ribadire che la differenza fondamentale dell'idealismo attuale rispetto all'idealismo concreto  consiste nella coincidenza attualistica tra  l'idea e l’atto del  conoscerla, si fa l’affermazione che l’idealismo assoluto è solo  quello concreto, che dà all'Idea, in quanto immanente fondamento dell’atto del conoscerla, l'assolutezza.[53]

Carabellese  vuol ribadire un assoluto idealismo  che  è anche   gnoseologico, sebbene contro la  filosofia  del conoscere  si  mostri sempre molto  critico.  In questo senso si distacca da certo neokantismo perché critica di Kant l'implicita riaffermazione della filosofia del  conosce­re,  della  filosofia  della riflessione,  e  in  questo distacco  si  inserisce,  come bene  mette  in  evidenza Semerari[54] , nel movimento novecentesco di  rifondazione dell'ontologia, che segna il passaggio al  pensiero  post-moderno con la crisi epocale della moderna filosofia del conoscere  la quale considera l'essere solo  come  terminale conoscitivo, nell'oggetto, dell'attività del soggetto, e così  non  può disconoscere il residuo  ontologico,  che permane  nella sua inconoscibilità.  Carabellese  dunque come lato italiano della rifondazione europea dell'onto­logia, solo apparentemente esauri­to  nelle  polemiche  col  neotomismo,  l'idealismo,  lo storicismo[55] a lui coevo. Carabellese che oppone alla filosofia  del conoscere  l'ontologia, ma un'ontologia affatto  lontana da  quella  tradizionale, ossia da  non  confondere  con quella  aristotelico-scolastica che  considera  l'essere l'ultimo  grado  del processo di  astrazione  nella  sua massima indeterminatezza, con  mera  funzione logico-predicativa.  Un  Carabellese   che  secondo  noi anche  in questo porre l'ontologia versus  la  filosofia del conoscere, la speculazione versus la riflessione, si rende  sintomaticamente  vicino,  benché esplicitamente lontano,  allo  spirito  se non alle posizioni dell'idealismo hegeliano

 

4.  Ontologismo  critico e  metafisica  idealistica:  

la polemica con l'idealismo hegeliano e la  riaffermazione del "vero" idealismo

  

Riprendendo  allora il discorso di un Carabellese conti­nuativamente  interessato  a  Kant in vista  di  un superamento dei suoi limiti nella direzione di una ripresa della metafi­sica all’interno della  critica della ragione, metafisica secondo Carabellese insita  già nel Kant  precritico  e  affatto negata  dal  Kant  critico, si  può comprendere meglio la  posizione  polemica  che egli  assume nei confronti del neoidealismo  italiano  a lui coevo - e che reciprocamente il neoidealismo italia­no  assume  verso di lui, quando manifestamente  non  lo ignora  -, e nei confronti dell'idealismo  tedesco,   in particolare di Hegel. Questa posizione polemica è frutto in primo luogo di una sostanziale incomprensione da attribuire al clima culturale comune a chi all'epoca si opponeva  all’idealismo oggettivo di Hegel e all'hegelismo in Italia. Si vuole dire che  solo in  età più vicina a noi la messe di studi  su Hegel ha  chiarito  come  i rischi insiti  nel pensiero hegeliano, che hanno più provocato  alla sua introduzione in Italia prese di posizione  polemiche e refrattarie,  fossero in realtà frutto di una serie di interpretazioni  scorrette sul piano  storico-filologico  ri­spetto  alle  opere hegeliane edite  e  inedite, e a  volte  di  plateali incomprensioni se non addirittura di veri e propri falsi.

Ma  vediamo di analizzare il rifiuto  carabellesiano  di Hegel  e del neoidealismo  italiano dei primi decenni del  Novecen­to nei suoi contenuti più specifici e nelle sue ragioni profon­de, al di là del clima culturale. Sull’accusa di soggettivismo mossa da Carabellese al neoidealismo italiano, di cui rinviene le radici nell’idealismo hegeliano, ci siamo già soffermati a partire  dall'espli­cita  e più completa presa di posizione del  Carabellese maturo  operata nel  ponderoso   L'idealismo italiano. Saggio storico-critico, del 1938 - poi ristampato nel 1946, a ribadire una posizione  ormai consolidata di cui le Appendici, aggiunte nella  seconda edizione,  costituiscono  la  riconferma: l’obiettivo è quello di scindere il concetto di Soggetto da quello di Dio, rendendosi in ciò anche intenzionalmente lontano dal concetto di Dio come Persona.   Infatti c’è da dire che nella Dialettica delle forme a Dio sono attribuiti caratteri di Persona, come il circolo Volere, Intendere, Sentire, facoltà metafisiche attribuite a Dio. Evidentemente per Carabellese il vero Dio è l’Essere, che non è Persona ma Idea-Sostanza-Principio.

Parallela a questa presa di distanza del vero Dio sia dal concetto di Persona sia dal concetto di Soggetto, vi è la presa di distanza dalla dialettica hegeliana intesa come dialettica formale, e negativa per la presenza della contraddizione: una  sostanziale   incomprensione dell'idealismo hegeliano che noi oggi sappiamo errata, in  cui anche e soprattutto la contraddizione rimane sostanzial­mente misconosciuta, in un oblio assoluto  della sua funzione nel celeberrimo Aufhebung hegeliano. Carabellese vuol dire che la dialettica hegeliana, proprio per il suo contraddirsi, non è vera, non è reale: nella realtà non c’è contraddizione, ma penetrazione dei diversi, dei distinti, che con il loro penetrarsi reciproco generano forme nuove, e queste forme sono reali, non semplicemente “formali”, sono sostanziali. Ma questa è proprio la dialettica hegeliana che si eleva nell’Aufhebung.  A meno che Carabellese non volesse riferirsi, con questa contestazione della contraddizione della triade dialettica – e di triadi il pensiero del Carabellese sistematico è pieno -, alla propria convinzione di una assoluta mancanza di “crescita dello Spirito sopra se stesso”, nella sottolineatura che lo Spirito nella sua penetratività è sempre uguale a se stesso ab e in aeternum, ossia nel suo tempo. Ma a questo punto non si capirebbe di Carabellese la manifestazione dell’Essere come Essere nel tempo, attività, né il concetto di storia, ad esempio di storia della filosofia, come progresso, che, sebbene ritornante sui medesimi problemi di sempre come cosa in sé, potremmo dire, ne sposta nel tempo in avanti il limite nel passaggio dal sapere alla conoscenza, o anche dalla coscienza alla ragione.

Carabellese nell'Idealismo italiano, che segna il punto di  maggiore attrito rispetto all'idealismo hegeliano  e di più ponderata riflessione sia dell'idealismo italiano sia  della propria posizione filosofica rispetto a  que­sto, rivendica per sé, nei confronti di Hegel e dell'hegelismo, il "vero idealismo", l'ideali­smo  oggettivo o oggettivismo immanentistico. Questo  trova nel  Rinascimento italiano di Bruno, Galilei, Vico  il suo antecedente più prossimo, e in  Platone  e poi nel neoplatonismo di Plotino i suoi antecedenti  più lontani:  il  "vero idealismo" è  dunque,  nel  pensiero moderno, tutto italiano. Infatti se la riscoperta dell’immanentismo  - come immanenza dell'Idea nella co­scienza, o anche "immanentismo della rivela­zione divina", come Carabellese afferma in termini non strettamente filosofici - è attribuita a Bruno, così è considerata scoperta di Vico la visione della storia come manife­stazione in figure dello spirito.[56]

Al di là della rivendicazione dell'importanza del pensiero italiano nell'ambito  di una  filosofia  che  Carabellese  evidentemente  sentiva dominata dal pensiero tedesco, quest'affermazione  del  "vero  idealismo" oggettivo versus  il   "falso" idealismo soggettivo come deviazione dalla  vera filosofia[57] pur nella comune concezione dell'idealità  dell'Essere si incentra sull’assunzione  della tesi dell'immanenza dell'Essere oggettivo. Ciò  non  per  negare il soggetto, ma  per  metterne  in risalto  il valore, seppure imprescindibile nel  sistema dell'Essere,  non  prioritario: il  prius  nel  pensiero carabellesiano  non è del soggetto, ma dell'Idea che si oggettiva, e più ancora dell’Essere che la oggettiva.  Carabellese consapevolmente si vuole opporre,  ribaltandola, a  tutta la tradizione filosofica che da  dopo  Cartesio  ha  fatto perno sulla coscienza come coscienza del  sog­getto,  e  che ha fatto da questa  coscienza  soggettiva derivare l'unico sguardo possibile sulla realtà: qui  si spiega  in primo luogo l'accusa di umanismo  antropocen­trico.  Ribaltare quest'ottica significa non  negare  il soggetto, ma negarne la priorità per porsi dal punto  di vista dell'Essere: nell'immanenza dell'Essere  oggettivo ai  soggetti  l'attenzione è concentrata,  più che  sui soggetti nei quali l'Essere immane, su quest'Essere.  La sua immanenza nei soggetti sta senz'altro a  significare anche  la  loro appartenenza, si potrebbe dire  la  loro partecipazione,  all'Essere: la loro  imprescindibilità, il loro statuto ontologico, la loro elevazione al livel­lo  dell'Essere. Ma nonostante la  tesi  dell'immanenza, riguardata  dal  punto  di vista  dei  soggetti,  voglia significare  una precisa seppur implicita visione  cara­bellesiana dell'essere del soggetto, non è questo che  a nostro parere determina dal punto di vista filosofico la sua  posizione. L'immanenza deve essere cioè  riguardata dal lato dell'Essere, e sta lì a sottolineare la priori­tà  dell'Essere  rispetto ai soggetti: è  l'Essere  che immane, e che si oggettiva nella e come Idea. Qui è preciso il distacco dall’umanismo antropocentrico, il quale a sua volta si sposa col già sottolineato spostamento dall’uomo al pensante.  Ma  sarebbe erroneo radicalizzare  il  discorso carabellesiano e dire che se sul piano ontico agisce  il soggetto, sul piano ontologico "agisce" l'Essere. Infat­ti  priorità dell'Essere non significa annullamento  del soggetto, dal momento che anzi appunto  Carabellese innalza il soggetto al piano metafisico, e ne fa uno strumento indispensabile dell’Essere, strumento che si attua nella realtà dell’attività spirituale umana.  Semmai la partecipazione del soggetto all'Essere pur nella primarietà dell'Essere stesso può condurre, proprio nella pluralizzazione  cui Carabellese  sottopone  il soggetto,  ad  una  pluralità ontologica. Ma dipende dal livello a cui ci poniamo.

Allora  idealismo oggettivo significa, al di là della  natura spirituale dell’Essere, che la soggettività  in qualunque sua forma ne partecipa ma non ne è  il centro  motore  perché, come dice  Carabellese  in  modo illuminante, essa è singolarità sempre relativa e multipla (anche se non finita in senso vitale) ma non unici­tà: questo idealismo è oggettivo e non soggettivo perché l'Idea si fa Oggetto puro, oltre che Soggetto. E'  qui  che avviene implicitamente  l'innalzamento  del soggetto, dei soggetti per Carabellese, al piano metafisico: nell'essere l'Idea Oggetto puro, e dunque immanen­te,  è sottinteso  il Soggetto in cui  l'Oggetto  immane. Questo innalzamento dei soggetti al piano metafisico, che nell’Idealismo italiano è ancora implicito in quanto il sistema dell’Essere: Dio Io non è ancora steso, diviene esplicito quando Carabellese parla del rapporto tra Principio e Termini: qui  l'in­nalzamento  dei soggetti al piano metafisico può  dirsi per un verso compiuto, in quanto Carabellese sta parlando del soggetto in generale, dall’altro incompiuto perché ancora non  è chiaro che tale innalzamento riguarda anche l’Io trascendentale.

Sul piano gnoseologico la posizione metafisica  dell'idealismo oggettivo dell’im­manenza  dell'Oggetto  puro si  traduce  nella  vigorosa affermazione  dell'immanenza del vero nel  certo,  della verità universale e infinita nella certezza soggettiva e finita[58]:  il rapporto gnoseologico tra verità e certezza non  si pone più sul piano ontologico della divisione  sogget­to-oggetto e della separazione tra essere e conoscere al livello del sapere, che lo rendeva problematico lasciando aperta la strada allo scetticismo, ma supera tale divisione nel concetto di Concreto come sintesi soggettivo-oggettiva. Il Concreto è infatti sia gnoseologicamente sia ontologicamente sintesi di soggetto e oggetto, nella quale vi è rapporto intrinseco – di immanenza - tra essere e conoscere, e in cui i due termini di soggetto e Oggetto, seppure distinti, possono essere scissi soltanto a posteriori. Perciò nel Concreto certezza e verità, lungi dall'essere separate – ma restano distinte in infinitum -,  possono, anzi devono, coincidere, per cui l'anelito alla verità del soggetto  non è destinato a rimanere insoddi­sfatto, ma riceve un contenuto positivo: qui si apre la possibilità della metafisica come scienza, nonché quella dell’oggettività della conoscenza, della scienza in generale.  L’ontologia di Carabellese trova il proprio punto di partenza nel concetto di Concreto, da intendere sia gnoseologicamente come concreto, sia ontologicamente come Concreto. Da qui in poi, o meglio da qui a risalire nella scala dell’Essere, siamo nella metafisica: nell’Essere.

Sul piano metafisico dell’Essere di Coscienza puro, uno dei livelli dell’Essere dell’ultimo Carabellese, la posizione carabellesiana dell’oggettivismo immanentistico significa che a quel determinato livello dell’Essere Coscienza ed Essere sono distinti: l’Essere di Coscienza puro è la prima emanazione dell’Essere, o anche la sua creazione e rivelazione.

Invece la lettura metafisica del Concreto che già è presente nella Critica del Concreto   permette di dire che a questo livello Carabellese è ancora interno a una visione ontologica dell’Essere, poiché in essa Critica Essere e Coscienza coincidono,  e  che dunque l'Essere non è altro dalla Coscienza, ma è la Co ­scienza[59]. Questa concezione  Carabellese  esprime  in termini metafisici nel dire che "L'Essere sa, il  Sapere è", per cui la Coscienza è Essere-Sapere.

La  posizione realistica del dualismo soggetto-oggetto e della divisione  tra essere e coscienza, sia in  ambito  gnoseologico che  in ambito metafisico, è per Carabellese da superare, poiché rischia di aprire la strada al materialismo, considerando l’essere non spirituale, ma fisico. Ma Carabellese supera veramente tale distinzione-scissione-separazione? O ancora non la ripropone persino nell’ultimo periodo metafisico quando conserva implicitamente alla coppia  Dio Io la denominazione di Oggetto-Soggetto, nel mentre attribuisce nei fatti, come afferma Furia Valori, una natura soggettivo-oggettiva a Dio?  Resta inoltre da comprendere perché Carabellese conservi, almeno nel  periodo critico, la distinzione tra Essere  e  Sapere pur nella recisa affermazione che tale distinzione non è separazione né scissione: essa può dare adito  a  un equivoco   sullo statuto  ontologico dell'Essere cui si può far fronte solo inserendo tale distinzione in una  gradualità dell'Essere  su  cui però Carabellese non  si  pronuncia lungo  tutto l'arco  critico della sua  rifles­sione, e che necessitava di una meditazione nell’arco metafisico di questa stessa riflessione.  In  quest’ipotesi di una   gradualità dell'Essere in cui l'Essere-Sapere  si inserisce, esso costituirebbe il livello sia metafisico che gnoseologico che rende possibile, fondandola, l’oggettivazione. Questa Coscienza o Concreto si pone al tempo stesso come  Coscienza universale  e come coscienza particolare:  la  coscienza particolare  non è altra dalla Coscienza universale,  ma, in quanto "immanenza  di Dio nell'uomo,  dell'Universale  nel singolare,  della  verità eterna  nella  certezza  della soggettività spirituale", sua  manifestazione, suo inveramento, sua oggettivazione.

L'affermazione più volte ripetuta[60] da Carabellese  come scoperta  del  Rinascimento italiano dell'immanenza dell'Oggetto vero nei  soggetti certi,  che segna la riscoperta  moderna  dell'idealismo platonico, ha dunque in Carabellese un valore  gnoseolo­gico  ma ancor più metafisico, mostrandone il legame strettissimo. Nel concetto di Concreto come Coscienza, che sul piano gnoseologico Carabellese deriva dal concetto di coscienza e di sintesi della Critica kantiana, si attua uno spostamento dell’asse dell'interpretazione di  Kant dal Kant critico della conoscenza ad un Kant  metafisico in senso stretto. Carabellese lo inserisce in una linea ideale che va  da Platone  e il neoplatonismo plotiniano  al  Rinascimento italiano  di Bruno e Vico,   alla filosofia italiana dei  maestri  riconosciuti  di  Carabellese,  Rosmini  e Varisco[61].

 

5. I maestri di Carabellese

 

 Proprio  ai rapporti di Carabellese con il  pensiero  di  Varisco  e Rosmini (Varisco e Rosmini, assieme a Kant  e Gentile,  furono  oggetto  della dura polemica  con  Armando Carlini  del 1936[62] sui maestri di Carabellese)  vorremmo ora  dedicare un breve cenno, per inquadrare  meglio  il suo pensiero soprattutto riguardo alla concezione della soggettività intesa come attivo pensiero pensante e allargata a comprendere perciò non i soli uomini, e questi non nella loro empiricità transeunte.

E'  appunto se si guarda più da vicino il  rapporto  che lega Carabellese a Varisco accennandolo almeno nei  suoi punti chiave che si comprende quell'accusa di soggetti­vismo  mossa da Carabellese all'idealismo  neohegeliano  italiano, e si chiarisce il significato dell'immanentismo  che Carabellese va propugnando, ambedue - accusa di  sogget­tivismo e significato dell'immanentismo - tesi a  salva­guardare  la  molteplicità e  irriducibilità  dei soggetti nella loro individualità irripetibile.

Oltre  che  sotto l'influenza  del  neokantiano  Filippo Masci,  che iniziò Carabellese allo studio di Kant,  gli anni  della formazione di Carabellese si svolsero  sotto l'iniziale influenza di Bernardino Varisco. Dal neokantismo di Masci, che, succedendo al suo maestro Bertrando Spaventa, insegnò Filosofia Teoretica a Napoli a  partire  dal 1885, ossia  negli stessi  anni  in  cui Carabellese  seguiva  il corso di  laurea  in  Lettere[63], proviene  a Carabellese un patrimonio di  carattere  non solo gnoseologico: la concezione della funzione formati­va dell'esperienza e non della sola conoscenza che hanno le forme a priori, che sottintendeva  una considerazione della totalità dell'attività spirituale umana che  supe­rasse  la scissione tra soggetto epistemico  e  soggetto empirico,  la  tesi  della  necessaria  implicazione  di soggetto e oggetto come negazione della loro  realistica divisione,  ma soprattutto, come già ricordato, la teoria  della  "formazione coeva del dato e della forma", forma che veniva liberata dalla  fissità data una volta per tutte e immessa in  un "processo di concrescenza materiale-formale"[64]. Secondo  Semerari, che ne dà  dunque  un'interpretazione trascendentale  e  non  metafisica considerandolo il contributo più originale della sua filosofia, Carabellese  chiama concreto     questo     processo     di concrescenza materiale/formale che in Masci rappresentava la  radica­lizzazione  della questione gnoseologica kantiana  delle forme  del sapere e dell'esperienza come forme in  grado di asserire non soltanto sugli stati soggettivi ma anche sugli oggetti fuori della coscienza. La radicalizzazione e  liberazione dell'apriori kantiano dalla fissità e rigidità di matrice naturalistica come affermazione perentoria della “formazione coeva del dato e della forma" rimaneva  però in Masci ancorata a quel "fatto" che l'idealismo e il  neoideali­smo tendevano a superare e prendeva così le  distanze tanto dall'idealismo quanto dall'empirismo, che crede che "la conoscenza non abbia una legge interna propria"[65]. Ci è sembrato di poter suggerire che tale concretismo gnoseologico risulti in Carabellese solo il primo passo verso un più ampio progetto metafisico, e vorremmo aggiungere che nella Dialettica delle forme un intero capitolo è dedicato alla rivalutazione e all’analisi del fatto, alla sua assunzione metafisica nella Coscienza qualitativa, e ai suoi rapporti col fato, per cui dire che Carabellese contestasse la concezione positivistica del fatto è visione corretta solo se contestualmente si sottolinea la sua ferma asserzione dell’esistenza di fatti oggettivi, che mira realisticamente a prendere posizione contro il pericolo del relativismo. In altre parole, l’antipositivismo di Carabellese significa attenta valutazione critica, e assunzione, degli stessi progressi del Positivismo.

Di Bernardino Varisco Carabellese  fu allievo diretto  a Roma.  Con lui infatti si laureò in Filosofia nel  1905 con la già ricordata Tesi su Rosmini, poi pubblicata nel 1907  con la Prefazione del maestro, e  all'analisi  del suo pensiero metafisico dedicò nel 1914 l 'opera L'Essere e  il  problema religioso. A proposito del  'Conosci  te stesso'  di Bernardino Varisco[66]. E’ da Varisco  che Carabellese derivò  l'orientamento verso le problematiche  metafisi­che: il distacco dal Positivismo e la teoria  dell'irri­ducibilità  di una molteplicità metafisica  di  soggetti spirituali  attivi (che Varisco derivava  da  Leibniz), nonché  la  concezione spiritualistica  dell'universo  e l'apertura  ai problemi religiosi. Più tardi, come si è detto,  Carabellese misconoscerà questa  filiazione  per restringerla a Kant e a Rosmini, ma l'analisi delle  sue opere non può che restituire, se non lo sviluppo, almeno l'influenza iniziale verso questi temi. Secondo  Raniero Sabarini[67], Carabellese viene in una prima fase  influen­zato dal criticismo di Varisco, ma nello stesso tempo ne dà  una  formulazione  più coerente e  lo  inserisce  in quella linea critica che va da Cartesio a Kant a  Rosmi­ni.  In  Varisco l'apriori  costituiva  il  "costitutivo metafisico della coscienza, e l'unità fondamentale entro la  quale  si pongono i molti soggetti", che  in  questo loro  convenire  in  essa la  presuppongono  nella  loro attività   coscienziale,  le  cui  determinazioni   sono "guidate  internamente  dal Principio immanente  ma  non esauribile  nelle  determinazioni  stesse."  Carabellese riprende l'apriori varischiano e lo radicalizza  metafi­sicamente.

Ma  proprio all'Appendice IV della seconda edizione  del carabellesiano   L'idealismo  italiano,  che   raccoglie appunto  tre  saggi sul pensiero del  maestro,  vogliamo riferirci  per guardare al rapporto  Varisco-Carabellese con gli stessi occhi dell'Autore: vedremo come in sostanza a nostro parere da tale rapporto derivino a Carabellese elementi di riflessione sulla soggettività non solo in ambito gnoseologico ma anche metafisico e che troveranno sistematizzazione solo nell’ultima fase del suo pensiero nella metafisica dell’Io. Tali elementi costituiscono spunti per la costruzione di una nuova concezione dell’uomo che si inserisce attivamente nei fermenti europei del tempo.

Sebbene il pensiero di Varisco si affermi con la specul­azione intorno al problema religioso, non è in essa  ma nell'impostazione  del problema della soggettività  -  a quello propedeutica - che Carabellese vede l'originalità del pensatore. La questione è sempre quella, per Varisco come  per  Carabellese, da un  lato  della  salvaguardia della  molteplicità  dei soggetti  singolari  di  contro all'affermazione  del soggetto unico universale  operata dall'idealismo  tedesco  e  dal  neoidealismo  italiano, dall'altro della considerazione della coscienza  univer­sale  come  oggettività intrinseca  e  costitutiva  del soggetto singolare, non riducibile, come per l'idealismo tedesco  e  il neoidealismo italiano,  all'attività  del soggetto in quanto essere costitutivo della coscienza.  Considerando  quello  varischiano schietto  idealismo  - cioè  per lui oggettivismo - per la sua distinzione  tra accadere  reale,  implicito alla coscienza,  e  accadere saputo,  esplicito ad essa, Carabellese  evidenzia  come anche  per  Varisco  esista una  pluralità di  soggetti considerati come centri singolari dell'accadere,  centri di sviluppo in cui l'accadere da implicito si fa  espli­cito,  e pure centri in cui l'accadere si pone non  come l'al  di  là dei soggetti estraneo ad essi, ma  come  il concetto inerente alla coscienza e quindi come l'elemen­to unificante di questa molteplicità di soggetti,  l'oggettività  singolare  della  molteplicità  plurale.   E' questo per Carabellese l'idealismo oggettivo di Varisco, idealismo che discende direttamente da Kant passando per Rosmini: l'insuperabilità della coscienza come orizzonte pone  l'oggetto come appartenente alla coscienza e  solo così, in questa immanenza oggettiva, ne deduce  l'ogget­tività.  Varisco,  afferma  Carabellese, è consapevole che la coscienza in univer­sale è ineliminabile dalla nostra stessa coscienza: l’oggettività “non sta di fronte e al di là del sogget­to,  ma lo costituisce: è quindi l'essere  dello  stesso soggetto”. Solo in virtù del suo essere costitutiva della  soggetti­vità, la coscienza in universale può divenire anche oggetto. Varisco così appartiene all’orizzonte comune dell’idealismo, secondo il quale “la realtà saputa è lo stesso sapere la realtà  e  realtà non vi è al di là  della  realtà saputa”, ma questo idealismo, nella negazione comune del dualismo soggetto-oggetto, viene in lui ad  assumere  una impronta  propria[68]. Tale  dualismo, che l'idealismo  tedesco  e  il  neoidealismo  italiano risolvono nell'attività del  sog­getto  come  soggetto universale, viceversa  Varisco, come  Carabellese, trasforma nella distinzione  soggetto-soggetto, ossia in molteplicità dei soggetti. Allora Varisco è il rinnovatore della critica  kantiana, secondo  Carabellese, perché "scopre la natura  concreta dei soggetti particolari", ossia interpreta la negazione del dualismo nella direzione della soggettività concreta,  ponendo per la prima volta dopo Kant tale  problema, che in Kant aveva ancora un'imposta­zione dogmatica per la separazione astratta del sogget­to dalla realtà in sé. E, dando statuto ontologico a tale soggettività particolare, lungi dal ritornare a un  empi­rismo  prekantiano, inserisce rinnovandoli "gli  antichi problemi  della metafisica dell'essere nella  metafisica del  conoscere", ponendosi così nella direzione  di  una nuova  concezione della soggettività particolare,  dopo Kant non più finita, e plurale.

Ma i punti di contatto non finiscono qui: sebbene Carabellese non abbia mai fatto una critica articolata e sistematica del positivismo, è  essen­ziale  e direi propedeutico a questa riflessione sulla soggettività il  rifiuto della concezione astratta dell'uo­mo propria del positivismo in nome di una nuova concezione in cui non solo sia superato il dualismo soggetto-oggetto nella superiore sintesi concreta, ma anche siano presi in considerazione elementi dell’esperienza che pure concorrono a formarla e che invece il positivismo ignora. Il  Vari­sco che interessa a Carabellese quindi non è il  Varisco positivista:  nel varischianoScienza  e opinioni,  visto come distacco dal positivismo e sua prima critica - secondo Carabellese ancor precedente a quella idealistica -, egli rinviene  una posizione polemica nei confronti dello scientismo  e  della  scienza incentrata sull'affermazione che il concet­to  scientifico  non è in grado di  esaurire  il  campo dell'esperienza umana. Al suo fianco vi è appunto l'opi­nione, che non ha i caratteri della scienza,  ma  fa leva sul credere dell'uomo e dunque implica la fede.  Il concetto  di uomo da porre al centro della riflessione filosofica è pertanto non astratto e limitato ma vivo e concreto – appunto si parlava all’inizio di allargamento della concezione del soggetto -, e tale riflessione, piuttosto che eliminare come il positivismo fa ciò che la scienza non riesce a  giustifica­re, deve prendere atto di tale sconfinamento almeno attuale della complessità e ricchezza dell’essere uomo dalla dimostrabilità e razionalità scientifiche per porsi il problema, con tale riconoscimento, della sua leggibilità. Varisco come Carabellese si muovono dunque lungo la linea di un allargamento del concetto di esperienza in cui i confini tra sentimento, intelletto e volontà siano “tolti”, si direbbe con espressione hegeliana, nel superiore concetto di ragione, una ragione la cui delucidazione e il cui svelamento non sono ancora finiti. In questo senso Carabellese, e prima di lui Varisco, è vicino a quel movimento di pensiero che trova in Dilthey una delle sue espressioni più felici nella teorizzazione dell’uomo intero. Partendo dalla gnoseologia e allargando il discorso a tutte  le sfere della vita del soggetto, Carabellese parla anche lui, in consonanza con Dilthey, di uomo intero che sente, vuole, conosce. Il suo progetto prevede  un accoglimento e un innalzamento al piano metafisico di tutte le sfere che caratterizzano l'attività spirituale umana, nel convin­cimento che questa solo astrattamente può essere scissa in intelletto, sentimento e volontà, e che solo riduttivamente può essere privilegiata l'attività conoscitiva del soggetto. Ma c’è di più: il concetto di io in Carabellese, che comporta un allargamento metafisico dal vivente al pensante al sapiente, è passibile di essere messo in relazione con la tematica simmeliana della vita-più vita-più che vita: è questo un input da approfondire in uno studio a sé.

Tornando a Varisco, egli offre perciò a Carabellese stimoli nella direzione di una concezione dell’uomo più vicina all’uomo reale nella concretezza della sua esperienza e in grado di render conto delle sue spinte ideali e dei suoi valori non solo riguardo allo statuto ontologico della soggettività plurale ma anche alla presenza, accanto al concetto, del sentimento implicito nell’opinione e inteso come fede. E’ pertanto da qui che Carabellese compirà il primo passo verso quella rivalutazione di un sapere comune in connessione col sapere scientifico su una stessa linea di continuità, che gli consentirà di parlare del primo come con-sapere implicito di origine metafisica da esplicitare nel secondo. Ma ciò che preme rilevare è che la sottolineatura, sebbene non tematizzata, del ruolo della fede nella conoscenza in senso generale evidentemente pone Carabellese su quella linea di pensiero, di cui Hegel costituisce un punto cardine, tesa ad affermare la necessaria implicazione tra ragione e fede – o meglio, secondo noi, un concetto di ragione che sussuma la fede come ponte metafisico, che consente all’uomo di fare il salto da vivente a pensante e di pensarsi come Individuum metafisico: è dell’ultimo Carabellese la felice espressione di “uomo pensante che vive”[69]. In questo senso la concezione varischiana di una molteplicità irriducibile di soggetti metafisici può essere vista come un primo stimolo in questa direzione.

Nonostante la concordanza di Varisco col neoidealismo sull’astrattezza della concezione positivistica del fatto e dell’uomo, egli nondimeno reputa che il neoidealismo abbia  sosti­tuito a tale astrattezza quella del soggetto universale come autocoscienza, anch’essa da confutare ponendosi sul terreno della  concretezza dei soggetti particolari. Ma ciò che rileva Carabellese distinguendosene è che sia per l’idealismo oggettivo di Varisco sia per l'idealismo soggettivo la  realtà trovi  il proprio principio in un Soggetto assoluto: Varisco identifica il Soggetto assoluto con Dio[70], mentre nella polemica carabellesiana contro l’idealismo soggettivo tale identificazione del Soggetto universale con Dio è negata,  in quanto il Soggetto è sempre in rapporto a qualcos'altro  da  sé, l'oggetto, sia pure intrinseco, per cui il Soggetto universale verrà ad essere, nell’ultimo Carabellese, uno dei gradi dell’Essere nel circolo Dio Io, ma è da distinguere sia dal Principio sia dall’Essere.

Questa concezione varischiana di Dio come Soggetto universale porta Varisco, secondo Carabellese, a perdere l'importante acqui­sizione  della  pluralità dei  soggetti  che  convengono nell'unicità dell'oggetto – e quindi in qualche modo anche a sconfessare il suo idealismo oggettivo -, perché  la  sua  esigenza  religiosa   trova espressione nel concetto di Dio come Persona trascenden­te, concetto che Carabellese ritiene una  sovrastruttura derivante  dalla matrice cattolica di Varisco, il  quale mira  ad un accordo[71] tra pensiero filosofico  e  dottrina religiosa[72]. La trascendenza di Dio come Persona  è per Carabellese una questione di fatto che si ritrova  nelle religioni  positive, e non una questione di diritto  che procede dall'essenza della religione, essenza che impor­ta invece l'immanenza di Dio nella  coscienza dei singoli soggetti.

In definitiva, se Carabellese si pone in sintonia con la preoc­cupazione  varischiana  di salvare la  molteplicità dei soggetti nell'immanenza della coscienza, al tempo stesso nella polemica con Carlini del ‘36 nega[73] di essere mai stato varischiano puro come Carlini vorrebbe, perché, al di là del forte apprezzamento per la dottrina varischiana della soggettività, del maestro non ha mai condiviso fino in fondo né lo gnoseologismo né l'esigenza di giustificare la  dottrina e la rivelazione cristiane: egli si sente piuttosto come colui il quale ha proposto una nuova interpretazione  di Kant  sotto motivi rosminiani al fine di  costruire  una nuova critica, la critica del Concreto.

Ma nonostante ciò, si può affermare che la  concordanza tra il pensiero di Varisco e  quello  di Carabellese  non si  esaurisce nella  comune  concezione dell'idealismo  oggettivo,  teso ad affermare  l'imma­nenza dell'Essere nella coscienza come  realtà  dell'oggetto di coscienza  nel mentre dichiara la pluralità dei soggetti,  ma  si  ritrova  anche  nella  considerazione dell'imprescindibilità  del  rapporto tra  metafisica  e gnoseologia, come si è qua e là sottinteso: "La  filosofia, per il V., [...] è dunque metafisica fondata  sulla gnoseologia"[74]

Al di là dell'influenza dei maestri Masci e Varisco,  Carabellese sviluppa  il proprio pensiero confrontandosi con  alcuni pensatori  del  passato: oltre Kant, Rosmini,  Spinoza[75], Cartesio[76] e Sant'Agostino,  cui  si richiama con approfonditi studi tematici e con originali reinterpretazioni di storia della filosofia.

Sull'interpretazione  carabellesiana  di  Cartesio,  che meriterebbe uno studio a sé, diremo solo che Carabellese vuol avviare una riconquista del cartesianesimo, secondo lui  offuscato nella sua scoperta perenne  dal  pensiero postkantiano,  che ha falsamente interpretato il  “cogito ergo  sum” come affermazione dell'autocoscienza  e  come negazione  sia della singolarità dell'io che  della  sua pluralità  nel  noi, dando adito  alla  filosofia  dello gnoseologismo  come negatrice della singolarità e della pluralità  dell'io. Ma soprattutto la filosofia del conoscere ha tralasciato il  piano ontologico della scoperta cartesiana, da interpretare nel senso dell’oggettivismo immanentistico e dunque della filosofia dell’essere. La scoperta perenne di Carte­sio, infatti,  obliata dal cartesianesimo tradizionale,  consiste nell'affermazione cartesiana dell'immanenza  dell'Essere in sé nel cogito. Il sum del cogito non è una  deduzione sillogistica,  ma proprio l'esigenza stessa del cogito nel  suo  essere partecipe  della  sostanza  spirituale, l'Essere  in sé, Dio. Così Carabellese può dire  che  il cogito ergo sum è in realtà affermazione  dell'argomento ontologico, nella trasformazione dell'evidenza da regola di  verità  in regola dell'essere: "[...] l'idea  di  me richiede  a  sua  condizione l'idea di  Dio.  Perciò il cogito  primo e integrale di Cartesio è il  cogito  Deum [...]  <<io penso>> ed <<io esigo di essere>>  sono  per Cartesio la stessa cosa [...]"[77] Con Cartesio, in  altre parole,  si  ha  la scoperta  della  spiritualità  della sostanza  e della sua immanenza in me pensante, e  l'ab­bandono definitivo della sostanzialità inerte e passiva: il valore di Cartesio non è quindi in campo gnoseologico ma in campo metafisico.

Ma, assieme a Kant, è Rosmini in particolare, dalla tesi di laurea in Filosofia sino al riconoscimento  esplicito  del 1936, che Carabellese sente come suo maestro[78]. Egli vede   in  Rosmini  lo  sviluppo  in   senso   oggettivo dell'apriori kantiano, sviluppo che consente alla  filo­sofia   di  uscire  dallo   gnoseologismo,   imbrigliato nell'opposizione tra conoscere ed essere, e di approdare al  pensiero  dell'essere. Ciò che  interessa  in  primo luogo  a  Carabellese della filosofia  rosminiana è, come si è già visto nella polemica con Gentile,  la centralità  e l'oggettività sostanziale dell'idea  dell'essere,  che gli fornisce la possibilità di opporsi al  soggettivismo e di aprirsi all'oggettivismo, sia in campo gnoseologico che in campo metafisico.

Ma per comprendere a fondo il rapporto che lega Carabel­lese  a  Rosmini è necessario  inserire  l'ontologismo critico carabellesiano all'interno  del  più  generale dibattito  riguardo al rapporto tra critica e  ontologi­smo.  A  questo proposito è illuminante  il  quadro  che viene  fuori dagli Atti del XIV Congresso  Nazionale  di Filosofia del 1940[79]. Dalle prime relazioni  contenutevi, in particolare di Arturo Beccari[80] e di Gustavo  Bontadini[81],  si  comprende come nel  panorama  della  filosofia italiana  dell'epoca  il nuovo  sistema  di  Carabellese ormai  suscitasse non poco interesse, e  addirittura  un nutrito  dibattito  di cui questi Atti  rimandano  solo l'eco,  perché lo si vedeva come una strada  alternativa allo  sterile  confronto  tra neotomismo da  un  lato  e neoidealismo dall'altro. Lo stesso Carabellese  consape­volmente si poneva come terza via tra realismo e ideali­smo in grado di superare la scissione e di rinnovare  la filosofia italiana, riaccendendo, attraverso la  ripresa di Rosmini, l'interesse verso l'ontologismo[82]. Ontologismo  peraltro  non  ortodosso,  quello  di  Carabellese, perché  mediato  dalla  critica  kantiana:  ontologismo critico[83].

E' dalla lettura di tutte le relazioni che compongono la seconda  sezione  del Congresso, ma  in  particolare  di quella  già  ricordata  di Aldo Devizzi  su  un  critico dell'ontologismo,  Padre Matteo Liberatore[84],  che  viene fuori il quadro dei debiti teorici di Carabellese  verso questa  corrente, quadro in grado di gettare luce  sulla connessione carabellesiana tra gnoseologia e  metafisica e dunque sulle matrici profonde della sua filosofia. Ben prima  di  Carabellese,  lo sfondo  della  polemica  tra neotomismo  e  ontologismo riguardo  alla  metafisica è costituito dalla concezione dell'Assoluto,  trascendente secondo gli uni, immanente e perciò passibile di condur­re  al  più  rigoroso panteismo secondo  gli  altri.  Ma questo argomento di carattere squisitamente metafisico, implicando il problema del modo in cui è possibile un rapporto tra l'uomo e l'Assolu­to,  veniva a collegarsi al problema  della  conoscenza, trasponendo  così la questione sul  piano  gnoseologico. Gnoseologia  e metafisica risultavano così  strettamente collegate,  e il terreno di scontro solo  apparentemente neutro  tra neotomismo e ontologismo diveniva la  teoria della conoscenza, e in particolare la teoria dell'astra­zione.

Fondamento dell'ontologismo infatti può essere  considerata  l'affermazione  che  tale rapporto  tra  l'uomo  e l'Assoluto è, attraverso l'intuito, assolutamente  imme­diato e positivo[85]. Da qui discende che il soggetto cono­sce  il Vero in sé, Dio, immediatamente, e le cose  solo mediatamente, ossia tramite le idee. Queste non sono  un prodotto dell'astrazione conoscitiva del soggetto,  come invece sostiene il neotomismo, ma sono viceversa emanazioni di  Dio. Il passo a considerarle gradi dell'Essere  pan­teisticamente  inteso, e a identificarle con Dio  in  un assoluto  immanentismo,  era  apparentemente breve. Come  si  vede,  la questione delle idee o universali e della loro  origine, di  carattere apparentemente gnoseologico, finiva  col  ri­guardare  la stessa struttura dell'Essere, divenendo  di pertinenza  della metafisica. La teoria  dell'astrazione diventava  centrale per la stessa questione della  crea­zione: se le idee sono gradi dell'Essere divino, non si può parlare di creazione ma di emanazione, che nei suoi gradi più bassi coinvolge le cose stesse.

A questa interpretazione dell'astrazione come  immanenza delle  idee  nella conoscenza tale che la  conoscenza  è conoscenza di idee si oppone il neotomismo: le idee sono non oggetto ma mezzo della conoscenza. L'astrazione  non trova  l'universale immanente nel soggetto  come presenza intuitiva di Dio, ma lo produce appunto  per astrazioni  successive dovute all'intelletto, in cui Dio è  il lume della conoscenza.

Il  richiamo a questa polemica sull'astrazione, oltre  a chiarire che la connessione carabellesiana tra metafisi­ca e gnoseologia si inscrive in uno scontro tra neotomi­sti e ontologisti che precede la filosofia di Carabellese, è utile perché consente di mettere in  evidenza  i punti di maggiore concordanza tra l'ontologismo  critico e  l'ontologismo in generale. Anche per  Carabellese  il rapporto  tra l'uomo e Dio è, agostinianamente,  intuito immediato  e  non conoscenza mediata: chi  pensa,  pensa Dio,  afferma Carabellese. Dio dunque è Oggetto  della  coscienza,  Oggetto puro che fonda non la sola  conoscenza ma la coscienza. Dietro questa conoscenza intuitiva  e immediata di Dio sta la conoscenza discorsiva e mediata, che  si qualifica come sforzo, inconcluso in quanto  non solo  l'esperienza  ma anche la  speculazione  può solo lambire, mai possedere, l'Idea, che pure resta l'Oggetto primo della nostra intuizione.

In quest'accordo con la tesi fondamentale dell'ontologi­smo Carabellese si ricollega a Rosmini, sebbene  secondo Dezza  questi,  fin dal 1845, si opponesse  a  una  tale definizione, quella di ontologismo, per il suo pensiero. Anche  in  Rosmini il punto di partenza e il  fondamento del sistema metafisico è il problema gnoseologico  della formazione dell'universale. Quando noi con  l'astrazione ricaviamo  un'idea  generale, contenuta in  una  nozione particolare  da  cui l'abbiamo  astratta,  non  compiamo un'operazione di produzione di quell'idea: questa è infatti già contenuta nella nozione particolare, e da noi  solo riconosciuta.  Ciò  vuol  dire che  non è l'astrazione come operazione dell’intelletto l'origine  dell'idea universale. Anche nel giudizio,  il secondo modo in cui possiamo formare le idee universali, l'idea è già  presente, dal momento  che  il  giudizio stesso è connessione a un soggetto di un'idea universale sotto  forma  di  predicato. E'  necessario  dunque  che esista  almeno  un'idea universale  prima  di  qualunque giudizio e di qualunque conoscenza: l'idea  dell'essere, innata e intuitiva. La conoscenza di tale idea  dell'essere è, come si è detto nella polemica Carabellese-Gentile, la percezione intellettiva, la cui teoria Rosmini espone  nel  Nuovo saggio sull'origine  delle  idee, del 1830. Come si vede, l'analisi rosminiana della conoscen­za ha condotto a ridurre il numero degli elementi forma­li  e  a priori che fondano la conoscenza  universale  e necessaria  per  Kant: vi è un'unica idea a  priori  che precede  l'esperienza e fonda la conoscenza, idea  inde­terminatissima,  universale e necessaria. Questa idea  è oggettiva  e non soggettiva in senso kantiano,  ossia è innata nell'uomo per volere di Dio ab aeterno. L'oggetto del  pensiero è l'essere, nelle tre  forme  dell'essere ideale,  reale e morale. L'essere ideale, oggetto  della gnoseologia  -  gli altri sono  oggetto  rispettivamente della metafisica e del diritto e della morale - è l'essere possibile, forma a priori che si unisce alla  mate­ria  a posteriori data dalle sensazioni  costituendo  la sintesi  a  priori che porta alla  conoscenza  dell'ente reale. L'idea dell'essere consente il realismo gnoseolo­gico,  ossia l'oggettivismo della conoscenza che supera il  soggettivismo kantiano, e dunque il  rischio  dello scetticismo che quello lasciava aperto: essa è di natura divina, ossia creata da Dio, ma non si identifica con Dio, che rimane Persona assoluta e non è l'ontologizza­zione di un concetto.

Non è possibile né utile qui addentrarci  ulteriormente nell'analisi  della gnoseologia rosminiana, dal  momento che crediamo di avere sufficientemente messo in luce  in essa  il legame con la metafisica. Per approfondire  ora il  posto che essa occupa nel pensiero carabellesiano  a partire dalla tesi di Laurea in Filosofia, riferiamoci a ciò  che  Carabellese stesso scrive nel  saggio  Da Cartesio  a  Rosmini   dedicato  a  riproporre   Rosmini all'attenzione filosofica[86].

La  gnoseologia rosminiana interessa a  Carabellese  per uscire  dalla filosofia del conoscere e  approdare  alla filosofia dell'essere, rimettendo la speculazione  sulla strada maestra della metafisica. Il problema di  Rosmini non è il problema gnoseologico dell'origine delle  idee, come farebbe pensare il titolo dell'opera rosminiana del 1830:  sarebbe  ancora fondarsi  sulla  distinzione  tra essere e conoscere, ponendo l'essere fuori dal  conosce­re,  e dunque riproporre una gnoseologia che  presuppone l'ontologia e da essa  separata. Un'ontologia  tradizionale ferma a Cartesio e Locke  che non  si  è accorta della lezione di Kant, dunque con  radici  storiche limitate.  Ma il "Kant già  interpretato  dall'idealismo tedesco  postkantiano che Rosmini trova" è il Kant  che, di  fronte al dubbio humiano sulla verità,  riprende  la "certezza  cartesiana" per ridurla a verità  fenomenica, aprendo  così la strada all'assolutizzazione  dell'espe­rienza e all'eliminazione della cosa in sé: alla filoso­fia  del conoscere. Secondo Carabellese, Rosmini, pur riconoscendo a Kant il merito di aver dimostrato la  possibilità della matematica  e della fisica come pura scienza a  priori, ha lasciato aperta la strada allo scetticismo nella conoscenza, non eliminando le obiezioni di Hume, poiché ha tralasciato di dare soluzione al problema della verità del singolo fatto nei suoi modi e nei suoi perché. Mentre Kant non dà ragione della aposteriorità ma solo  dell'apriorità della conoscenza, la teoria della  percezione intellettiva  di Rosmini vuole dimostrare la verità da un lato dell'atto percettivo, dall'altro della scienza sperimentale.  L'esperienza  dei  fatti nella loro  singolarità  non è soltanto  il  post e il prodotto della  scienza  fisico-matematica nella sua apriorità, ma è anche il necessario presupposto di questa, ciò da cui questa trae alimento e problemi, la sua prima base – qui ritorna il rapporto tra coscienza comune e scienza (tra sapere e conoscere). La scienza non è soltanto la pura scienza  razionale  di Cartesio, ma è anche  la  scienza sperimentale di Galilei."[87]  La teoria rosminiana della percezione  intellettiva si prefigge di  dare  appunto dimostrazione dell’oggettività della conoscenza a posteriori, ponendo il compito di fondare l’esperienza. Ed è perciò,  questo, merito  incontestabile  di  Rosmini di  fronte  a  Kant. La sua originalità in campo gnoseologico, nel rifiuto del   dualismo   soggetto-oggetto   e della dicotomia conoscere/essere, consiste nella riaffermazione della  “positiva oggettività del conoscere umano”, ossia della possibilità che verità e certezza coincidano, che il conoscere abbia una sua validità oggettiva di scienza, contro lo scetticismo e il relativismo. Tale riaffermazione dell’oggettività della conoscenza avviene connettendo all’idealità come  forma propria  dell'essere il valore di oggetti­vità come esigenza del conoscere. L'idea dell'essere, in questa connessione tra essere e conoscere, non è più soltanto idea senza essere, secondo  la concezione dualistica dell’essere fuori dal conoscere: è l’essere ideale,  e così  oggettivo. Tale essere ideale, che si pone nella scia dell’interpretazione globale della Critica kantiana come suo sviluppo, inserisce l'essere nella coscienza e di tale inserimento dichiara l'oggettività,  "rompendo il processo di annul­lamento dell'essere" e superando l'astrattezza  dell'im­postazione  kantiana  con una concezione  del  conoscere come conoscere  concreto, ossia  sapere  "non  limitato all'uomo"  e non separato dall'essere. L’interesse di Carabellese verso tale teoria consiste perciò per un verso nel fatto che il problema  psicologico  dell'origine delle idee è superato e sostituito da quello della  fonda­zione dell'esperienza, da Kant lasciato insoluto, e per l’altro che tale fondazione consente a Carabellese anche qui di aprirsi la strada verso la concretezza dell’esperienza nel suo farsi,  tralasciando la divisione tra aposteriorità e apriorità e, nel metterle in relazione,  istituendo una circolarità tra "post e prodotto"  e apriorità[88]. Il problema è uscire dal “come se” kantiano, dalla separazione tra essere e fenomeno, per riaffermare sotto una nuova chiave più comprensiva il realismo razionale, pur nella consapevolezza che spostare in avanti il limite della cosa in sé kantiana non significa sconfiggerlo – ma uscire dai pericoli insiti in una  concezione stretta e riduttiva dell’analogia, nella direzione di una concezione positiva (non positivistica, ma postpositivistica e realistica) del fatto.

Ma l’interpretazione carabellesiana di Rosmini non si limita a considerarlo il fondatore dell’esperienza nella sua aposteriorità, poiché in tal caso egli rimarrebbe comunque all'interno della filosofia del conoscere, lasciando  da parte  e  negando la cosa in sé. Rosmini viceversa appartiene alla filosofia dell’essere, poiché considera la cosa in sé necessaria non soltanto nella conoscenza, in quanto come oggetto puro fonda la positività  dell'oggetto fenomenico percepito e con esso dell'atto della percezione -  senza cui saremmo nel campo dell'immaginazione  e  non in quello  della  conoscenza - , ma anche nell’Essere stesso, per la trasformazione operata da Rosmini della cosa in sé in Essere ideale oggetto della coscienza dei soggetti. La saldatura tra  gnoseologia e ontologia nella metafisica trova  il proprio  punto  di forza nella cosa in  sé  kantiana, interpretata non dal lato della sua inconoscibi­lità ma dal lato della sua noumenicità:  come  oggetto ideale del pensiero. La noumenicità viene interpretata come oggettività: l’essere possibile è dunque oggettivo[89]. E tale oggetto ideale che consente la connessione tra gnoseologia e metafisica, trasposto sul piano  metafisico,  diviene  in Rosmini da semplice idea di Dio Essere oggettivo, ideale nella  sua pensabilità che è inconoscibilità  nel  senso che è "più che conoscitiva", ma soprattutto  nella  sua ricchezza priva di limiti che è ine­sauribilità. In Rosmini si ritrova l’affermazione dell’Essere in sé come esigenza della Coscienza  metafisica della quale la coscienza umana è parte, e dell’immanenza dell’Essere oggettivo nell’essere soggettivo, in opposizione sia al realismo neoscolastico sia  all'idealismo postkantiano.

Con questa dimostrazione del rapporto tra essere e conoscere, che è riprendere Cartesio e Kant nelle loro scoperte  specula­tive di carattere ontologico reinterpretandoli originalmente, Rosmini da un lato si inserisce  nella  linea della filosofia italiana del Rinascimento e del Risorgi­mento,   che nega la separazione tra essere e  conoscere sul  piano metafisico e tra verità e certezza sul  piano gnoseologico,   e  dall'altro  ne  porta  a  maturazione esplicita  il  patrimonio,  emergendo  con  una  propria scoperta  che  racchiude e supera tutte  le  precedenti: l'Essere ideale unico come Oggetto puro  di  co­scienza dei soggetti reali. Rosmini, in questa teorizzazione che apre un nuovo periodo alla speculazione, conduce alle  estreme conseguenze il concetto di cosa in  sé scoperto da Kant, e riconosciuto come Idea pura immanente alla coscienza dei soggetti, conservandone l'inseità e trasformandone l'ideali­tà  in una delle tre forme dell'essere[90].

Sin qui Rosmini, che dunque  Carabellese vede interno alla linea dell'idealismo oggettivo. Ma da qui Carabellese  inserisce il confronto tra Rosmi­ni   e  Kant[91]. Infatti   nell'affermazione   rosminiana dell'Essere ideale unico come oggetto puro di  coscienza Carabellese intravede, al di là del proclamato  antikantismo  di Rosmini, la possibilità di conciliare  Rosmini con Kant. Questa possibilità si inscrive nella  riattua­lizzazione   del problema critico che Carabellese  sente come  compito  del  suo presente  filosofico  in questi termini: "Nel  sapere come è possibile  che  io soggetto,  che ho la certezza (Cartesio e Kant),  sappia l'oggetto  che  ha la verità (Rosmini), se io  non  sono l'oggetto e l'oggetto non è io?”[92]

A monte di tale  riattualizzazione carabellesiana del problema critico, che solo  apparente­mente è soltanto gnoseologico come rapporto tra vero e certo, c'è il progetto della fondazione di  una nuova metafisica critica. Essa trova il suo spazio nella ripresa dell'affermazione kantiana dell'imprescindibili­tà  della metafisica come esigenza, e la  sua  direzione nell'interpretazione  radicale di tale affermazione  nel senso della possibilità: se la metafisica è esigenza,  e dunque  la sua possibilità è fondata, il  compito  della ragione  consiste  per un verso nel fondarla  nella  sua realtà (problema interno della filosofia nel suo statuto di scienza), per l'altro nell'"assicurarci della cosa in sé e quindi non renderci abitatori della platonica caverna” (problema esterno della filosofia nel suo oggetto principe, quello metafisico). La risposta che in ambito metafisico (con ricaduta gnoseologica) Carabellese darà a quella nuova domanda del suo presente si configura nei termini del livello dell’Essere come Soggetto-Oggetto, che, nel rapporto tra Dio e Io, si manifesta come Essere-Sapere o Concreto.

Nella riattualizzazione del problema critico mediante la  conciliazione  di Rosmini con  Kant,  tesa alla fondazione di  una nuova metafisica critica in cui è rinvenibile il percorso  personale  di Carabellese, l’idealismo concreto non è più definibile né come oggettivo né come soggettivo. Nella scoperta del Concreto infatti, afferma Semerari, l'ideale e il reale,  l'og­gettivo e il soggettivo, il particolare e  l'universale, il soggetto  e  l'oggetto, io e Dio,  il  concreto  e l'astratto,  "che la intera tradizione filosofica  occi­dentale  aveva  continuamente scisse  l'una  dall'altra, rendendole astratte e scambiate per il concreto stesso", sono  condizioni  distinte  ma non separate  di  cui  il Concreto  stesso è la concrescenza strutturale[93].

Carabel­lese supererà la separazione rosminiana delle forme dell’essere  affermando che, sebbene idealità e  realtà  siano l'una oggettività e l'altra soggettività, non è vero  che l'oggettività ideale e la soggettività reale sono  due  forme diverse   dell'Essere  concreto: esse sono condizioni intrinseche e inseparabili  dell'Essere, di cui l’una ne specifica l'unicità e l’altra la pluralità. La loro inseparabilità consiste nel fatto che esse “individuano in concreta  coscienza  l'essere, e in concreto  essere  la coscienza"[94]. Oggetto e  Sog­getti,  Principio e Termini sono non forme diverse   ma condizioni  intrinseche e inseparabili del Concreto o Coscienza, al di là del quale, come ambiente omnicomprensivo che riecheggia l’Umgreifende jaspersiano, non è nulla: infatti  "[...] l'Essere ideale, riconosciuto in sé come Oggetto,  viene ad  essere riconosciuto anche come Principio  [...]  che non  può  essere una forma a sé stante  ed  autonoma  di essere.  Il  Principio non può essere  principio  di  se stesso,  ma  deve  essere Principio  dell'altro  in  cui immane [...] e pur non è esaurito e non è esauribile  da questo  <<altro>> [....] Questa inesauribilità è la  sua trascendenza."[95] Se per un verso dunque  l'Oggetto  immane nella coscienza dei soggetti, per l'altro pure, come Principio, la trascende, e in ciò è  la sua inesauribilità: immanenza e trascendenza sono conci­liati nel Concreto: la trascendenza è nel Concreto, non dal Concreto: non vi è separazione ma articolazione e connessione dei vari livelli di ciò che l’ultimo Carabellese, togliendo la connessione-separazione dualistica tra Essere e Sapere, chiamerà Essere.

La saldatura che nel Concreto carabellesia­no è rintracciabile tra gnoseologia, ontologia e metafisica trapassa dunque nella teologia. E' allora nella kantiana idea  di Dio che Carabellese incentra il suo discorso metafisico, il cui senso profondamente religioso si rivela in questa centralità  del  problema di Dio,  visto  come  problema "unico"  della  filosofia. Ma per lui Dio,  l'idea  pura immanente  alla  coscienza dei soggetti  del  criticismo kantiano, si trasforma in Idea assoluta, metafisica: Dio è per Carabellese l'Oggetto puro immanente alla Coscien­za e che fonda questa Coscienza stessa, Dio è l’Idea dell’Essere.

Ma i debiti di Carabellese verso Rosmini non si limitano alla fondazione  dell’esperienza nella sua concretezza e alla concezione dell'Essere ideale unico  come  Oggetto puro  di coscienza. E’ anche la concezione rosminiana della soggettività e quella della realtà che influenzano Carabellese. In Rosmini la pluralità dei soggetti costituisce la forma reale dell’Essere, la realtà. Tali soggetti plurimi sanno intrinsecamente l’Essere ideale, sono “senzienti” (lo sentono), e perciò sono intelligenti, dal momento che l'Essere ideale costituisce la loro intelligenza.[96]. Il  pluralismo soggettivo  che  già  in Varisco costituisce un innalzamento al piano  metafisico dei soggetti nella loro pluralità, in Rosmini si defini­sce  come  unica forma di realtà  dell'essere: qui ci sembra di poter dire che il termine realtà è inteso in senso forte di Wircklichkeit.  L'essere reale  - la realtà - è soggettività plurima che  ha  per Oggetto unico l'Essere ideale, loro fondamento e  fonda­mento  del  loro convenire.  Rosmini  approfondisce  per Carabellese  quella concezione della  soggettività come singolarità plurale  che  già  il  Cristianesimo  aveva "scoperto e messo in valore" e che Cartesio aveva  messo in luce come pensante, ma nel contempo ne sottolinea  la realtà, che Carabellese allargherà al di là dei viventi. Il senso forte da dare alla parola realtà si evidenzia quando Carabellese afferma che la soggettività è reale nel momento in cui, dicendo “io”, ciascuno  di  noi, riconoscendo implicitamente piuttosto che negare l'alterità dell'essere e il suo Principio ideale, si individua all’interno di un’organica  individuazione   molteplice  di  quel Principio  unico. La soggettività reale non è dunque né Principio né  prodotto,  ma potenza agente, attività sapiente e pensante, pensante perché sapiente e sapiente perché pensante: l’individualità irripetibile che Carabellese chiama soggetto reale – e che è reale quando agisce pensando a partire dal suo sapere l’Essere a finire al suo rendere possibile la manifestazione dell’Essere, potremmo dire la Ragione in sé e per sé - è teosoficamente, sulla scia di Rosmini, potenza agente. Tale potenza agente, nel Concreto, è sempre per un verso sapere in comunione (noi sappiamo, Sabarini dirà cum-scire[97]), ossia sapere nella coscienza relativa o alterità concreta, per l’altro sapere nel suo Principio assoluto come esigenza. Questo sapere orizzontale e verticale permette a Carabellese di criticare l'esistenzialismo: “mio Principio non è il  nulla, bensì  l'ideale  Essere in sé, mio atteggiamento  non  è l'angoscia, bensì lo sforzo."[98], nella certezza del raggiungimento della positività dalla quale pure proveniamo. Potremmo aggiungere che questa certezza fideistica, e dunque apparentemente solo sentimentale e perciò irrazionale, si illumina di verità razionale nel momento in cui, con quello stesso sforzo del pensiero che il sapere richiede come esigenza della coscienza per l’attuazione della Coscienza, noi raggiungiamo un più alto, e al tempo stesso più profondo e più largo, livello di coscienza di quello stesso sapere: in quel momento in cui il livello si fa superiore la razionalità della certezza si rivela, e tra la certezza e la Verità il confine si assottiglia, la distanza si accorcia: noi, che siamo essere spirituale, come potenza agente abbiamo compiuto, agendo realmente nella realtà e conoscendo realmente (ossia razionalmente) la verità di quella stessa azione (diversa dalla causa originaria come dal fine futuro, che Carabellese vede come altrettanto oggettivi della verità, potremmo dire, nella coincidenza reale di soggettività e oggettività – la sola concreta - soggettivo-oggettivi, ossia razionali) un altro passo verso l’attuazione del nostro essere razionale. E contemporaneamente un altro passo nel sistema della Ragione e verso la sua attuazione: ecco perché e quando la storia e il progresso si fanno Storia e Progresso nell’Aufhebung, ossia quando c’è coincidenza tra Vero e certo.

Il progetto carabellesiano di pluralizzazione e innalzamento del soggetto ad un livello metafisico avviene nella radicalizzazione del concetto di soggetto sia di Varisco che di Rosmini che di Kant. In tale radicalizzazione il soggetto, non più soltanto astrattamente epistemico, non è riconoscibile nemmeno semplicemente come uomo, ma si pone come pensante-che-vive, ossia tale che include, oltre i credenti e gli uomini in generale, anche coloro i quali, nella loro individualità molteplice, ci attorniano col loro spirito. Che cosa Carabellese intendesse per pen­sante-che-vive appare chiaro da questo passo, in cui si riferisce all’indispensabilità della filosofia e dei filosofi: "E' dunque di pochi questo specialissimo atto del meditare puro, che importa rinuncia alla propria attualità di persona viva tra i vivi del proprio tempo, per assurgere a persona concreta  tra i vivi di ogni tempo [...]"[99] Qui Carabellese oppone all'attua­lità dei vivi la concretezza dei vivi di ogni tempo, ed è su questa concretezza che deve concentrarsi la nostra attenzione: concretezza che appartiene agli spiriti "vivi di ogni tempo", spiriti eterni che non nascono e non muoiono, eterni ab aeterno e in aeternum, ossia dall’inizio alla fine dei tempi. Infatti, in altro luogo, limitando in qualche modo l’oggetto della filosofia, che nella sua ultima speculazione è l’Essere e non semplicemente lo spirito temporale nel quale l’Essere si attua, Carabellese afferma: "[...] lo spirito è eterno, e della filosofia oggetto è proprio lo spirito in quanto eterno [...]. La filosofia perché è riflessione sull'Assoluto, può scoprire, non può e non deve creare: sarebbe la sua una creazione dell'Assoluto."[100] E, nel sottolineare la distanza tra il vivere temporaneo e l’essere assoluto ma temporale dello spirito, riecheggiando inoltre la fichtiana Missione del dotto, afferma: "[...] i pochi chiamati, con una forza che trascende ogni loro limitata velleità di persone temporanee [...].: i pochi non scelgono ma sono scelti a questa missione che è il fare filosofia, il meditare, e la forza del loro spirito trascende ogni loro limitata velleità di persone temporanee."[101] Ma dove è veramente chiaro questo statuto metafisico dello spirito che oltrepassa l’esperienza empirica nell’esperienza metafisica è in questa frase, in cui sottolineamo il ruolo della visione come esperienza se non sensibile, e dunque posta sulla via della sperimentazione ripetibile, dell’immaginazione: "Se v'ha una caratteristica del filosofare, è quella di occhi aperti e fermi che non battan ciglio di fronte alle più sbalorditive visioni. [...] Se questa visione è il proprio dissolvimento [...] procurato dalle proprie mani, visto chiaro coi propri occhi: non v'ha infatti altri occhi che possano vederlo."[102]

 

6. Carabellese interprete di Kant

 

Torniamo ora all’argomento principale di questo saggio, l’asse Kant-Hegel-Carabellese, e confrontiamoci più da vicino con Kant. Il  ripensamento del kantismo, come si è intravisto sin qui affatto tangenziale e ellittico rispetto all'itinerario carabel­lesiano, impegna Carabellese per un lungo arco della sua meditazione filosofica, sino a farlo sentire, si è ricordato, allievo di Kant. Esso è condotto sin dagli anni Dieci e poi con costanza dagli anni Venti, e, come si è detto, consente agli storiografi di porre Carabellese come una delle voci del versante italiano della Kant-Renaissance, che è  tra i motivi per cui Carabellese è rimasto nella storia della filosofia del Novecento italiano, conosciuto anche da  studiosi che non si occupano specificatamente della sua opera. Ma ci è sembrato di poter mostrare sin qui che il suo ruolo nella storia del pensiero è molto più complesso.

Interprete di Kant dunque ma non disinteressato, bensi mirato all'esigenza della costruzione di una nuova metafisica critica la cui possibilità Kant aveva aperto con la critica non della metafisica, ma delle metafisiche esistenti al suo tempo. Il problema del rapporto soggetto-oggetto, centrale nella gnoseologia kantiana, rimane centrale anche nell'ontologismo criti­co. Ma avviene una trasposizione di piano dalla gnoseo­logia alla metafisica: il rapporto soggetto-oggetto viene infatti reinterpretato da Carabellese in termini onto-teologici. In questa trasposizione l'oggetto divie­ne come si è visto l'Oggetto, che in una progressione che attraversa l'arco dell'intera produzione carabelle­siana assume via via il significato di condizione di possibilità degli oggetti in generale dapprima in termi­ni gnoseologici di condizione di possibilità della loro conoscenza da parte del soggetto e poi proprio come condizione di possibilità dell'essere degli enti, dunque in senso specificatamente ontologico. L’obiettivo implicito è quello di dare decisamente forma nuova per un verso al concetto di Assoluto o Dio (problema di contenuto o oggetto della filosofia come filosofia prima, in questo senso problema “esterno” della filosofia) – sebbene anche l’ultimo Carabellese tratti questo tema in modo, più che puntuale, articolato, se è vero come si è detto che l’Assoluto è in lui ancora triadicamente Idea-Sostanza-Principio, e non tematizzato in sé, almeno nelle opere teoretiche -, e per l'altro di dare centralità al problema teologico come problema "unico" della filosofia (problema di metodo e di statuto della filosofia come filosofia prima, in tal caso problema “interno”). In questa trasformazione da condizione di possibilità della conoscenza a condizione di possibilità dell’essere e più ancora in condizione di possibilità tout court, in cui nemmeno la distinzione essere-conoscere è conservata, bensì superata o tolta, come nel progetto di Carabellese – e la stessa impostazione trascendentale kantiana, con la sua stessa terminologia, sarà se non abbandonata, molto meno esplicita - , l'Oggetto diviene l'Unico, che, in quanto condizione di possibilità apriori-aposteriori  (realtà Uno-Tutto[103]) dell'essere degli enti – dove per enti si intende anche in modo più complessivo i viventi e i pensanti -, è Dio: il rapporto tra Essere e enti si configurerà nella fase metafisica nei termini di manifestazione.

Ma già ora concetti di matrice kantiana  che appartengo­no alla filosofia del conoscere vengono da Carabellese interpretati in chiave metafisica a partire dalla ripre­sa di quel concetto di cosa in sé che anche nella filo­sofia del conoscere di Kant denotava un'apertura metafi­sica. Poiché poi tale concetto di cosa in sé viene radi­calizzato, lascia il suo posto di concetto-limite all'interno della filosofia del conoscere per assumere il significato di fondamento ontologico all'interno della filosofia dell'essere: è il limite assoluto, la cosa in sé per eccellenza, che distingue, fondando tale distinzione, l’Essere dagli enti – l’ente è ente perché l’Essere è cosa in sé, seppure all’infinito e all’infinito manifesta. Nel momento in cui la cosa in sé come limite assoluto cade, l’Essere e l’ente si riuniscono coincidendo: si ha la fine della manifestazione dell’Essere, il ritorno dell’Essere a se stesso.

E poiché tale fondamento ontologico rappresentato dalla cosa in sé è interpretato non in senso relativo come fondamento del fenomeno, ma in senso assoluto come fondamento dell'essere dell'ente di cui il fenomeno, seppure realisticamente inteso, è solo la prospettiva empirico-soggettiva, viene a coincidere con Dio. Qui avviene la saldatura con l'altro interesse fondamentale di Carabellese nella costruzione di una nuova metafisica, che ha radici nella sua formazione.

  

7. Il problematico rapporto con la cultura cattolica: Dio come problema

  

Da una lettura attenta all'itinerario di pensie­ro condensato nella bibliografia vista nel suo apparire storico-biografico emerge l’interesse carabellesiano, precoce e fissato dalla sua stessa formazione seminariale[104] , verso questioni concernenti la religione e in particolare il cristianesimo e il cattolicesimo[105], e precisamente riguardanti, in una prima fase, soprattutto i rapporti tra Stato e Chiesa[106] - quindi questioni di potere e di autonomia dello Stato laico nei confronti della Chiesa cattolica [107] -, e in una seconda fase, quando il fervore giovanile si era ormai dipanato in un progetto articolato riguardante una nuova metafisica, e dunque una nuova concezione di Dio, appunto incentrati sullo spostamento di interesse da questioni seppur sostanziali, come quelle di potere e di autonomia tra Stato e Chiesa, diremmo "esterne" nel senso di non teoretiche, a questioni di più stretta pertinenza teologica come appunto il proble­ma di Dio e il sincretismo sinergico tra filosofia e teologia.

Dio è problema in Carabellese a partire dal problematico rapporto con la cultura cattolica. Laddove per un verso la sua formazione ha concorso allo sviluppo di quella fede su cui si fonda e di cui si nutre il suo ininter­rotto anelito a investigare l'Essere: Carabellese lo dice Dio, Oggetto, Principio, Unico, Idea, Essere, Assoluto, nella progressione del suo pensiero, dando a ciascuno di questi termini una precisa sfumatura di significato e un preciso compito di risol­vere costellazioni di problemi che via via si presenta­vano nella costruzione della metafisica critica. Per l'altro verso pure questa speculazione cara­bellesiana sull'Essere vuole porsi fuori dai confini ristretti della trasposizione sul piano filosofico dei dogmi del cattolicesimo di cui vede un esempio nell'at­tualismo gentiliano (e infatti da parte cattolica gli verranno le critiche più brucianti), per rimanere salda­mente ancorata in quella regione del pensiero in cui hanno diritto di cittadinanza solo le regole della ragione e il principio della libertà. Ma Carabellese, nonostante lo sforzo di individuare nel ritorno alle radici indoeuropee dell’Occidente la matrice e la manifestazione del suo senso religioso - sforzo che lo situa in consonanza se non in anticipo rispetto ad altrettali ricerche storico-filosofiche (dove i due termini sono da intendere sia scissi sia in correlazione) del Novecento europeo nel campo del religioso – a nostro parere rimase sostanzialmente cristiano, nel senso che storicamente non seppe andare, almeno nei contenuti oggettivi della sua filosofia diversi dalle spinte ideali del suo pensiero (che premevano nella direzione della kantiana Chiesa invisibile), oltre  il cristianesimo come punto di arrivo più alto del pensiero, in ciò limitandolo all’Occidente stesso, e in particolare all’Europa. Se è vero in altre parole che la storia sta mostrando a noi soggetti della post-contemporaneità la costruzione dell’unificazione in vista della sintesi delle tre religioni monoteiste, lo sforzo storico-filosofico cui è chiamata la scienza è quello di anticipare la storia anche del superamento del dualismo Oriente-Occidente nell’utopia possibile  dell’Assoluto nella storia, laddove se nella prima ricorrenza essa sta a significare la storia degli uomini, qui è intesa (anche) in senso assoluto, sebbene con l’espressione “Assoluto nella storia” non si faccia alcun riferimento ad attese millenaristiche, bensì alla Ragione che si invera.

Ma in Carabellese Dio è problema anche e soprattutto per le incongruenze e per i rischi non sempre risolti che la sua concezione metafisica si porta dietro. Tra le prime, la sua appa­rentemente paradossale tesi dell'inesistenza di Dio, di cui diremo, si risolve non appena si guardi al significato che Carabellese dà al termine esistenza. Tra i rischi, il panteismo, che pure gli è attribuito nel rapporto tra il Concreto e Dio, è solo apparentemente fugato affiancando alla concezione dell'immanenza di Dio come Oggetto puro quella della trascendenza di Dio come Principio, dal momento che si è detto immanenza e trascendenza sono da considerarsi comunque all’interno della Coscienza in implicazione reciproca. Per fugare il panteismo, o almeno una sua forma non razionalmente concepita, è infatti necessario ricorrere – nonostante la ripetuta presa di distanza di Carabellese da Hegel – proprio al pensiero hegeliano e in particolare al concetto di Idea come Dio prima della creazione quando si esaminino i vari livelli dell’Essere – il concetto di Principio è infatti insufficiente proprio perché interno alla Coscienza intesa come Concreto, pur se da Carabellese introdotto al fianco di quello di Oggetto anche per rispondere alle accuse cattoliche di ateismo - quando si esaminino le diverse latitudini del concetto di Coscienza, e a inserire il panteismo carabellesiano all’interno di una visione emanatistica dell’Essere di matrice neoplatonica cui non sia estraneo l’apporto della metafisica hegeliana.

La strutturazione della metafisica critica coinvolge pertanto tutta una serie di questioni che la sola ragione teoretica come strumento conoscitivo non può risolvere, e che implicano, oltre a questa ragione,  necessariamente l'apporto della fede. La tesi carabellesiana della necessaria connessione tra ragione e fede, che egli esplicita in rari luoghi della sua opera, è peraltro deducibile con rigore dalla sua stessa concezione di una necessaria connessione, nel soggetto, tra ragione sentimento e volontà. La medita­zione filosofica allora, sebbene da Carabellese ancora distinta dalla meditazione religiosa, condivide con essa l'appello della fede. In essa la fede rappresenta uno strumento euristico ulteriore, indispensabile per affrontare questioni metafisiche che, sintetizzabili nelle tre domande kantiane, prendano a modello la risposta hegeliana. Ma non solo: se ciò comporta un oltre­passamento dell'esperienza empirica nell’esperienza intellettuale guidata dalla ragione, si pone il problema dell’esperienza razionale, che richiede un allargamento del concetto di esperienza e un allargamento del concetto di ragione sino alla loro possibile coincidenza, dal momento che qui si fa riferimento comunque alla conoscenza sintetica, e ci si riferisce comunque alla possibilità di una sua dimostrazione razionale: ciò nelle scienze dello spirito, dove qui s’intende in particolare la filosofia, è ancora da fare. In questo senso il riferimento all’intuizione intellettuale hegeliana è primario, ma anche il riferimento carabellesiano a Rosmini come a colui il quale mette l’accento sia sull’intuito sia sulla soggettività come potenza agente, come pure al Rosmini fondatore della conoscenza nella sua aposteriorità, è essenziale. Così come essenziale ci appare la sottile correzione apportata da Carabellese nella circolarità che istituisce tra apriorità e aposteriorità, correzione che ci consente di porre la questione di una scienza metafisica. Nella costruzione di questa scienza, l’oltrepassamento dell’esperienza fenomenica nell’esperienza reale, oltrepassamento voluto dallo sforzo metafisico, fa leva  su di un sapere – quello che Carabellese chiama sapere implicito fondamento della comunione intersoggettiva e risultato del rapporto immediato con l’Assoluto – che implica un concetto di ragione che coinvolga tutto l'essere dell'uomo, comportando anche la fede[108].

Intesa in senso religioso[109] ma non confessionale, la fede accompagna Carabellese lungo tutta la sua esistenza, in un rapporto spesso conflittuale col catto­licesimo, dal quale egli prende le distanze ma a cui rinuncia, anche in rapporto al modernismo, soltanto in nome del cristianesimo, anche questo da oltrepassare in una visione filosofica che lo superi. In tal modo, egli si pone al tempo stesso dentro e fuori dal cristianesimo stesso, come attesta anche la famosa polemica sull'ateismo che lo contrappone al pen­siero neo-tomistico[110], e in particolare ad Armando Carlini e al Padre Riccardo Lombardi[111], polemica lunga[112]  e violenta che lo amareggiò profondamente[113], e che ci aiuta a chiarire concetti essenziali del suo pensiero.

Nella sua formazione e teoretica e personale, prima ancora che nel suo progetto metafisico, si rinvengono elementi propri della tradizione cristiana che rendono il suo concetto di Dio ben lontano da quell'ateismo di cui pure fu accusato per la sua tesi dell'inesistenza di Dio. Questa tesi soltanto apparentemente si scontra con la centralità della riflessione su Dio che lo accompagna lungo tutto il suo percorso teoretico e con la centralità che nella costruzione del suo sistema metafisico assume l'Idea. Per comprendere infatti  perché Carabellese parli di inesistenza di Dio è necessario ricordare che l'esistenza è per Carabellese la molteplicità relativa di esseri singolari, in particolare la coesistenza di esseri in rapporto di omogeneità tra loro. Questa esistenza, o meglio coesi­stenza, implica l'alterità e la reciprocità: il dire io significa sempre che esiste un tu, altro da me ma come me, al quale mi rivolgo e per il quale, in reciprocità, sono io stesso un tu altro da lui ma come lui. E questo io e questo tu sono perciò esistenze, appunto perché legati da omogeneità, alterità e reciprocità che rendono ognuno un ciascuno, in rapporto con ciascun altro[114].

In questo contesto è chiaro allora che l'inesistenza di Dio è da intendere non come negazione di Dio, ma come nega­zione dell'abbassamento di Dio al livello della sogget­tiva reciprocità e omogeneità che rendono l'io uguale al tu in una reciproca trascendenza relativa. Se l’io trascende il tu, anche il tu trascende reciprocamente l’io: lo stesso non può evidentemente dirsi di Dio, dal momento che se Dio, nelle sue varie accezioni terminologiche e concettuali, trascende l’io pur nella sua relativa immanenza, certamente non l’io trascende Dio, che rimane, per quanto Oggetto, l’Assoluto – in Carabellese, ripetiamo, Principio-Idea-Sostanza. Questa nega­zione dell'esistenza a Dio ha allora il senso di un richiamo al sommo valore che, pur nella sottolineatura dell'infinito valore della soggettività spirituale non solo umana, Carabellese intende conservare a Dio. L'accusa di ateismo appare quindi infondata: per Carabellese Dio è, non esiste, mentre esiste Gesù, uomo in quanto incarnazione di Dio, e all’importanza della figura di Cristo per la stessa filosofia a motivo del concetto di persona e di societas cristiana ed etica in dialogo interiore ed esteriore – Carabellese attribuiva enorme valore (e viveva), oltre che al rispetto, anche al dialogo che importa la modestia -, al di là della critica costante alla trasposizione in termini filosofici dei dogmi della Chiesa[115],  egli  ricorre in più luoghi.

Ma per comprendere a fondo l'accusa di ateismo di cui Carabellese fu vittima, è necessario tralasciare le polemiche di parte, e rivolgersi invece a uno spirito  almeno apparentemente libero da fini men che teoretici, ma nel contempo conoscitore dell'ontologismo tradiziona­le della teologia cattolica: secondo Michele Federico Sciacca, negli enti finiti si ha la coppia oppositiva essenza/esistenza, per cui l'esistenza non coincide con l'essenza, che è divina. Per l'Essere assoluto invece, essenza ed esistenza coincidono, cosicché negare a Dio l'esistenza significa anche negarne l'essenza, ossia negarLo tout court. Da qui l'accusa di ateismo. Infatti la teologia cattolica, così come la medievistica, con­tempera due concetti di esistenza, l'uno coincidente con l'essenza in Dio, l'altro separato dall'essenza come negli enti finiti. L'esistenza degli enti finiti è un'esistenza non piena, empirica, particolare e determi­nata in un luogo e in un tempo, e quindi limitata e contingente.  Al contrario l'esistenza di Dio, che è esistenza non come proprietà o qualità che Dio ha, ma come  essenza che Dio è: Dio è l'Essere reale sommo, in quanto è tutta l'essenza e tutta l'esistenza[116]. Allora, secondo Sciacca, “(…) l'Essere per lui non è il Dio trascendente dell'ontologismo tradizionale, ma l'Idea teologica della kantiana Critica della ragione pura, cioè Dio come pura Idea, per cui l'Essere è nel pensiero dei singoli soggetti pensanti e non esiste in sé, perché l'esistenza è dei soggetti non dell'Oggetto unico. Panteismo, senz'altro; anzi ateismo perché è negata l'esistenza di Dio e Dio è identificato con la pura idea dell'essere, cioè con la forma stessa del pensare e al pensare immanente.  Evidentemente il Cara­bellese chiama Dio ciò che non è Dio e fa un uso tutto suo del concetto di esistenza. (…) D'altra parte, il Dio di Carabellese non è più quello della religione e della teologia [...]"[117]

Si è voluto riportare questo passo di Sciacca perché in esso è reso chiaro nei suoi motivi più profondi il concetto teologico tradizionale di Dio, con le sue ascendenze scolastiche, e dunque il rifiuto cattolico verso il Dio carabellesiano, che "evidentemente non è il vero Dio", e dunque Carabellese è ateo[118]. Il Dio carabellesiano, si disse, non è il vero Dio perché la sua panteistica immanenza contrasta con la trascendenza neoscolastica, e infatti Carabellese relativizza immanenza e trascendenza del Principio nella Coscienza, negando con ciò non tanto il Principio (e infatti rimane in tal senso, ossia a questo livello dell’Essere, creazionista, seppur solo in senso ideale e spirituale e non anche fisico – suo obiettivo era quello di sconfiggere definitivamente il materialismo), ma, a nostro parere, che il Principio sia l’Assoluto (non sto dicendo, come Carabellese non diceva, che l’Assoluto non sia Principio).

Ma soprattutto per la neoscolastica, e abbiamo visto anche per Sciacca, il Dio di Carabellese non è il vero Dio perché non è un Dio personale e creazionista, almeno nel senso tradizionale. E infatti ambedue, almeno ad un certo livello di teorizzazione e di analisi, colgono nel segno, individuando il punto della questione: Carabellese nega a Dio una natura soggettiva, il Soggetto è l’Io, e nella coppia circolare Dio Io Dio diviene Oggetto (la coppia circolare Dio Io essendo il livello di Dio soggettivo-oggettivo che è ancora leggibile, proprio per la presenza dell’Io e per la possibile lettura anche in termini gnoseologici di tale livello dell’Essere, nei termini di Persona). Ma è possibile, come si è già fatto, interpretare in un senso più profondo il concetto di Dio Persona e di Creazione, che in realtà Carabellese a nostro parere conserva, seppure appunto non in una concettualizzazione tradizionale, e dire perciò che in sostanza anche la critica più illustre, quella di Sciacca come quella della neoscolastica, non comprende a fondo la metafisica di Carabellese, perché, al di là di una possibile ignoranza degli inediti, tale ignoranza era semplicemente necessariamente dovuta all’inesistenza – era precedente alla scrittura – degli inediti stessi. E’ questione di date. Ma occorre anche dire che comunque, al di là di una possibile – fondata su fatto - interpretazione dell’ultimo Carabellese in termini trinitari, creazionistici e personali di Dio, e quindi ripetiamo ancora una volta conformi al cristianesimo nonostante la sua polemica contro l’istituzionalismo cattolico di Gentile e nonostante i termini teologici siano spostati a un tempo in avanti e indietro nella storia, Carabellese mira a superare – togliere – la dicotomia-distinzione Oggetto-Soggetto, e la sua identificazione nei termini di Persona creatrice, e infatti, pur non sviluppando il discorso, afferma che Dio è Idea, e fa riferimento anche solo raramente, pure nelle ultime opere, a Dio come Assoluto. Ciò secondo noi anche perché retroattivamente consapevole (ci si riferisce ai suoi primi studi, oltre che al metodo che lo guida) che al Dio Idea si giunge tramite l’intuizione, e che questa intuizione, che tutti implicitamente sappiamo prima ancora di saperla esplicitamente (ruolo della maieutica come dell’ermeneutica, oltre che della scienza), è nel suo grado sommo intuizione dell’Assoluto. Laddove per intuizione è da intendersi, come direbbe Carabellese sulla scia di Rosmini, una “potenza” che noi diremmo razionale, e razionalmente fondata (o meglio da fondare anche storicamente), e non meramente sensibile-sentimentale o anche intellettuale[119]. E sapere l’Assoluto è possibile, sia implicitamente che poi esplicitamente, sia singolarmente che collettivamente, perché Carabellese stesso crede fermamente, e parte, da quel rapporto immediato e diretto tra Dio e io su cui ci siamo già soffermati. In questo credere in tale rapporto, da rifondare o rivelare (è il rapporto che si rivela o siamo noi che lo riveliamo? Carabellese, e non è solo, vede un ruolo attivo nella spiritualità che fa pensare a una coincidenza di attività nel rapporto stesso: risiamo all’assioma del rapporto diretto Dio io, di cui storicamente cambia solo la forma e l’estensione anche di campo, pur sempre nello spirito che pensare è pensare Dio) storicamente – come l’ultimo Carabellese storico della filosofia inizia a fare -, e che sempre storicamente affonda le radici nell’antichità del sentimento religioso umano, e poi del rito corrispondente - Carabellese inizia il suo Disegno storico della filosofia come oggettiva riflessione pura con il rito col quale l’Athman si mette in comunicazione col Brahman -, in questo credere, sentimento, volontà, intelletto trapassano l’uno nell’altro, cosicché si può parlare più semplicemente, ma anche in maniera al contempo più complessa, di ragione, o di sapere che si attua e nel quale i confini tra filosofia e religione, più che trapassare dall’una all’altra di due distinte identità, si concretano nella metafisica sottesa a quella particolare visione teologica, che a sua volta implica una particolare visione antropologica, o più latamente, come vuole Carabellese e come la storia delle religioni prova, spirituale.

Carabellese in altre parole, pur conservando i dogmi fondamentali del cristianesimo nella loro importanza storica come patrimonio dell’umanità, e pur considerando il cristianesimo il punto limite della sua meditazione filosofica, e il punto più alto del sentimento religioso storicizzato, nel suo riportare l’Oriente all’Occidente, il brahmanesimo al cristianesimo, fondava comunque per l’epoca in Italia una nuova teologia che  metteva in discussione i dogmi fondamentali del cattolicesimo, e perciò fu attaccato.  Per quanto in altre parole riconoscesse anch’egli la figura di Cristo come colui il quale scopre la spiritualità dell'uomo, il suo essere persona,  così aprendo una nuova era per il pensiero, e anche se la Coscienza qualitativa è leggibile, pur anzi proprio nel rapporto circolare Dio Io, in termini del Dio Persona, e nella triade Essere: Dio Io in termini trinitari, la lettura della metafisica carabellesiana nei suoi elementi fondanti, e perciò “semplici”, era oltre il cattolicesimo, e fors’anche il cristianesimo, di allora. Abbiamo cercato di suggerire che era presto perché in Italia si assumessero in forma istituzionale e si riconoscessero in forma ufficiale, foss’anche di una filosofia, elementi propri dell’ebraismo, che pure Carabellese fa suoi, anche se non lo rivela. E’, questa, storia d’oggi, dell’abbandonare teologicamente e storicamente le differenze per concentrarsi sulle concordanze, e fare dell’unione, ci si scusi la banalità, una forza lungimirante di cui Carabellese può esser considerato un profeta.

Ma c’è di più, dal momento che Carabellese per un verso inserisce i dogmi del cristianesimo in una stratificazione dell’Essere anch’essa inaccettabile (insieme agli elementi ebraici), almeno ufficialmente ed essotericamente, per la teologia cattolica dell’epoca, spostando di fatto lo stesso significato dei dogmi accettati e assunti (che a nostro parere si giovano semmai di un arricchimento e di un livello più alto di “tenuta”, ossia di linearità e mancanza di aporie, di razionalità), per l’altro verso li collega nel sistema dell’Essere, almeno nelle intenzioni (visibili a partire dal Disegno) se non anche nella stesura completa del suo sistema dell’Essere, cominciata – e finita - con la manifestazione, a una visione di Dio come Brahman impersonale che solo in parte è possibile attenuare con la visione panteistica ebraica, prima ancora che greca, dell’Uno-Tutto. Questi sono a nostro parere i veri motivi che fanno dell’accusa di ateismo un’accusa comunque non vera, ma in qualche modo comprensibile, e forse, dal punto di vista cristiano, applicabile ancor oggi, poiché di fatto la filosofia di Carabellese richiede, per essere compresa, una teologia in grado di connettere all’Occidente le religioni dell’Estremo Oriente, seppure solo da un’ottica occidentale che guardi all’Estremo Oriente solo come radice e non anche come ritorno: lavoro tutto da fare.

L'accusa di ateismo allora, comunque ingiustificata in sé,  appare ingiustificata se non la si guarda stori­camente: essa sta a testimoniare la chiusura della filosofia di ispirazione cattolica della I metà del ‘900 verso altre forme della riflessione di Dio che non fossero  quelle dell'ortodossia. Il Dio di Carabellese non è quello della religione e della teologia solo se per teologia e religione si intendono – e storicamente - quelle dell'ortodossia cattolica. Infatti si potrebbe parlare per Carabellese di una teologia laica, libera dall'osservanza ai dogmi e prettamente filosofica. In questo senso Carabellese non sarebbe più solo. E in questo senso anticipa i tempi, potendosi a buon diritto considerare uno degli esponenti del Novecento filosofico non solo italiano.  Anche in questa apertura dei confini della meditazione teologica Carabellese è inattuale in senso forte, nietzscheiano[120], e fa annoverare Carabellese tra i costruttori della Chiesa invisibile, tra coloro in grado di renderla visibile non solo dal punto di vista storico (mi riferisco ai suoi studi di storia delle religioni), ma proprio, punto di partenza della storia reale,  dal punto di vista teologico-metafisico, ossia iniziando e finalizzando tali studi al concetto. Il senso della polemica sull'ateismo risiede allora nel rischio che corre ogni posizione che con coraggio si allontani dal Dio reso antropomorfo dalle religioni rivelate e dalle istituzioni ecclesiastiche di qualunque provenienza: l'incomprensione del "si dice", o anche dell’ipse dixit dogmatico che tenta di bloccare il corso ineluttabile della storia, rendendo assoluto il suo senso storico sempre relativo e in situazione. Invece la capacità razionale di Carabellese di conciliare hegelianamente gli opposti e i diversi portandone alla luce il senso sintetico – togliendoli – fu notevole soprattutto in campo teologico-metafisico – cosa non ancora sufficientemente e completamente riconosciuta, nemmeno da chi scrive, oltre che dai suoi naturali referenti religiosi e teologici, ammesso che comincino già a mostrarsi e a esistere - ma anche in campo gnoseologico e ontologico. In questo senso Carabellese fu eminentemente teologo, prima ancora che metafisico, sebbene al tempo stesso dentro e fuori dalle parti, e, poiché alla ricerca del superiore senso comune e non della divisione allora imperante, perciò accusato di ateismo. Nel momento in cui si problematizza in tutto o in parte, come Carabellese ma come anche ad esempio Jaspers, il tranquillizzante Dio-tu della religione positiva, e a questa ci si affida totalmente e passivamente senza vederne e attivarne quel futuro possibile che tralascia gli elementi di conflitto interni ed esterni (si potrebbe dire a-razionali), si affaccia prepotentemente l'accusa di ateismo per la rottura del concetto tradizionale di Dio, la cui  assoluta trascendenza viene oggettivata in Carabellese nel concetto di Oggetto puro, che appunto nega nell’immanenza, a tale livello dell’Essere, tale assolutezza della trascendenza, per cui lo stesso Principio è Principio del termine così come lo stesso Oggetto è Oggetto del Soggetto in un rapporto di trascendenza relativa che richiede l’immanenza, sebbene non di cotrascendenza, ossia reciproco, che si ha solo tra i molti io. In tal senso molto importante ci appare la categoria carabellesiana di penetratività, che sia nel caso del rapporto tra gli io, sia in quello con Dio, non è mai assoluta, ma sempre relativa: sebbene si possa dire che in Carabellese la penetratività dell’io in Dio è assoluta nel senso che l’io, come qualunque ente, è completamente penetrato da Dio, ciò non è viceversa – bisogna in altre parole porre sempre attenzione alla differenza che Carabellese pone tra reciprocità relativa e assoluta, ossia biunivoca. Probabilmente, perché ci sia assoluta penetratività di Dio nell’io, è necessaria la storia – e precisamente la sua fine, si potrebbe dire citando l’ebraismo ab nihilo ad nihilo, dando, come chiarito, valore metafisico positivo e spirituale al Nulla e al suo livello, pur senza identificarlo con l’Assoluto -, storia che in tal senso assume valore metafisico nonostante i ripetuti appelli di Carabellese contro lo storicismo, anch’essi da leggere storicamente come obiezioni utili a che lo stato della ricerca le superasse, ossia foriere di un nuovo progetto.

E non solo Carabellese fu teologo, ancor più che metafisico, nel senso di una sua preponderante vicinanza, una simbiosi, ai temi della teologia, una teologia da rinnovare e rifondare, ma fu teologo in un senso più profondo e radicale, che fa leggere il suo pensiero in termini teistici: solo in questo senso radicale del considerare la meditazione teologia, e teologia finalizzata, e impregnata, di teismo, è possibile comprendere a fondo il titolo stesso del suo Il problema teologico come filosofia. Si vuol dire che l’ultimo Carabellese, se avesse scritto su di sé, avrebbe esplicitato nel 1948 quello che era in nuce nel 1931, il teismo, inteso in senso letterale e non tradizionale, come filosofia.

Per Carabellese e il suo rapporto col cattolicesimo, reso con­flittuale dalle sue tesi contro l'esistenza – sempre negata in favore del Suo essere e in contrasto con la coincidenza neotomistica di essenza ed esistenza -, la personalità soggettiva e l’assoluta trascendenza neo-tomistica di Dio – che abbiamo visto viceversa appartenere a Carabellese, sebbene non al livello assoluto di Dio, bensì a quello della Coscienza qualitativa -, l'accusa di ateismo si rivela infondata per il  continuo rovello del suo pensie­ro sul problema di Dio, la cui concettualizzazione rende semmai ambiguo il rapporto col cristianesimo, al tempo stesso di inclusione e esclusione di Carabellese stesso, dal momento che egli include il cristianesimo in una visione più ampia, avanzata rispetto al suo tempo.

La sua concezione di Dio, proprio a partire dalla trasformazione a nostro avviso rintracciabile nel periodo critico del problema gnoseologico del rapporto soggetto-oggetto in problema ontoteologico – rapporto Soggetto-Oggetto incluso nella fase metafisica come uno dei livelli dell’Essere, non quello assoluto -, presenta alcune incongruenze, come il rapporto non chiaro, eluso dalla morte, in questo stesso periodo tra Essere-coscienza e Dio non solo come Idea-Principio- Sostanza - che egli identifica col livello dell’Essere interno alla coppia circolare Dio Io, per cui si ha la triade Essere: Dio Io, dove per Essere si deve intendere non soltanto l’Essere come Tutto, ma anche l’Essere in sé, punto zero (Idea-Principio-Sostanza prima della creazione) della coppia circolare stessa – ma anche vieppiù come Assoluto.

Queste incongruenze, dovute allo stato in fieri del pensiero di Carabellese, insieme alle oggettive distanze – superamenti – di quello stesso pensiero dal neoidealismo e dalla neoscolastica dell’epoca, non a caso attirarono a Carabellese tutta una serie di accuse speculari dai due opposti fronti, accuse che egli stesso ben sintetizzò nella formula Tra arcaismo e ateismo, titolo del breve saggio scritto nell'ultimo anno della sua vita proprio per rispondervi. Arcaismo della sua concezione di Dio, secondo gli uni, perché fortemente ancorata alla tradizione oggettivistica medievale che vede Dio come oggetto interno della co­scienza umana. Ateismo, secondo gli altri, perché tra i punti essenziali in cui si discosta dal concetto teolo­gico tradizionale di Dio vi è quello della sua non esistenza. Accuse contrarie ma che ugualmente pesavano a Carabellese, che, in accordo alla sua concezione della filosofia come sforzo inconcluso, si dedicò più volte all'approfondimento e al chiarimento del concetto di Dio nel mentre convogliava le sue ricerche storico-metafisiche sul progetto di stesura di un nuovo pensiero, di un nuovo sistema. Questa nuova-antica, “arcaica” appunto, come Carabellese andava manifestando, concezione di Dio – che andava come si è cercato di mostrare, in senso ben più profondo di quello dell’accusa mossagli,  ben prima del Medio Evo e ben oltre il cristianesimo, pur comprendendoli e sistematizzandoli, per un ritorno all’Oriente, o almeno per un inizio di sintesi tra Oriente e Occidente verso il concetto di Mondo che se non altro dal punto di vista ideale (penso in questa chiave al Web come rapporto diretto tra l’io e il Mondo) noi oggi vediamo – Carabellese la ricerca, la pensa come rivelazione (aletheia) anche per liberare il concetto di Dio, attraverso la progressiva diversificazione delle sue denominazioni, che corrispondevano ad altrettanti livelli dell’elaborazione metafisica che andava concettualizzando, da alcuni fraintendimenti e alcuni rischi in cui poteva incorrere, (non soltanto a nostro avviso) non sempre con successo anche nelle opere inedite ora pubblicate[121]. In questo senso la problematizzazione carabellesiana del concetto di Dio, che attraversa tutta la sua speculazione e in cui le polemiche giocano il ruolo positivo, per Carabellese stesso oltre che per noi, di rivelatori di incongruenze da risolvere, costituisce la necessaria premessa di un sistema metafisico in cui immanentismo e trascendentismo, creazione e rivelazione, origine e storia, essere e divenire, tempo ed eterno, spazio e infinito, si intrecciano strettamente in una visione unitaria di Dio, dell'io e del cosmo[122].

L'interesse per Kant da un lato e la formazione cristiana razionalizzata filosoficamente dall’altro, sebbene inserita all’interno di un quadro teologico che ne storicizza il senso nel mentre lo rende assoluto e, ahimé, conclusivo, porteranno Carabellese all'esplicitazione di quell'obiettivo in nuce sin dagli anni giova­nili: la fondazione di una nuova metafisica critica che supera i confini della teologia cattolica per porsi come teologia filosofica laica aconfessionale, o, più precisamente ancora – ma già, e per questo incompresa - superconfessionale o meglio interconfessionale, sebbene elaborata da un punto di vista intraconfessionale, e ad esso punto di vista nei risultati limitabile nonostante l’ampiezza del suo sguardo e nonostante la possibilità che esso stesso fornisce di oltrepassarlo con un lavoro storico-teologico diretto sia ad approfondire la radice del senso religioso sia ad ampliarne la manifestazione non, si badi, nella frammentarietà, ma, nell’incontro sincretistico ed essenzializzante della molteplicità stessa, nella direzione che l’unico senso religioso di un unico Dio si concreti in un’unica teologia – ma questa che sembra finalmente storia d’oggi, seppure solo all’interno del cristianesimo, ancora è vista e costruita dal preminente punto di vista cattolico -, l’unica religione essendo soltanto la sua forma esteriore la cui positività ritualistica è da lasciare a momenti o forme della coscienza bisognosi di solennizzare un rapporto col sacro che c’è, a mio parere, in ogni istante[123].

In questo quadro in cui si saldano in un unicum di senso a un tempo originario e conclusivo la matrice filosofica e la matrice religiosa del pensiero di Carabellese nella progressiva messa a fuoco di una nuova teologia, il 1931, con la pubblicazione de Il problema teologico come filosofia, costituisce anche per noi un momento cardine del pensiero di Carabellese, il quale prende posizione in modo specifico su questo problema. Carabellese opta qui consapevolmente, tra la filosofia e la religione, per la filosofia – da intendere qui come forma razionale che è sottesa e fonda l’espressione religiosa positiva e la comprende, ribaltando in questa comprensione la formula della filosofia come ancilla theologiae, se questa deve significare una spiegazione in termini razionali delle verità rivelate che non era nello spirito di Carabellese, come egli sottolineava continuamente[124]. Non solo: egli abbandona in modo espli­cito e consapevole il cattolico concetto dell'esistenza di Dio, mantenendo comunque la fede al tempo stesso religiosa e filosofica nella dimostrabilità razionale di Dio – si è cercato di mostrare lungo tutta questa ricerca i motivi profondi di tale abbandono nel significato reale che Carabellese attribuisce al termine esistenza, nonché come la dimostrazione razionale implichi la fede. Ma ancor più: il Carabellese maturo dichiara il problema teologico il problema unico della filosofia. In questo senso l’abbandono del teismo si colora di un accento nuovo: è il teismo tradizionale che Carabellese abbandona già a partire dal suo distacco dal maestro Varisco, non un nuovo teismo razionale e superconfessionale in cui Dio è l’Uno-Tutto, e questo è il progetto di ricerca di Carabellese che da L’Essere e il problema religioso in onore di Varisco e L’Essere e la sua manifestazione è racchiuso. Si vuole dire che il progetto dell’Uno-Tutto del teismo carabellesiano è proprio racchiuso ne L’Essere e la sua manifestazione che, sebbene inconcluso come la critica ha riportato, ossia comprendente anche la natura, è, in quanto Tutto dell’Uno, manifestazione, al di là delle critiche che si possono muovere al concetto di manifestazione e al di là della scissione presente nella congiunzione Essere-manifestazione.

Se dunque la filosofia è, nel senso più proprio, aristotelicamente filosofia prima, metafisica, - e sistema -, questa, non solo in quanto ha il suo centro nel problema di Dio, ma anche in quanto Dio nei suoi diversi livelli è l’Essere che si manifesta, è teologia. Carabellese ìdea ne Il problema teologico un nuovo concetto di Dio riprendendo le fila di tutto il suo percorso dell'onto­logismo critico, in rapporto alla nuova metafisica che voleva fondare: qui Dio è l’Uno-Tutto, per questo la metafisica è teologia. Ed è per questo che si può  a ragione parlare di una diversa teologia, non dottrinale ma laica seppur sempre cristiana, che egli consapevolmente traccia e a cui apre la strada a partire dalla centralità che abbiamo visto assumere nel suo percorso dal concetto di Dio, concetto che talvolta sfiora accenti mistici – alla mistica è riportabile la sua fede profonda, come i suoi ultimi studi storici -, pur rimanendo saldamente ancora­to a una impostazione di tipo critico e dunque raziona­le.  In questo senso a nostro parere il 1931 chiude una fase, quella dell'ontologismo critico,  e ne apre un'altra, quella della metafisica critica, che troverà espressione più di dieci anni dopo nelle dispense universitarie dei corsi 1943-48[125].

In altre parole a nostro parere la teologia come teologia dell’Uno-Tutto costituisce un salto di qualità che Carabellese compie, ma non il definitivo. Se Dio è qui l’Uno-Tutto, che nell’ultimo Carabellese verrà chiamato Essere e di cui verra stesa soltanto, e neppure completamente, la manifestazione, quest’Essere positivo che è l’Uno-Tutto è da considerare nella storia del pensiero di Carabellese ponendo l’accento sull’unità dell’Uno-Tutto, e quindi sul Tutto, sulla manifestazione, sull’Essere – anche trattato in sé come triade Principio-Idea-Sostanza – come Uno-Tutto, e non sull’Uno, ossia sull’Assoluto – come livello logico-teologico immediatamente precedente -, su cui Carabellese non scrisse. Infatti c’è da notare che ciò che segnerebbe nel pensiero di Carabellese il salto di qualità verso non più la manifestazione, seppure unitaria nel Tutto, bensì nell’Uno e in ciò che lo precede, ossia l’Assoluto, lo si dice non definitivo perché rispuntano qua e là, anche nel sistema metafisico, definizioni irrisolte di Dio inteso come l’Assoluto, che fanno pensare, insieme alla sua trattazione del rito Brahman-Athman, a un rovello carabellesiano sul sapere l’Assoluto, e sull’Assoluto stesso, che oltrepassasse il progetto della manifestazione dell’Essere, affrontando il problema di Dio alla radice. Ma per questo erano necessarie  una conoscenza e una comprensione profonde di Hegel probabilmente antistoriche per l’epoca, e forse Carabellese non voleva rinnegare, assieme alle battaglie, il risultato  di anni di meditazioni su Dio, dal momento che stendere un sistema teologico vero – dove per teologico si deve intendere a partire dal livello dell’Assoluto, in cui Dio non è ancora manifestazione (manifestazione?) né fisica né spirituale, e nemmeno ideale ma reale, intendendo con reale razionale – implicava preventivamente un lavoro di smantellamento e superamento degli errori vuoi di interpretazione vuoi di lettera dell’hegelismo a lui coevo, che non poteva lasciare spazio, almeno negli studi teoretici, alla meditazione del sistema dell’Assoluto. Non è un caso, in altre parole, che Carabellese parta dalla dialettica, superando, almeno nelle intenzioni, la dialettica hegeliana, che egli accusa di contraddizione contrapponendovi la penetratività. Urgeva questo lavoro di revisione, e Carabellese si accinge a compierlo. Ma occorre aggiungere, e ci si farà scusa di ricorrervi ancora una volta,  che i suoi studi storici aprono a quelli che erano i progetti futuri di Carabellese – potremmo dire i sentimenti, o l’intuito, in altre parole il sapere di Carabellese -, se avesse potuto stenderli in sistema razionale. Ma in realtà, se si guarda bene il percorso del Disegno, bisogna dire che il Carabellese vivente ha concluso il suo percorso: il rapporto diretto Dio io, che ha sorretto come certezza, direi come sapere, tutto il percorso di Carabellese, è soddisfatto, al di là delle ulteriori intenzioni di Carabellese stesso, che voleva estendere il Disegno sino alla filosofia moderna e contemporanea: il Disegno si apre col rito in cui il Brahman si mette in comunicazione con l’Athman, e si chiude con Agostino, che della certezza del rapporto immediato tra Dio e io fa il cardine della propria esperienza spirituale, e la spiegazione dei miracoli, che infatti Carabellese tratta. In tal senso si può dire che Carabellese ha esplicitato nei fatti tutto il suo sapere implicito iniziale, almeno sul piano storiografico.

Ma c’è un ma, perché si può forse dire che nel percorso di vita di Carabellese tale sapere implicito, oltre a farsi via via sempre più esplicito guidando l’azione, si è anche approfondito oltrepassandosi oltre l’origine genetica, nell’esistenza. In questo senso, in cui la certezza del rapporto immediato Dio io ha trovato realizzazione e coincidenza nella verità della completezza del Disegno, occorre dire che l’intuito di Carabellese va oltre, nella direzione del sapere l’Assoluto e l’Idea, almeno implicitamente, come provano i rari riferimenti dell’ultimo periodo: Carabellese se lo poneva come problema aperto in cui il sapere da implicito divenisse esplicito, si potrebbe dire, parafrasando celebri definizioni, dal sapere al comprendere. Se in altre parole riteniamo l’intuito come sintesi di ratio e inventio, tale sintesi – ulteriore rispetto alla certezza del rapporto immediato tra Dio e io nel senso di frutto illuminato dal percorso stesso di pensiero di Carabellese - era già presente, e solo abbisognevole di storia, ossia di tempo e di studio – di approfondimento coscienziale - per trovare sistemazione razionale. In questo caso il sapere implicito ultimo di Carabellese troverebbe un’origine ulteriore rispetto al sapere implicito genetico, ossia si sarebbe ampliato, o approfondito, a partire dalle opere (intese in senso ebraico). Se viceversa consideriamo l’intuito fuori dalla ragione e separato dalla ratio, come mera inventio la cui origine è metafisica nel senso dell’aletheia, è possibile che tale illuminazione  sia distinta e indipendente dal percorso, dalle opere, e pur approfondendo il senso esistenziale di Carabellese, abbia esclusivamente origine divina. Ma c’è una terza ipotesi, ossia che quando Carabellese parla di rapporto immediato tra Dio e io, quel Dio sia l’Assoluto, per cui il sapere l’Assoluto, almeno implicitamente, è presente sin dall’inizio a guidare l’azione di Carabellese. In questo caso l’esistenza di Carabellese non è conclusa. Ma si apre più di un problema: tutti sanno l’Assoluto, anche se solo implicitamente (problema dell’omogeneità-diversità del sapere)? Che significa sapere l’Assoluto? Il passaggio da sapere implicito a sapere esplicito, individuale e collettivo, implica necessariamente la ragione e la storia da intendere anche in senso metafisico di Ragione e Storia nello spaziotempo, oppure tale passaggio, che la storia mostra essere sempre più veloce nel senso dell’incremento esponenziale, finirà con l’annullarsi nella coincidenza del sapere implicito col sapere esplicito? E ancora: perché, partendo dalla formula carabellesiana che appena l’ente è, è ragione (Carabellese dice “l’uomo”), perché invece di considerare il sapere (implicito) più originario rispetto alla ragione, e perciò antecedente alla vita nell’esistenza,  non affidarsi a una nuova interpretazione della stessa formula carabellesiana e chiedersi quando l’ente è? In altre parole ribaltare il rapporto tra sapere e ragione e considerare la ragione antecedente al sapere, che ne sarebbe il livello immediatamente inferiore, cosicché si potrebbe dire che sapere l’Assoluto equivale ad avere ragione (ragiono, quindi so l’Assoluto), nel mentre essere ragione non si esaurisce nel sapere l’Assoluto, che è il suo primo livello. Ma l’ente singolo, nella storia, è mai ragione? Questo è possibile solo se per ente singolo si intende l’Io – sebbene non l’Io unico e assoluto di tutti gli Io individuali -, ossia l’esistenza e non la vita, e se per storia si intende la Storia.

 

8. L’ontologismo critico come propedeusi al progetto 

di una nuova metafisica critica

 

 

Centralità dunque del problema teologico in Carabellese, il quale, avvalendosi a un tempo dei risultati, dei limiti e delle questioni irrisolte del criticismo kantiano, e rileggendo attivamente nello stesso senso la tradizione della storia della filosofia occidentale, sposta in ambedue i campi l’asse dell’interpretazione, e proponendosi come nuovo snodo del pensiero filosofico in grado di superare in ambito europeo la scissione tra la filosofia del conoscere e la filosofia dell’essere, e nel contempo reimpostando criticamente la metafisica a partire da intuizioni che ritrova già in quello che definisce l’arcaico, la apre a nuovi sviluppi dandole nuova linfa coi suoi risultati e coi suoi limiti. Una nuova concezione metafisica di difficile comprensione non solo terminologica e concettuale, se è vero che in essa confluiscono razionalismo e misticismo, idealismo e realismo, oltre allo spiritualismo - alcune correnti della storiografia critica lo inseriscono infatti se non dentro, vicino a questa tradizione di pensiero[126].

Della novità dell’ontologismo critico Carabelle­se si faceva portatore consapevolmente orgoglioso  in molte sue opere, sebbene, cosciente dell'importanza di una Fondazione storica dell'ontologismo critico[127] - come significativamente titola uno scritto del 1940, periodo in cui era ormai evidentemente maturo il progetto della sua propria metafisica - non sino al punto da non ricercarne le origini, e dunque la continuità con la tradizione,  in lavori a carattere anche  e soprattutto storiografico quali, oltre alla Fondazione e Dalla critica all'ontologismo critico[128], sempre del '40, Da Cartesio a Rosmini. Fondazione stori­ca dell'ontologismo critico, del 1946, ma soprat­tutto quel Disegno storico della filosofia italiana come oggettiva riflessione pura[129], dai corsi universitari romani degli A.A. 1944-45, 1945-46 e 1946-47,  dove dà una visione sua propria dello svolgersi della storia della filosofia occidentale a partire dal pensiero orientale.[130]

La novità dell’ontologismo critico è messa in rilievo, oltre che da Semerari, anche da Franco Fanizza, per il quale sia la critica coeva sia quella posteriore non hanno mai ben compreso Carabellese, quando addirittura, come nel caso della neoscolastica, non lo hanno travisato[131]. Dell'opera di Carabellese Fanizza dice che è "di grande spessore problematico" e "malgrado le apparenze contrarie, molto poco scolastica nella sostanza", poiché mette in discussione, e qui la sua originalità che anticipa il pensiero del '900 maturo, "[...] nientedimeno, il senso e l'intero impianto del ‘conoscere’ e dell'’essere’ occidentali... il senso dell'Essere come Sapere e del Sapere come Essere, quindi le modalità essenziali della Teoria e della Pratica, i concetti di Astratto e di Concreto, gli atteggiamenti del Pensare e del Volere, la scala dei valori e la forma stessa del Valore che ne dipendono, la misura dell'Oggettività e della Soggettività - in  conclusione riguarda una certa epocale immagine dell'uomo portatore della 'coscienza' ne e tra le cose, e, quindi, secondo questo significato, una particolare idea dell''essenza della filosofia'"[132]. Implicitamente è riconosciuto che la critica carabellesiana  dell’intero sistema della metafisica e della gnoseologia occidentali è talmente radicale e moderna nel suo essere precorritrice del "complesso e vario lavoro di smantellamento” che oggi è in atto da poter essere avvicinata a quella di Heidegger[133]. Ma Carabellese non è "filosofo del negativo" né di radicale rottura  proprio per la sua formazione varischiana e rosminiana: egli adoperò, afferma Fanizza in consonanza col Semerari di Storicismo e ontologismo critico[134] , categorie teoretiche del pensiero positivo e si pose non come filosofo della crisi che portava a coscienza la distru­zione della metafisica tradizionale dell'essere e del conoscere, del soggetto e dell'oggetto, ma come il ricostruttore di un nuovo ontologismo, dell'unico vero Essere.

L’ontologismo critico vuole porsi come conciliazione e superamento della scissione tra la filosofia dell'essere italiana e la filosofia del conoscere d'Oltralpe, e come rinnovamento della filosofia italiana e proseguimento - il vero inizio Carabellese lo vede in Rosmini - della filosofia contemporanea. La filosofia europea, seppur scissa tra conoscere ed essere, ha un falso presupposto comune: l’oggettività dell'essere e la soggettività del conoscere, per cui l'essere non conosce e il conoscere non è. Realismo e teismo e idealismo e soggettivismo, nel rispettivo trascendentismo e immanentismo, pur nella falsità di quel presupposto comune, sono conciliabili nel concetto di Coscienza, di cui l'Essere in sé, in quanto Oggetto, è Principio, e in cui  il conoscere, in quanto soggettività, è ineliminabile.[135] Carabellese, coniugando Kant con Rosmini, vuole eliminare la scissione data dal falso presupposto comune,  tenendo conto delle esigenze insopprimibili che pure le due filosofie portavano con sé come proprio patrimonio - l'Essere come Oggetto e Principio della Coscienza, il conoscere nell'ineliminabilità della sua Soggettività - per riportare la filosofia sulla strada maestra dell'idealismo assoluto. E’ in questo percorso che si iscrive l'ontologismo critico, o idealismo concreto, il cui perno è la Coscienza che "[...] non muore anche quando muoia l'umanità tutta."[136]

Nell'innesto di Kant su Rosmini che Carabellese consapevolmente opera è rinvenibile la radice della concezione carabellesiana del rapporto tra Dio come Oggetto puro di Coscienza e i soggetti, che più tardi si articolerà secondo un altro piano dell’Essere come rapporto tra Principio e Termini. In questa radice, per cui pensare è pensare Dio,  Carabellese ripone la "formula del suo ontologismo critico o idealismo concreto".[137] La critica alla rosmininiana pluralità delle forme dell'essere come residuo realistico porta all’affermazione dell’Essere unico, di cui idealità oggettiva e realtà soggettiva sono non forme diverse, ma condizioni intrinseche e inseparabili, che ne definiscono l’una l’unicità, l’altra la pluralità, e che, “insieme, individuano in concreta coscienza l'essere, e in concreto essere la coscienza”.[138] Nella concezione della Coscienza o Concreto come Essere-Sapere gnoseologia e metafisica si saldano nella critica al realismo – non inteso nel senso forte che noi gli attribuiamo - come sensismo e materialismo, che, opponendo empiricamente l’essere come materialità (divenire) e il conoscere come rappresentazione fenomenica, accomuna in sostanza realisti e idealisti. E’ Berkeley per Carabellese che scoprì l’empiricità di tale opposizione tra essere e conoscere, pur non sapendo poi conseguentemente affermare la Coscienza che esige l'Essere, l'Essere che è Coscienza: la spiritualità nella sua unicità, Dio, e nella sua singolarità, noi coscienti.[139] La Coscienza è dunque l'aspetto dell'Essere che nel linguaggio carabellesiano assume il nome di Concreto, e cui egli dedica quella Critica del Concreto che anche nell'echeggiare la Criti ­ca kantiana e porsi come sua continuazione mostra il progetto consapevole e ambizioso di una ripresa critica della metafisica. Ma il Concreto in Carabellese si identifica con la coscienza intesa nell'accezione meta­fisica del termine ossia come Coscienza che pervade tutto l'essere e che non si limita dunque al piano umano né della coscienza empirica né della coscienza in gene­rale in senso kantiano. Fenomenismo e umanismo antropo­centrico - afferma Carabellese - costituiscono gli errori delle concezioni tradizionali della coscienza. Assistiamo qui a un ulteriore spostamento dell'asse kantiano dal problema gnoseologico al problema metafisi­co, perché il concetto di coscienza appunto viene letto come omnipervasivo e riguardante tutto l'essere, tanto che Carabellese, che la definisce "l'ambiente omnicom­prensivo non soltanto umano ma ontico", afferma nel suo periodo critico che non è la coscienza che appartiene all’essere ma l'essere alla coscienza. In questo senso, il tardo seppure presente interesse di Carabellese per l'attività spirituale umana, dopo gli anni in cui Cara­bellese medesimo proclamava il suo antiumanesimo, di cui veniva pure accusato nell'agone pubblico dell'intellet­tualità, è leggibile come mirante a inserire anche l'attività spirituale umana nel sistema dell'Essere che Carabellese veniva definendo negli ultimi anni della sua vita, ma che non ebbe il tempo né di essere organizzato in una pubblicazione né di essere completato nel suo disegno. Questo inserimento dell'attività spiri­tuale umana in un tentativo di sistema è  proficuamente interpretabile come tentativo di sostenere che anche al livello dell'attività spirituale umana è possibile rintracciare una razionalità solo apparentemente irrazionale che contribuisce a sostenere l'essere in senso hegeliano. Ma l’antiumanesimo carabellesiano, nonostante questa realistica interpretazione del posto che l’attività spirituale umana occupa nel sistema dell’essere, rimane. Su ciò torneremo anche in nota più volte, poiché per quanto Carabellese interpreti realmente il necessario e indispensabile ruolo dell’io nel rapporto con Dio, e dunque dia valore all’attività spirituale umana come sua possibile espressione, tale espressione e tale valore non sono assoluti né unici, ma ridefiniscono il posto stesso dell’uomo nel sistema dell’Essere, che rimane comunque anti, o a, antropocentrico, denotando lo sguardo avanzatissimo di Carabellese, e non consentendo alcuna interpretazione critica in tal senso.

Vi è già qui, nella concezione della Coscienza come Essere-Sapere che esige l’Essere come punto di arrivo di tutto il percorso dell’ontologismo critico, l'esigenza del disegno di una nuova metafisica. In essa la Coscienza esige l’Essere, il che significa che Essere e Coscienza sono distinti: il concretismo carabellesiano o idealismo concreto costituisce un momento di un progetto più ampio, l’idealismo assoluto. Infatti più in alto dell'ontologismo critico, che fa perno sulla Coscienza come concreto Essere-Sapere col suo piano sia ontologico che gnoseologico della pluralità dei soggetti singolari convergenti nell'Oggetto unico che li fonda, è possibile ipotizzare nel pensiero di Carabellese, a partire dagli ultimi corsi degli AA.AA. 1943-48, un idealismo assoluto che si incentri proprio nell'Idea, che nel suo Essere, e nella manifestazione di questo come processo, comporti una dialettica tra l'Io e Dio e una logica in cui trova posto l'attività spirituale umana. Dice infatti Carabellese: "[...] il valore è più profondo del fenomeno: è essere e non soltanto divenire [...] il valore è spirituale e lo spirito non è una proprietà dell'uomo [...] è ben più che una proprietà: è l'essere nella sua integrità."[140] Questo ontologismo integrale è la spiritualità dell'Es­sere[141], o Essere integrale come Spirito. L’ontologismo critico o ontocoscienzialismo come metafisica dell’Essere di Coscienza puro costituiva in Carabellese a un tempo il punto di arrivo del percorso dell’ontologia critica e il punto di partenza della metafisica critica come scienza dell’Essere, di cui l’Essere di coscienza puro costituiva un elemento, da costruire nella prospettiva per noi ancora in fieri della metafisica della Ragione Assoluta.

E' Carabellese stesso, in più luoghi della sua opera, a definire il suo proprio ontologismo critico non tanto come sistema quanto come scoperta dell'Essere di coscienza puro che, presupposto imprescindibile dell'attività consapevole umana, richiede alla filosofia di indagare la sua radice prima, la Qualità pura dell'Essere, Dio.[142] E’ questo il lascito carabellesiano ai suoi allievi diretti e indiretti, ciò che Carabellese non potè fare perché preso a stendere il sistema dell’ontologismo citico: indagare, oltre la qualità pura dell’Essere come coppia circolare Dio Io, il vero Dio, l’Assoluto. Occorre dire inoltre che la rappresentazione grafica circolare con la quale Carabellese conclude il primo volume de L’Essere e la sua manifestazione. L’Essere nella dialettica delle forme, molto utile ai fini della stessa comprensione delle tre dispense di cui si compone la parte I, pone al centro del cerchio la Coscienza qualitativa, ossia la Qualità pura, Dio. In questo senso l’ontologismo critico è, come afferma Carabellese, scoperta dell’Essere di coscienza puro, che infatti sistematizzerà nelle prime tre dispense. Nell’ontologismo critico come scoperta dell’Essere di coscienza puro, "L'essere unico è costitutivo della co­scienza come suo oggetto puro, e perciò Idea, della quale i molti enti singolari sono quindi soggetti. (…) Perciò solo l'ontologismo è vero e profon­do idealismo. Quello presentatosi finora come tale da Fichte in poi, non è idealismo ma umanismo, in quanto presuppone alle idee l'uomo, del quale sarebbero idee (rappresentazioni) le cose."[143] Al di là della distanza dall'idealismo soggettivo stigmatizzato come umanismo nella sottolineatura del valore metafisico dell’Idea e della necessità di un decentramento dello sguardo filosofico dall’uomo a Dio e all’Essere, l’ontologismo critico, nel quale la soggettività, pur decentrata e non più umanistica, assume su di sé un nuovo valore forte, pone Carabellese in antitesi con l'esistenzialismo, se questo è inteso come filosofia dell’esistenza finita dell’uomo. Questa presa di distanza si evince dal suo intervento nel dibattito sull’esistenzialismo in Italia intitolato appunto Esistenzialismo o ontologismo critico?[144], del 1943, sebbene alcuni critici mettano in rilievo come i rapporti teoretici non fossero così univocamente oppositivi come ad un primo sguardo potrebbe sembrare, al di là della fondamentale diversità rispetto alla concezione della soggettività e alla concezione della filosofia come metafisica[145]. Ma sull’assunzione del concetto, ci verrebbe da dire, dell’esistenzialismo in Carabellese occorrerebbe fare un lungo discorso. Qui diremo solo che per Carabellese sono l’essere per la morte, la concezione negativa del Nulla e l’angoscia la linea di confine vera con l’esistenzialismo.

Il pensiero carabellesiano in altre parole si presenta in questa fase matura ma non ultima come filosofia che guarda già oltre, all’Essere e all’Idea come esigenza della Coscienza, ma nel contempo, come per tirare le fila del percorso sin lì compiuto, si   riconosce come ontologismo critico che ha nell’Essere di Coscienza puro la prima emanazione dell’Essere, e nella Coscienza universale il suo fulcro, la quale, fondamento dell’attività spirituale umana, trova la sua radice prima nella Qualità pura dell'Essere, Dio. Così filosofia e teosofia si fondono, del che Carabellese sembra essere consapevole quando, nello stesso scritto, per le prime linee di una teosofia critica rimanda alla sua Dialetti­ca delle forme[146]. Infatti in questo progetto di una nuova metafisica idealistica doveva trovare posto il programma di una dialet­tica diversa da quella hegeliana, in cui i distinti non fossero opposti, perché  appunto l’opposizione è un residuo empirico e materialistico, la distinzione è speculativa e spirituale: il distinto, come dice Platone nel Sofista, è il diverso, non l’opposto, non è negazione assoluta, ma negazione relativa, non è nulla ma essere, che ha una sua realtà propria, appunto distinta. Si vuole ricordare qui l’importanza della correlazione in Carabellese tra la categoria di distinzione e quella di penetratività, che è interpretabile nella direzione del flusso continuo e ritornante su se stesso, in cui identità e distinzione sono in relazione.

Questo programma di una nuova dialettica diversa da quella hegeliana è espresso chiaramente: "Una tale dialettica critica noi tendiamo ad istituire; e perciò essa non è antitetica ma intensiva." [147] Tale dialettica intensiva è quella che connota il processo spirituale, il quale per Carabellese non è soltanto dall'indistinto al distinto o dall'indeterminato al determinato, come in Hegel, ma è anche il “rituffarsi del determinato nell'indeterminato, del distinto nell'indistinto, del singolare nell'unico, dell'esplicito nell'implicito”, poiché altrimenti tale processo spirituale sarebbe un infinito pluralizzarsi, che si allontana sempre più dall’unicità che è il suo Principio.[148] La categoria di intensione, o intensività, è appunto quella che connota il flusso dei distinti, quando questi si ritrovano sullo stesso livello dell’Essere.

Carabellese comincia ad affrontare solo negli anni 1943-48 la stesura del suo sistema metafisico. In questo periodo Carabellese è ormai da tempo all'Uni­versità di Roma, dove siede contemporaneamente come ordinario sulla Cattedra di Storia della Filosofia dal 1929 al 1946, e poi, dal 1944 sino al 1948, anno della morte, come incaricato, mentre siede sulla Cattedra di Filosofia teoretica, succedendovi alla morte di Gentile e passan­dovi da quella di Storia appunto  nel 1944. Sono anni fecondi proprio per l'interazione tra i due insegnamen­ti, che gli consentono di far confluire i suoi studi sull'unico scopo di stendere finalmente il disegno della sua metafisica, che però rimarrà inedito, e a nostro parere incompleto in senso diverso da quello riconosciuto: tale senso non è quello che mancò a Carabellese il tempo per stendere ciò che lui stesso aveva ipotizzato, come afferma Giuseppe Pinto e come tutta la critica carabellesiana sostiene, ma nel senso che a partire da Carabellese stesso è possibile ipotizzare, a monte della sua nuova metafisica, un approfondimento della radice dell’Essere sia in campo reale con l’Assoluto, sia in campo gnoseologico con l’intuito, di modo da coniugare, cito il mio maestro Giuseppe Cantillo, “ratio e inventio”. Gli studi di Storia della Filosofia proseguono il suo progetto di inserire l'ontologismo critico all'interno di una nuova visione dello sviluppo della filosofia, esemplarmente oggettivata nel ricordato Disegno storico della filoso­fia italiana come oggettiva riflessione pura, che inizia con la filosofia orientale (indiana e ebrea) e greca (sia presocratica che aurea) e si incentra sulla "rivoluzione", sono parole di Carabellese che sottolineamo per la vicinanza alle tesi hegeliane, della filosofia del Cristianesimo, a partire dalla sua coesistenza con l'ellenismo e proseguendo con la sua trasformazione in "teologismo e istituzione", sino alla gnosi e all'apogeo della Patristica interrom­pendosi con Agostino. Sarebbe importante ai fini di una comprensione approfondita del suo disegno metafisico, che trova spazio ed espressione nei contem­poranei corsi di Filosofia Teoretica, stabilire in quest'opera (l'unica in cui la trattazione di Gesù, più volte richiamato nelle sue opere, è tematica e non episodica e di sfuggita) il ruolo preciso che Carabelle­se assegna alla figura di Cristo, non solo per confron­tarlo con il Gesù hegeliano e vederne le eventuali vicinanze teoretiche ancora una volta al di là del proclamato antihegelismo carabellesiano, ma anche per ribaltare il giudizio di parte della critica che vuole questo stesso disegno metafisico distante dalla filosofia cristiana, e per comprendere sino in fondo quanto invece questo disegno metafisico non fosse un tentativo, al di là della critica carabellesiana all'attualismo gentiliano come filosofia del cattolicesimo (non del Cristianesimo), di ricomprendere anche la filosofia del Cristianesimo all’interno di un quadro di sviluppo del pensiero di cui anche Carabellese individua le radici a Oriente, e quindi ancora una volta vicino all’idealismo tedesco: per fare ciò si dovrebbero dunque tenere contemporaneamente compresenti il disegno metafisico degli anni 1943-48 e il disegno storico-filosofico, come noi abbiamo accennato a fare. C'è da sottolineare inoltre come questo Disegno, l'unico corso storico romano certo tra gli altri che sarebbero da stabilire, sia rimasto, come dice Sabarini nell'Avvertenza all'opera, incompiuto per la morte, e che dunque nelle intenzioni di Carabellese dovesse coprire un arco molto più vasto di storia della filosofia, passando per la Scolastica e giungendo all'età moderna. Così come occorre ancora sottolineare che dal Disegno si evince che la ricerca storico-teore­tica di Carabellese di questi anni romani sulla Cattedra di Storia della Filosofia, che si oggettiva anche ne Le obbiezioni al Cartesianesimo[149] dei corsi universitari degli AA.AA. 1938-39 e 1939-40, mostra appunto la direzione e lo scopo che questi corsi di storia dovevano avere: rileggere l’intera storia della filosofia occidentale anche nelle sue radici indiane e ebraiche per coniugare, nell’Essere unico eterno ab aeterno e in eternum e spirituale, l’Essere che permane con l’Essere che diviene. Il problema è giungere all’Essere non eterno e non infinito (denominazioni ancora fisiche, e dunque materialistiche, anche della spaziotemporalità, che inoltre richiamano specularmente caducità e finitezza), all’Assoluto. E questo, al di la della sua stessa consapevolezza intenzionale, è nelle stesse intenzioni di Carabellese, anche se forse solo retroattivamente leggibile. Carabellese definisce l’io, lo spirito, come spazio puro, da congiungere con l’Essere infinito ab infinito e in infinitum: nell’oltrepassamento del carabellesiano sistema dell’Essere che si propone ai nostri occhi, è da costruire, o meglio ri-costruire partendo dal lascito carabellesiano, servendosi del confluire di  strumenti come ratio e inventio, e delle intuizioni pure, oltrepassando il Dio che dice “Fiat lux”, che pure è in grado di congiungere con arte scienza, filosofia e religione[150], e giungendo all’Assoluto, il sistema dell’Assoluto stesso.

Contemporaneamente alla reinterpretazione storica del pensiero occidentale alla luce di una preciso progetto teoretico - che metodologicamente possono essere scissi soltanto a posteriori ma che sarebbe invece fecondo far interagire, come ha iniziato a fare Valori -,  in cui abbattere i confini tra Oriente e Occidente insieme a quelli tra religione – o meglio teologia - e filosofia nella superiore sintesi della teologia come teismo, Carabellese stava iniziando a stendere il suo sistema metafisico sull’Essere e sulla sua manifestazione, iniziando da quest’ultima attraverso l'argomento dei corsi di Filosofia Teoretica dei tre Anni Accademici 1943-44, 1944-45 e 1945-46 all'Università di Roma su L'Essere e la sua manifestazione[151], di cui ci rimangono le dispense universitarie poi edite. Al L'Essere nella dialettica delle Forme, che costituisce la Prima Parte   della speculazione carabellesiana sulla manifestazione dell’Essere, afferiscono appunto il volume così titolato, quello specifico sulla legge dialettica, ossia La dialettica, e quello su La realtà e l'attività spirituale umana. Ma il sistema dell'Essere trova espressione anche in almeno un altro corso incentrato non più sull'Essere e la sua manifesta­zione, ma proprio sull'Essere, di cui  ci rimane la dispensa dell'anno accademico 1946-47 riguardante la Seconda Parte , quella sull'io[152]. Noi ipotizziamo dunque che se le condizioni intrin­seche inseparabili dell' Essere sono il Principio e i Termini, fosse nelle intenzioni di Carabellese, a partire dalla tratta­zione carabellesiana dell'io ne L’Essere: io e del suo vero significato - che è metafisico nel senso dell'on­tologizzazione della soggettività singolare come pluralizzazione della radicalizzazione dell'Io puro kantiano, trattato quest’ultimo infatti da Carabellese nelle tre dispense della Dialettica delle forme come circolo Dio Io -, una Prima Parte de L’Essere – non deL’Essere e la sua manifestazione - che fosse di supporto a un corso sull’Essere in sé inteso non più triadicamente come Idea-Principio-Sostanza – momento successivo all’Uno -, ma come Assoluto, il vero Dio di Carabellese[153], nel senso che noi ipotizziamo, ripetiamo anche a partire dai corsi di storia, che Carabellese avesse in mente tale futuro corso teoretico sull’Essere in sé o Assoluto, ma non abbia fatto in tempo a svolgerlo per il sopraggiungere della morte. Solo così, con un'attenta riflessione sulla scansione e diversificazione dei vari corsi teoretici che compongono il sistema metafisico di quest'ultimo periodo che vorremmo appunto definire metafisico per distinguerlo da quello che lo stesso Carabellese definì il suo "periodo critico" maturo seguìto al suo "periodo precritico", è possibile, anche sulla base dell'artico­lazione interna dei corsi stessi, e quindi anche del sistema, parlare di un vero e proprio sistema metafisi­co, da ricostruire a posteriori anche perché, sebbene la sua  stesura – ma non la sua elaborazione - avvenisse, attraverso i corsi stessi, in modo, ci si scusi il bisticcio, sistematico secondo un piano di successiva gradualità,  in modo parallelo, ossia tenendo compresenti contemporaneamente i vari livelli e i vari piani in cui si articolava la ricerca, avveniva pure l’improvvisa emersione per iscritto di intuizioni che fanno presagire a noi oggi un progetto più approfondito. Ma è necessario appunto preventivamente tenere distinti l'insieme dei corsi su L'Essere e la sua manifestazione – ossia L’Essere nella dialettica delle forme, La dialettica e L’attività spirituale umana - che pure è il primo cronologicamente ma non logicamente, e l'”insieme” dei corsi su L'Essere – costituito nei fatti dal solo L’Essere: io -  che a noi invece sembra il primo logico anche se non cronologico e di cui ci rimane appunto soltanto la seconda parte, l'io, ma che eviden­temente ne prevedeva una prima che soltanto per la sua maggiore complessità, oltre che per il sopraggiungere della morte, non è oggi qui con noi. In questo senso del corso sull'io dell'anno accademico 1946-47 non bisogna disperdere il valore. Tale valore, che affonda le radici nella radicalizzazione carabellesiana dell'Io trascendentale kantiano e nella generale radicaliz­zazione del pensiero kantiano, afferisce a quel rapporto tra Principio e termini su cui Carabellese si è soffermato più volte negli ultimi lavori. Non bisogna in altre parole trascurare, di questa radicalizzazione, lo spostamento su di un  piano netta­mente metafisico in cui l'Io trascendentale kantiano  viene radicalizzato metafisicamente nell'io puro, ognuno di noi pensanti, laddove il noi è riferito non ai soli pensanti che vivono. Così da un lato l'Io è unico per tutti – in questo senso è Uno -, nel senso che accomuna nell'identità la pluralità degli io particolari e infiniti non  più nell'intersoggettività e nell'alterità esistenziale, che pure si ritrovano nel corso di cui stiamo discutendo come sua prima parte, ma in quell'uni­cità di coscienza (trascendentale ma radicalizzata metafisicamente) che, pur contemplando la diversità, è pur sempre identico, nell’infinita penetratività degli spiriti. Dall’altro l’io è quello che Carabellese ha definito il ciascuno, l’individualità irripetibile, spazio puro sempre in rapporto diretto con Dio, l’Essere in sé inteso come Assoluto. Solo così si completa il quadro metafisico nei suoi quattro punti: l’Essere in sé, Dio, l’Io, l’io, a cui si deve aggiungere un quinto elemento, l’Essere nel suo insieme. E siamo ancora all’interno della religione cristiana poiché ne abbiamo fissato i quattro punti essenziali del suo simbolo, la Croce[154], anche se il percorso tracciato si delinea come interno a un orizzonte che lo ricomprende tutto, appunto l’Essere, che ne costituisce, diciamo così, l’arco. In questo quadro del sistema dell’Essere, al di là delle dichiarazioni di Carabellese ed evidentemente della sua stessa consapevolezza intenzionale, è rinvenibile un nuovo umanesimo metafisico antropocentrico, o per meglio dire non antropocentrico, ma, per non dire spiritocentrico, diremo individuocentrico, nel rapporto diretto tra Essere in sé e io.

Tutto ciò lo stiamo affermando proprio nella convinzione, supportata dalla lettera carabellesiana, che L'Essere e la sua manifestazione e L'Essere siano due distinte direzioni di ricerca di Carabellese pur all'interno di uno stesso disegno metafisico, e che dunque alla seconda parte sull'io manchi una prima parte ne L'Essere, e non che lo stesso io costituisca la seconda parte de L'Essere e la sua manifestazione. Questa parte che noi riteniamo dispersa o non svolta da Carabellese per la sua scomparsa è ipotizzabile - a partire dall'assunto fondamentale dell'ontologismo non solo carabellesiano di un rapporto immediato, diretto e intuitivo tra l'io e Dio di ascen­denza agostiniana, ma ancor prima brahmanica, e discendenza hegeliana – essere costituita dal vero Dio cui Carabellese stava pensando, l’Essere inteso come Assoluto (in concordanza col rapporto diretto che Carabellese più volte stabilisce tra Dio e io, Principio e Termini). Il sistema dell'Essere si articolerebbe in que­st'ipotesi nel suo primo livello in L'Essere: L’Essere in sé e io, nella considerazione dell'Essere non nella sua manifestazione ma come attività che ha esigenza di manifestarsi (l'esigenza essendo il primo, la potenza, e la manifestazione il secondo, l'atto), secondo un disegno di carattere metafisico che è da verificare se e quanto lontano non tanto dal dogma trinitario quanto dal tau. Il tau in questo senso è infatti l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, ripresa dal cristianesimo delle origini e identificata col Messia, Cristo, che annuncia il Regno di Dio, poi ripresa dai francescani per ricollegarsi al Cristianesimo delle origini (Carabellese faceva parte del modernismo) e usata nell’alfabeto greco da Ipp. 895, Pl. Phaedr. 244, Crat. 394 (Rocci)[155].

Vorremmo però, per essere estremamente chiari su questa ipotesi dell’essere l’io in correlazione con una parte non svolta da Carabellese, infine dire che in realtà noi stessi abbiamo in mente due interpretazioni diverse, e non escludentisi, del percorso metafisico carabellesiano: l’una è in riferimento alla coppia circolare Dio Io, l’altra alla coppia verticale Dio io, l’una è svolta, e oggetto di analisi critica, l’altra è solo ipotizzabile, l’una è posta sul medesimo livello dell’Essere, l’altra su piani sfalsati non aventi lo stesso valore, l’una è ancora interpretabile nei termini di Persona e avocabile al cristianesimo, nonostante le reiterate lontananze carabellesiane da tale impostazione – quella di Persona e quella di Creazione, anche non intesa come unicum una tantum - del problema di Dio, l’altra, proprio a partire da queste lontananze, è interpretabile in termini di Assoluto.

Tornando a guardare il disegno metafisico non solo oggettivato, la manifesta­zione dialettica dell'Essere stesso (nelle sue Forme, nella realtà e nell'attività spirituale umana) costitui­rebbe di questo stesso disegno metafisico di Carabellese il secondo livello, quello dell'attività nella sua attualità. In tal caso resterebbe salva l'esigenza carabellesiana della fondazione ontologica dei molti io, poiché l'Io puro, che nella dispensa in esame è definito alla fine "spazio puro"[156], non esclude ma ammette e richiede la pluralità degli io nei quali si attua, e che infatti costituiscono la prima parte trattata, ma non l'unica, nella dispensa stessa.  Infine sempre a questo proposito occorre dire che, oltre a verificare, o falsificare, la possibilità concreta che il sistema dell'Essere nel suo secondo livello  sia una traduzione in termini filosofici del dogma cristiano della Trinità, è necessario anche analizzare la vicinan­za o meno dell'Io identico nel senso metafisico che si è detto da un lato con Plotino, Leibniz, Kant, Fichte e Hegel, che Carabellese esplicitamente richiama nella dispensa stessa, dall'altro la distanza o meno con l'Io come atto puro di Gentile, tra l'altro notando come la concezione metafisica carabellesiana dell'Io puro voglia al tempo stesso porsi in continuità e in rottura con l'intero sviluppo di questo concetto nella filosofia a partire dai neoplatonici.

In altre parole, per comprendere quello che può a ragione essere definito il periodo metafisico di Cara­bellese, rimasto come si è visto incompiuto a nostro parere non solo “in avanti”, ma anche “indietro” o a monte, è necessa­rio guardarlo nel suo complesso, che comprende, oltre all'Essere e alla sua manifestazione dialettica, anche una logica. Infatti alla contemporanea impostazio­ne di una logica è infine dedicato l'ultimo anno di corso, il 1947-48, logica che si incentra inizialmente, come da sottotitolo,  su L'attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell'Essere[157].

Riassumendo, Carabellese stava elaborando anche attra­verso i corsi universitari un nuovo sistema dell'Essere graduato in più livelli ciascuno a sua volta articolato in più piani: un primo livello, che potremmo dire dell'Essere in sé, un secondo, dell'Essere nella sua manifestazione o Essere per sé, se ci si passa la termi­nologia hegeliana, e un terzo dell'Essere nella sua logica o Essere in sé e per sé, appena abbozzato da quanto si evince dalle dispense relative[158].

A proposito della metafisica carabellesiana, Raniero Sabarini divide il pensiero del Carabellese maturo in due grandi periodi, il primo critico e il secondo metafisico.  Il periodo critico, che secondo Sabarini va sino agli anni intorno al 1942[159], e che noi abbiamo invece antici­pato anche sulla base delle lettere a Croce, nei proget­ti di Carabellese se non nei suoi scritti, al 1931 de Il problema teologico come filosofia, come anche Edoardo Mirri per primo riconosce, è quello in cui Carabellese, radicalizzando il carattere metafisico dell'apriori varischiano come Essere di coscienza puro, definisce appunto critico il suo proprio pensiero perché, dice Sabarini, "la filosofia è riflessione trascendentale sulla coscienza, in cui la coscienza nella sua attività non è pura parvenza ma ha il suo fondamento nell'essere, che la qualifica come ‘cum scire’." Carabellese è allora qui ancora interno al criticismo poiché l'Essere non viene considerato in sé e per sé, ossia tematizzato in primis "nella sua assoluta apriorità", ma entra nel discorso filosofico come apriori della coscienza, da essa richiesto come suo presupposto e fondamento[160].

Il periodo di passaggio dalla critica alla metafisica avviene proprio riguardo alla concezione dell'Essere in rapporto alla coscienza. Da una parte vi è l'Essere richiesto come esigenza dalla coscienza come suo apriori implicito, e che si determina nell'attività consapevole, e in particolare nella filosofia che lo esplicita (l’Essere-Sapere), dall'altro l'Essere che la metafisica pone non come esigenza e richiesta della coscienza, ma come afferma­zione fondamentale, come proprio cominciamento assoluto e cominciamento assoluto del Tutto della Coscienza. Secondo Sabarini, il passaggio avviene "perché l'essere viene connesso al sapere" in un "nesso positivo che li distingue ma li lega": l'Essere è l'essere che la meta­fisica afferma nel Sapere: l'Essere-Sapere. Ma le con­cordanze tra me e Sabarini finiscono qui: infatti egli affer­ma che il cominciamento che la metafisica afferma è "l'essere sa, il sapere è": "cominciamento sotteso e fondamento di ogni ulteriore, processuale determinazione", mentre a noi sembra che oltre il duali­smo tra Essere e Sapere, che è cominciamento ma non è fondamento se non appunto nel senso di fondamento del processo,  vi sia un livello più elevato in cui tale dualismo è tolto e il primum è l'Essere, senz'alcun'altra determinazione perché le ha tutte in potenza e in esso come primum non vi è alcuna distinzione, primum  che tra l'altro segna in ciò la vicinanza vuoi inconsapevole vuoi consapevole di Carabellese, nel comune cristianesimo, a Hegel, seppure contrastata dalla polemica carabellesiana sull'astrattezza e la vuotezza dell'essere hegeliano. Il passaggio dalla critica alla metafisica, che Sabarini considera concluso dopo il 1942[161], trova perciò a nostro parere la sua espressione e il suo centro nella concezione dell'Essere come esigen­za della Coscienza: la Coscienza come nesso inscindibile Essere-Sapere, da un lato, come cominciamento, rappresenta la manifestazione dell’Essere, dall’altro, richiedendo come sua esigenza l’Essere stesso, impone di superarsi nel suo dualismo per guardare proprio questo Essere, o per meglio dire di manifestare nell’Essere-Sapere l’Essere. Infatti l’affermazione di Sabarini che "La connes­sione essere-sapere è l'affermazione fondamentale, ovvero l'essere che enuncia e scandisce il suo nome, e il sapere che indica ed esprime la sua realtà."[162] è possibile intenderla solo se per affermazione fondamentale si intende il cominciamento non soltanto della manifestazione dell’Essere - ossia l’affermazione fondamentale che l’Essere fa di se stesso: “Io sono Colui che sono” – ma anche il cominciamento della metafisica – ossia l’affermazione fondamentale che la metafisica, come sapere l’Essere, fa: “l’Essere è”. In questo senso lo stesso cominciamento è gia un ritorno. Infatti l’affermazione fondamentale della metafisica deve mirare a oltrepassare, seppure all’infinito, il dualismo dell'Essere-Sapere, e a coincidere con quella dell'Esse­re stesso come primum assoluto. Se l’affermazione fondamentale della metafisica ha il proprio cominciamento e il proprio fondamento nell’Essere-Sapere, per cui: "La difficoltà dell'argomento ontologico tradizionale è così superata: non si tratta di dedurre l'essere che non si vede da un'idea che si pensa, ma si tratta semplicemente di sapere l'essere, e di saperlo  come assoluto primo, sì che da tale assoluta primalità si veda sorgere il mondo nostro umano e società e natura, tutti realmente signi­ficanti e consonanti in esso."[163],  pure la metafisica non si pone soltanto problemi di origine e di storia: è vero che nel momento in cui, sapendolo, affermiamo l'Essere come primum, vediamo, e vediamo, dice Sabarini, il tutto come connesso e real­mente dotato di senso e con un proprio Principio. Ma il problema della metafisica non consiste solo, sapendo l’Essere, nell’affermarlo nel suo essere Principio cosicché tutto acquisti un senso razionale nella sua storia e nel suo Principio. Il problema è oltre.

Un altro problema si annida nella certezza, da Sabarini esplicitata, che l’Essere sia sottoposto nella storia alla propria e alla nostra affermazione. Sottoporre l'Essere alla affermazione, propria e nostra: se questa esigenza c'è, è da ritenersi non solo il primo carattere nella scala della determinazione dell'Essere, ma anche, nella sua arditezza umana,  l'ultimo, quello del ritorno dell'Essere a se stesso, percorso che può essere visto sia dunque come circolare, che come lineare dall'alto verso il basso e viceversa. In questo senso il cominciamento è già un ritorno. Ma questa visione dell'Essere come atto che si esplica e che dunque ad un livello più alto è potenza che ha esigenza di esplicarsi – lo stesso dire che è potenza è sottoli­nearne una determinazione semmai successiva e avvicinar­lo all'io -, non è avulsa dalle intenzioni di Carabellese che si è sempre tenuto lontano dalle antropomorfizzazioni di Dio, e dunque dell’Essere, e dall’antropocentrismo, seppur metafisico? Nella ricerca di una definizione sempre simbolica e umana dell’Essere e dell'Essere in sé o Idea, che Carabellese definisce anche l’Ineffabile, come rendere ragione fuori dalle antropomorfizzazioni e dagli antropocentrismi non solo della manifestazione dell’Essere (da ricondurre poi a una legge ad essa superiore), ma anche proprio dell’Essere in sé? Ma tralasciamo queste domande che oltrepassano l’ambito della manifestazione dell’Essere, anche perché ne L’Essere e la sua manifestazione, da intendere in senso rigidamente realistico (in senso stretto), Essere e manifestazione non sono scissi né distinti, e l’Essere è affrontato come Essere che si manifesta, come potenza che si fa atto, e non c’è distinzione nel senso di separazione tra potenza e atto, cosicché è possibile ad esempio considerare il livello dell’Idea-Principio-Sostanza come potenza in sé, e potenza avente in sé il suo proprio atto. Si vuol dire che semmai il problema è nella trinità delle categorie – categorie da interpretare in senso realistico -, ma non mai nella separazione tra potenza ed atto o Essere e manifestazione. Tutto il nostro discorso di questo paragrafo mira solo in sostanza a dire che anche l’interpretazione realistica che non distingue tra potenza ed atto poiché fa della potenza un atto in sé (un’esigenza che di necessità si manifesta senza soluzione di continuità) deve necessariamente risalire oltre l’Essere - o dare una spiegazione del suo specchio, il Nulla -, sino all’Assoluto.

Sabarini, al di là del suo limitarsi al sapere l’Essere come Principio e non, come noi vorremmo in Carabellese stesso, all’Assoluto, proprio riguardo a questo “veder sorgere il tutto” – ossia la manifestazione dell’Essere in quanto Principio – e agli strumenti euristici per giungervi dà un'importante spiegazione della connessione carabellesiana Essere-Sapere, che peraltro deduce dall'argomentare carabellesia­no, giudicato piuttosto elusivo in materia. L'Essere-Sapere carabellesiano, più che rifarsi alla tradizionale opposizione dei due termini interna all'idealismo e al materialismo, è da ricercarsi nella sua origine nell'ar­gomento ontologico tradizionale e nella concezione dell'esperienza ad esso sottesa, che evidentemente Carabellese conosceva e condivideva, pur non esplicitan­dola. Infatti per dimostrare l'argomento ontologico vi deve essere un'esperienza dell'Essere che sorregga l'argomento stesso, esperienza che non è quella dell'im­mediato rapporto soggetto-oggetto al quale gli obiettori dell'argomento ontologico si rifacevano, ma quella che si ha con gli occhi della mente e che fa leva sull'intellectus fidei. Torna qui l'importanza della fede per affrontare il cammino verso la comprensione dell'Essere, così come si inserisce l'intuizione tra­scendentale e il rapporto tra fede e sapere di matrice hegeliana.  Vi sono dunque due tipi o piani di esperien­za, profondamente diversi tra loro: l'uno rivolto verso l'"esterno" con gli occhi fisici, l'altro che guarda questo stesso "esterno" ampliando la portata di tali occhi fisici mediante l'occhio di Dio o intelletto della fede, occhio che appunto richiede la fede, ma nel contempo dà vita a un'esperienza che dilata la visione perché fa leva sull'occhio centrale - potremmo chiamarlo, invece che  l'"occhio della mente" come fa Sabarini col rischio di dare  un  significato troppo restrittivo e fisicalistico a quest'esperienza, l'occhio di Dio, intendendo con questa espressione non la visione di Dio ma l'esperienza di Dio, laddove sono ambedue genitivi soggettivi, ma il primo si riferisce alla visione che ha Dio e il secondo si riferisce evidente­mente all'esperienza che ha l'uomo, un'esperienza non fisica ma spirituale che si ha attraverso la fede. Ambedue, piano dell'esperienza "fisica", e piano dell'esperienza dell'intelletto della fede, sono dunque piani dell'esperienza, che si pongono come in una scala gerarchica l'uno sopra l'altro. Lo sperimentare ha allora due significati che non si escludono ma si integrano a vicenda. L'uno è lo speri­mentare dell'esperienza empirica, che riguarda me che vivo e che morirò, e che nella breve durata dell'atto psichico, misurabile con il tempo fisico e conservabile mediante la memoria, percepisco più o meno occasional­mente degli oggetti di esperienza come contigui nello spazio e successivi nel tempo. E' l'espe­rienza dell'hic et nunc, "che ha nella vita e nella morte la sua struttura e la sua misura", e nella quale la coscienza è separata dall’essere. L'altro è lo sperimentare pieno e reale delle cose in sé, in cui il tempo non è più fisico ma ontologico, ossia consente la comunicazione tra gli uomini attraversando i secoli e i millenni[164], e in cui l'atto dell'esperienza si apre alla realtà in sé, e in questa apertura vi è la presenza dell'Essere nella sua visibilità[165]. "Questo, e non altro, sono le cose in sé: e sono tali perché squarciano l'opa­cità e la miseria dell'attimo empirico, limitato e sempre morente su se stesso, e si affermano come tangi­bile presentazione dell'essere, e perciò qualificate della essenzialità (eternità) dell'essere. [...] questo coglierle e vederle  e saperle in questa intima connessione, è ciò che Spinoza chiamava ‘scire sub aliqua aeternitatis specie’; e sono le cose che Dio creò ‘valde bona’."[166]

In questo senso, nella esperienza della cosa in  sé, che è esperienza come "possesso che dura" perché attraversa il confine tra la vita e la morte e "per durare non ha bisogno di sopravvivere nel tempo esteso, ma ne raccoglie tutte le dimensioni riassorbendole in sé", "infinite distanze temporali e spaziali" si annul­lano in un tempo che é non "più frattura, ma pienezza". Questa esperienza che non ha più la propria "struttura e misura nella vita e nella morte, ma nell'essere, è il sapere". Ecco perché Essere-Sapere, laddove l'argomento ontologico tradizionale trova la propria dimostrazione non nel passaggio dalla possibilità alla realtà, ossia nella deduzione dall'idea all'essere, passaggio e deduzione irti di difficoltà, bensì nell'esperienza del sapere l'essere che si fonda sul cominciamento primo dell'Essere-Sapere e che trova la propria giustificazione nel fatto che "affermare l'essere è saperlo, affermare il sapere è esserlo”[167].

Qui la filosofia è divenuta metafisica, ossia afferma­zione ed esperienza dell'Essere come  "scoperta delle cose in sé, nel loro esser presentazione dell'essere in e per il quale sono significanti.",  cose in sé che "si sono cercate nell'iperuranio o in chissà quale altra introvabile regione dell'essere, e sono invece e sempre sotto i nostri sguardi, purché si sappia guardare".   E qui la filosofia come metafisica si rifà a Parmenide, laddo­ve l'Essere è ciò che dura, e dunque il tempo è la qualità dell'essere. "Ricapitolando: l'affermatività fondamentale è il cominciamento, come connessione esse­re-sapere, che si caratterizza come durata, la quale si specifica come tempo, che è diversificazione qualitati­va."[168] Laddove non si può non dissentire da Sabarini nel momento in cui ci sembra che il suo sguardo si limiti alla manifestazione dell’Essere e all’Essere che dura. Non soltanto la metafisica critica dello stesso Carabellese non si limita alla connessione Essere-Sapere, ma la oltrepassa interrogandosi direttamente sull'Essere, dove il sapere è scomparso, poiché evidentemente la stessa connessione Esse­re-Sapere appartiene ancora, e di questo Carabellese era consapevole, ad una visione umanistica dell'Essere, oltreché dualistica, che non può che trova­re il proprio cominciamento, questo sì diretto all’Assoluto, nell'Essere stesso. L'Essere-Sapere implica ancora l'uomo, o meglio il soggetto o spirito, dal momento che l'uomo è stato da Carabellese abbandonato già da subito col parlare di soggetti plurimi che, come pensanti-che-vivono, oltre­passano il tempo atomisticamente inteso e la morte. Con ciò non si vuol dire che l'Essere non sia Sapere: sarebbe un as­surdo. Ma semplicemente che al livello dell'Essere, che è per Carabellese – ma non per noi sulla scia di Hegel - il livello sommo, questa specificazione non è più necessaria, è implicita. E' per questo che per la rico­struzione dell'articolazione del sistema della metafisi­ca carabellesiana sarebbe estremamente importante stabilire de L’Essere, oltre alla Parte II sull'io, cosa facesse parte come I, qual'è l'altro Distinto che Cara­bellese mette in relazione all'io, e che noi ipotizziamo sia Dio come Assoluto. Infatti, nonostante l’antiumanismo e i reiterati inviti a non antropomorfizzare Dio e a non cadere nell’antropocentrismo, Carabellese, pur concependo l'uomo come pensante che vive e negando che Dio sia Soggetto Universale, pure concepisce nell'Essere il concetto del Soggetto Universale, l’Io, aprendo il problema della sua interpretazione in termini dogmatici trinitari. E’ possibile, dopo Kant e oltre Carabellese, abban­donare qualunque riferimento umanistico e antropocentrico al soggetto, anche Univer­sale, e guardare direttamente oltre, nel cuore del proble­ma metafisico, al di là del processo, che è dialettico nel senso che si è chiarito, al di là della manifesta­zione, nella quale trovano posto anche la realtà e l'at­tività spirituale umana, al di là del tempo, anche inteso ontologicamente come durata e dunque qualità dell'essere? E’ ciò che qui tentiamo di fare, leggendo Carabellese e tenendo conto delle sue indicazioni, oltre che dei suoi limiti e di quelli che a noi sono sembrati i suoi progetti in fieri.

Inoltre si pone un altro problema. L’esperienza metafisica della ragione che si serve dell’intelletto della fede come possibilità per accedere all'Essere, sebbene esperienza di secondo livello non immediatamente empiristica, è pur sempre esperienza, ossia non solo appartiene al soggetto, seppure sapiente e seppure persona - è la visione dell’Essere da parte del soggetto -, ma pone il problema della sperimentabilità. Della visione di Dio, nel senso del genitivo soggettivo, il soggetto, anche in quanto spirito, non sa nulla, se non ciò che quelle esperienze della ragione possono indicargli mostrandogli la strada, e se non ciò che la propria fede, intesa qui come sapere, può dettare.

 

9. Essere e tempo: la storia da divenire a forma della manifestazione dell’Essere

  

Nel confronto Hegel-Carabellese specifico sull’Essere-Sapere e sul sapere l’Assoluto, ci sia consentita una breve incursione che qui ci sembra necessaria, e non appaia immodesta,  nell’ultimo capitolo, l’ottavo, della Fenomenologia dello spirito, quello intitolato a Il sapere assoluto. Ciò perché è nostra domanda implicita, sottesa alla trattazione seppure superficiale del problema dell’Assoluto in Carabellese, dovuta anche, come si è detto, ai suoi sporadici riferimenti, se e in che rapporti si trovi il sapere con la ragione, o se si vuole il Sapere con la Ragione – quale comprenda, e tolga, l’altro, non solo in Hegel, che è cosa nota, ma anche in Carabellese e, vorrei dire, nella filosofia d’oggi, oltre che nella realtà -, domanda metafisica che comporta l’altra, di carattere gnoseologico: se, in qual modo, donde, con qual fine e perché l’io possa sapere l’Assoluto. Considero illuminante questo capitolo hegeliano su Il sapere assoluto ai fini di questa breve digressione sull’aspetto specifico dell’Essere-Sapere come presa di distanza di Carabellese da Hegel più retorica che fattuale – sebbene da considerare attentamente negli scopi finali, i veri motivi della polemica e della scissione – lungo il corso del suo intero arco di riflessione e meditazione. Ciò perché in quest’aspetto si ritrovano motivi da Carabellese sviluppati e ripresi, anche se spesso deviati nei fini e nei significati, e forse è qui la causa – se di filiazione (Carabellese conosceva la Fenomenologia ?) e non di autonoma genesi si può parlare – del silenzio di Carabellese su fonti, o stimoli, del suo pensiero che noi appunto ci chiediamo se, e in che forma, conoscesse (problemi di introduzione delle opere hegeliane in Italia, o di loro lettura in originale, oltre che di curriculum studiorum – in senso letterale -  di Carabellese stesso). Infatti  questi motivi sono da lui, se conosciuti, sottaciuti, e renderli chiari, oltre a costituire in sé servigio alla letteratura, aiuta nella comprensione del suo pensiero. Ci sembra di poter ritrovare pure in Hegel il concetto carabellesiano di Essere-Sapere, già da noi analizzato anche in rapporto agli stimoli sabariniani in direzione del livello dell’Essere origine e genesi – Genesi, si potrebbe dire – dell’essere, e se Hegel tratta l’essere-sapere dal punto di vista dello spirito e della sua fenomenologia, ossia da un punto di vista storico che richiede il tempo e lo fonda – in ciò, vedremo, apparentemente lontano da Carabellese, sempre attento a sconfessare il tempo storico e diveniente -, questo livello fenomenologico-storico di Hegel è possibile, e qui entra Carabellese, solo se si pone l’Essere-Sapere come stato originario, ossia come fondamento di questo stesso sviluppo dello spirito. Ma bisogna intendersi sulla latitudine da dare al monismo dualistico dell’espressione Essere-Sapere in Carabellese e sul significato dunque della Genesi: genesi di che cosa? Non dell’Essere, poiché il livello della Genesi dell’Essere è dato dalla triade Essere: Dio Io, laddove l’Io è Soggetto e Dio è Oggetto. La genesi cui qui, nel livello dell’Essere-Sapere, si fa riferimento, non è quella dell’Essere, potremmo dire la Genesi assoluta, la Creazione. E ’ viceversa la genesi successiva, quella che vede l’Essere-Sapere come stato originario e genetico dello sviluppo parallelo e circolare della coppia Dio Io, per cui l’Io dice “l’Essere è” e Dio dice “Io sono colui che sono”. E’ la genesi dell’identificazione tra filosofia e pensiero di Dio, laddove il genitivo è a un tempo soggettivo e oggettivo. Questo stesso porre l’Essere-Sapere come stato stato originario di tale identificazione pur nella distinzione Dio Io (anche qui una triade, anche se nel livello inferiore, quello della scissione, Essere-Sapere: Dio Io) è ciò che fa Carabellese sulla scia della sua (nostra?) reinterpretazione del Vecchio Testamento, ossia di quello stato mitologico dello spirito – la religione positiva intesa come rappresentazione - che Hegel considera un’oggettivazione da togliere, stato rappresentativo che anche in Carabellese è possibile considerare stato positivo, anche per Carabellese da superare, di un suo intrinseco teismo profondamente reinterpretato e non tradizionale. Solo in questo senso dell’Essere-Sapere come fondamento dell’essere che sa, e del sapere che è, ossia nell’ottica del superamento, di cui Carabellese vuol costituire l’asse, della scissione tra filosofia del conoscere e filosofia dell’essere su tutti i livelli in cui la filosofia si articola, è possibile interpretare, in uno dei suoi molteplici livelli e significati possibili, Il sapere assoluto sin dal sottotitolo, Il contenuto semplice del Sé che sa sé come l’essere, come primo stimolo, se di stimolo si può parlare, dell’Essere-Sapere carabellesiano. In questo senso l’Essere-Sapere è momento originario, e ritorno come fine del movimento che dà origine a sua volta allo spirito come sapere di Sé, ossia come Sé, presupposto – non apriori ma storico - del sapere l’Assoluto, ed è momento originario del movimento stesso. E l’Essere-Sapere ha a contenuto – contenuto, non oggetto, afferma Hegel – lo spirito assoluto, l’Assoluto.

Altra cosa che ci appare importante ne Il sapere assoluto, e che si delinea come un’incomprensione carabellesiana di Hegel, è il concetto di alienazione. Se Carabellese la vede solo come movimento negativo, per l’opposizione che essa pone dell’oggetto come altro, essa è da considerare invece in Hegel, come si è detto più volte a proposito dell’Aufhebung, stato necessario e positivo, necessario e positivo, come afferma Hegel, non solo per noi (che guardiamo), ma anche, oltre che in sé, per l’autocoscienza stessa. E’ ovvio, ma vogliamo ripeterlo esplicitandolo ulteriormente, che qui si sta interpretando questo movimento a partire dall’Essere-Sapere carabellesiano, e nella direzione della coppia qualitativa Dio Io interpretabile non solo come Oggetto-Soggetto, ma anche come Persona, e perciò autocoscienza, che trova nella filosofia il suo spazio d’espressione. In questa chiave interpretativa dell’alienazione come stato necessario e positivo dell’autocoscienza nel movimento verso il Sé che passa per lo stato Io=Io (confronto-riconoscimento), l’iniziale nullità dell’oggetto nell’alienazione di sé nell’oggetto stesso, nullità che è originaria immediatezza e semplicità dell’oggetto stesso come cosa in genere – l’Oggetto, in Carabellese Dio, o meglio quello che è un livello di Dio -, si trasforma nella progressione del movimento in Universale, cosicché l’oggetto come intero è il triadico movimento verso il singolare, dal singolare, verso l’Universale. Questo movimento definisce l’oggetto come Io in rapporto al soggetto come Io, cosicché si ha il confronto-distinzione-omogeneità Io=Io, confronto nel quale l’Io del Soggetto che attua il movimento (e in ciò è Dio, essendo il movimento Dio Io) viene al Sé – ossia alla sua essenza o interiorità (Hegel dice che è interno) -  nelle sue varie forme dell’esser certo di se stesso, dell’esserci e del sapere di sé, ossia viene all’assoluta essenzialità intesa come autocoscienza morale: è questa che sa l’essere come sapere. Dunque, in Carabellese, il livello di Dio denominato Essere-Sapere fonda e a un tempo è ritorno (principio e termine) dell’autocoscienza morale come essere che sa, sapere che è. In questo senso l’autocoscienza morale è sottesa a tutto il movimento dal principio al termine. E, afferma Hegel, essa autocoscienza morale, in quanto Sé, seppure non ancora nella forma del sapere assoluto, e dunque conchiuso, può porsi come coscienziosità che agisce e che sa quest’azione come fondata nel puro sapere che il Sé ha di sé. Ma il sapere dell’Io è veramente sapere sol allorquando raggiunge, dopo il movimento dal singolare all’universale all’essenza, l’Io stesso, ossia quando sapere dell’Io e Io si identificano, per cui il singolo Sé è immediatamente puro sapere o sapere universale.”[169]

L’unificazione dello spirito a partire dalle due forme dell’essere in sé (la religione, che ha a contenuto l’Assoluto, o meglio, afferma Hegel, il contenuto assoluto dello spirito) e dell’essere per sé (la coscienza) deve essere l’unità semplice del concetto. Tale concetto è già dato nella coscienza intesa come autocoscienza, ossia ancora opposizione, altro lato (movimento), della riflessione, ma è dato, afferma Hegel, nella figura dell’anima bella, ossia dello spirito che sa se stesso come unità pura e trasparente: “non soltanto l’intuizione del divino, ma l’autointuizione del divino.”[170]

Nella linea ideale che Carabellese traccia come linea maestra dell’idealismo - Platone, Plotino, Bruno, Galilei, Cartesio, Spinoza, Leibnitz, Vico, Kant, Rosmini -, l’idealismo concreto si pone dunque come una tappa verso l’idealismo assoluto. In questa linea ideale, la via che potrebbe condurre Carabellese ad un ripensamento in positivo dei suoi rapporti con l'hegelismo, e che mostra tutta l'attualità del suo pensiero, è il riconoscimento carabellesiano del legame tra Kant ed Hegel sia nell'innalzamento della dialettica contrad­dittoria della ragione dal piano gnoseologico al piano metafisico di legge di movimento del reale come spirito, sia del ruolo  della con­traddizione, che da valore negativo come in Kant assume valore positivo di motore, potremmo dire, del reale: "[...] non solo la vera conoscenza, ma la realtà stessa è proprio questa dialettica kantiana, che proprio per il suo contraddirsi è vera. [...] La metafisica è riguada­gnata, in quanto è riconosciuta come logica dialettica."[171]. E ancor più questa precisa e puntuale consi­derazione del rapporto teoretico tra Kant e Hegel viene alla luce quando Carabellese parla  di una "genesi critica" della dialettica contraddittoria di Hegel e di una trasformazione del pensiero critico in metafisica[172].

In questo riconoscimento del piano speculativo e reale e non meramente riflessivo e gnoseologico della dialettica nel passaggio da Kant ad Hegel, i motivi che conducono Carabellese a non ricomprendere anche Hegel e l'hegelismo nello sviluppo dell'idealismo da lui tracciato, ma anzi nel considerarlo come la figura conclusiva della filosofia moderna che considera l’essere separato dal conoscere, sono ancora sottaciuti. Nonostante tale affermazione dovrebbe essere seguita da un pondero­so studio di confronto tra Hegel e Carabellese tutto da fare, pensiamo di aver se non altro suggerito che il pensiero carabellesiano è una metafisica anch'es­sa in qualche modo di derivazione hegeliana, una metafi­sica che non può pensarsi senza Hegel. Il suo tentativo di sviluppo in senso metafisico del criticismo kantiano, infatti, non poteva non risentire dell'hegelismo in alcuni elementi fondamentali della sua metafisica, come, in primis, il sapere l’Essere nel rapporto diretto e immediato tra Dio e io, e poi l'immanenza di Dio e l'essere il Concreto sia una sua manifestazione sia un'attività che si esplica attraverso la legge dialettica. Certo una metafisica di derivazione anch'essa hegeliana, ma che di Hegel rifiutava come formale e contraddittoria la sua dialettica già in opere molto precedenti a L'idealismo italiano: in Che cos'è la filosofia?, del 1921, i riferimenti polemici alla logica dialettica hegeliana si condensano nell’affermazione che è un assurdo la sua pretesa di volersi sostituire alla logica comune, dalla quale invece la vera e propria logica filosofica deve derivare, perché sarebbe un non senso poter immaginare una logica in contraddizione con quella comune. Per Carabellese bisogna abbandonare sia l'opposizione dialettica  che l'elevazione del divenire a legge del reale, per ricondurre il divenire stesso alla sua natura di apparenza. E’ la contraddittorietà della dialettica hegeliana  in altre parole il più radicale motivo di dissenso dall’idealismo hegeliano, che, espresso  ne L'idealismo italiano come accusa di conservare nella negatività un presupposto realistico e di essere dunque la "negazione dell'ideali­smo", viene ripresa in  Da Cartesio a Rosmini[173],  dove si afferma che a causa della negatività l'attività dell'Essere in Hegel è empiristica e non ontologica, e perciò "schiettamente umani­stica", conducendo per un verso al solipsismo, per l'al­tro all'astratto gnoseologismo: in tal modo l’attivismo hegeliano si pone fuori dall'idealismo concreto.  Dunque una metafisica che risentiva di Hegel ma che di Hegel rifiutava la dialettica, seppure ad una dialettica alternativa a quella hegeliana l'ultimo Carabellese giungesse: la dialettica è in Carabellese come in Hegel la legge  metafisica di sviluppo della realtà, ma Carabellese la concepisce, a nostro parere non penetrando quella hegeliana sino in fondo, come  intensiva e penetrativa, non come alternativa e negativa. Il problema ha un’importante ricaduta nella concezione del tempo - il rapporto con l'hegelismo riguardo al problema del tempo è visibile anche ne La coscienza morale, del 1915[174] -   e della storia, che infatti porta Carabellese a rifiutare lo storicismo a lui coevo.

Carabellese non concorda con la linea interpretativa di Meinecke e di Croce  che considerano lo storicismo la seconda grande rivoluzione del mondo moderno dopo la Riforma protestante, ambedue da attribuire alla Germa­nia, né con Croce che ne rintraccia i prodromi in Vico, ma anzi reputa lo storicismo e l'hegelismo come la  negazione della storia vichiana[175]. Il rapporto di Carabellese verso lo storicismo da inesistente come nei primi anni del suo itinerario filosofico si fa polemico[176] in modo via via più consapevole e maturo, fornendo spunti per la comprensione della sua metafisica: negli anni in cui, tra il 1914 (data di pubblicazione de L'Essere e il problema religioso. A proposito del 'Conosci te stesso' di B. Varisco, dallo stesso Carabel­lese indicata come data di inizio del suo periodo pre­critico) e il 1921 (data di pubblicazione della prima edizione della Critica del concreto[177], ma anche anno di pubblicazione del saggio Che cos'è la filosofia?[178], ambedue a conclusione del suo periodo precritico e a inizio del periodo critico, in cui comincia ad elaborare anche sulla base dell'interpretazione originale di Kant il proprio ontologismo critico), e poi tra il '21 appun­to e il 1931 de Il problema teologico come filosofia, che può essere considerato l'inizio del suo periodo metafisico finalizzato all'elaborazione di una metafisica critica, e ancor più il 1934, a cui risale il discorso su L'essenza della filosofia[179], (dove Carabellese  ribadisce il ruolo della filosofia come filosofia prima), dicevo negli anni in cui, tra il 1914 e il 1934, o più ancora il '42 del già ricordato Che cos'è la filosofia?,  Carabellese viene prima elaborando l'ontologismo critico, e poi impostando la metafisica critica che troverà espressione nei corsi degli anni 1943-48 su L'Essere, su L'Essere e la sua manifestazione e su L'attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell'Essere – e ci sembra di suggerire così che non vi è termine, se non umano, nella formazione di un nuovo pensiero filosofico -, il problema della storia e del suo rapporto con il tempo accompagna sotterraneamente Carabellese, che vi prenderà posizione in modo esplicito, se si esclude l’articolo del 1915 su La realtà dei fatti storici[180], soltanto nella maturità.  Non che Carabellese ricerchi una possibilità di dialogo con lo storicismo, la cui impossibilità era stata anzi stigmatizzata dalla celebre accusa di Croce alla sua filosofia di inconcludenza sublime, accusa da Carabellese prontamente ribaltata in motivo di orgoglio contenutisticamente motivato. Piuttosto Carabellese prende posizione rispetto allo storicismo della sua epoca non solo nel ricordato Storicismo o ontologismo critico, del 1941 - dove il fulcro della polemica, al di là dell’incomprensione della riduzione della coscienza alla cultura, è nell’identificazione della Coscienza con il Soggetto – ma anche attraverso scritti come quei Problemi filosofici della storia pubblicati nel collettaneo Il problema della storia del 1944[181], da confrontare con quel La storia apparso già nel 1925  negli altret­tanto collettanei Scritti filosofici pubblicati per le onoranze nazionali a Bernardino Varisco nel suo LXXV anno di età[182]. E qui un'analisi filologica comparata dell'eventuale mutamento del concetto di storia  inter­corso tra il '25 e il '44, ossia tra il Carabellese ancora legato all'eredità filosofica varischiana e ai suoi quadri di riferimento e il Carabellese maturo ormai decisamente spostato, secondo noi, verso una ricomprensione dell'hegelismo nella necessaria articolazione dialettica della sua metafisica,  mette in evidenza in modo circostanziato quella che si presenta come una sostanziale distanza del concetto carabellesia­no di Essere da quello di divenire, inteso questo nel pensiero carabellesiano come apparenza fenomenica ma non come sostanza della manifestazione dell'Essere. Secondo Carabellese l’Essere non diviene, ma è: nella storia dell’Essere, il divenire è apparente poiché in esso i momenti del tempo sono intensivi – cioè coeterni - e non estensivi, per cui il processo è sì manifestazione dell’Essere[183], ma non è né un processo evolutivo[184] – l’evoluzionismo essendo in filosofia, in assoluta coerenza con la concezione carabellesiana del tempo, “naturalismo presocratico”[185] – né un processo che riguarda soltanto l’uomo. Questa distanza spiega le ragioni più profonde dell'opposizione di Carabellese allo storicismo a sé coevo: il rifiuto della storia come processo diveniente che si attua nella scissione tra uomo e natura e nel privilegiamento della coscienza come facoltà umana[186]. Il riconoscimento esplicito a Vico e il forte senso del processo dell'Essere come manifestazione - che non si identifica con l'Essere inteso come Assoluto - significano allora che nella storia, che è storia di tutto l’Essere, ossia storia metafisica, si ha l’immanenza di Dio, la cui trascendenza come Principio significa solo la sua inesauribilità nella concretezza ma non il suo essere al di là di essa. E in questa storia che è vichianamente manifestazione divina in figure dello spirito non soltanto umane – Carabellese fa riferimento alla acentralità dell’uomo non solo rispetto alla “natura”, ma anche nel cosmo, con la possibilità di altre intelligenze - si fa visibile l’eterna Provvidenza. Questa storia non è divenire ma attività, fare, perché è “una grande falsificazione intellettualistica di Kant concepire la sintesi come sintesi di tesi e antitesi”: “(…) l’attività si consegue con l’essere, il fare non esclude ma richiede l’essere. Chi dimentica questo principio non può che porre il fare come un disfare (negatività dello spirito) non può che scambiare l’attività (essere) con la sua apparenza (divenire)”[187]. Il valore della filosofia moderna è appunto nel riconoscere che “(…) l’essere è fare e non stare al di là di ogni fare”[188]. L’essere in sé e il divenire non sono scissi, ma anzi - è la grande scoperta di Kant - vi è “unità concreta dell’essere che diviene.”[189], per cui il divenire ha la sua legge nell’essere, e questo la sua realizzazione nel divenire, anche se in Kant ancora vi è un concetto di tempo come fenomeno, per cui l’essere rimane al di là del tempo.

Qui si inserisce il riconoscimento carabellesiano a Hegel, da interpretare nel senso del realismo della Wirchlichkeit cui abbiamo più volte alluso. Per Carabellese Hegel, nel togliere la distinzione tra l’in sé e il divenire dell’atto,  sostituisce nella metafisica la concezione statica dell’essere naturale con quella dinamica del divenire spirituale, dando piena espressione metafisica alla concretezza kantiana e eliminando il valore fenomenico del tempo: in ciò il suo valore storico. Con lui “(…) la realtà diventa concreta e continua realizzazione. (…) Il manifestarsi temporale è la stessa realtà concreta. Essere e apparire sonounum et idem, perché l’essere è attività che si manifesta, e l’apparire è il manifestarsi dell’essere.”[190] Ci sembra qui di poter inserire il concetto di continuo, in particolare come connessione tra fisica e metafisica che riguarda, oltre al tempo e alla storia, anche il problema del rapporto tra potenza e atto[191].

Nel contesto delineato, il problema della "storicità come vita dell'Essere concreto", secondo un'espressione felicemente coniata da Fulvio Tessitore in un suo complesso intervento[192] , è apparentemente in Carabellese total­mente assente: egli non parla mai di una storia dell'Es­sere concreto come vita della realtà, sia perché individua nel termine vita una connotazione, seppure anch'essa ontologica nell’essere rapportata all'Esse­re concreto, che può dare adito a malintesi esistenziali o biologistici, sia forse perché non vuole confusioni con il concetto cristiano di amore come vita universale, sia soprattutto perché riserva restrittivamente il termine vita all'indivi­dualità singolare dei pensanti-che-vivono e il termine storia alla storia umana. Perciò che la realtà sia "storia e nient'altro che storia", e che questa storia sia hege­lianamente Spirito nel suo "perpetuo crescere sopra se stesso", come la riflessione storicista più recente viene così profondamente esplicando, trova anche il Carabellese maturo apparentemente distante, a meno di non interpretare, come lui stesso invita, lo Spirito nel senso di spiritualità, che attuandosi esplicita l’implicito crescendo appunto vichianamente “sopra se stesso”: solo in questo senso si può parlare in Carabellese di un processo come "crescita dello Spirito sopra se stesso", processo  spiraliforme che svolge l'Essere e avvolge l'essere[193], in cui la temporalità è intensiva. Infatti se Carabellese non parla mai di una storia dell'Essere concreto come vita della realtà, ciò non significa che rifiuti una concezione dinamica dell'Essere concreto come processo, dal momento che anzi per lui il tempo ha un valore ontologico.  Egli parla piuttosto di un Essere, che non è l'Essere concreto, che nel suo manifestarsi diviene processo come manifestarsi dell'Essere in un processo che è storico in quanto avviene nel tempo, cosicché il tempo è il tempo del processo: solo in questo senso la dimensione del tempo è in lui[194] sintomaticamente presente. Infatti per quanto Carabellese coniughi l'essere con il divenire, questa coniugazione avviene al livello della manifestazione dell'Essere, ma tale  attività dell'Essere concreto come processo che ha come coorigi­nario il tempo non esaurisce l'Essere stesso: al livello dell'Essere concreto come essere-divenire o attività Carabel­lese parla di durata intensiva, all’interno della quale soltanto hanno senso e valore i concetti di principio e termine. Pertanto si può dire che egli risente comunque della concezione hegeliana della temporalità, ossia di una concezione ontologica del tempo inteso come originaria  forma dell'Essere, ma non al livello dell'Essere. Infatti è da distinguere, pena l’incomprensione della sua metafisica, il piano della manifestazione e il piano della durata. Se l’Essere si manifesta, e dunque anche muta nel divenire – pur nella permanenza della sostanza -, non per questo muta nell’Essere, o meglio muta l’Essere: la manifestazione è al tempo stesso un mutare e un permanere identico. E’ per questo che il tempo è coeternità, ossia che i momenti del tempo non sono successivi e discreti – ossia atomistici -, ma, pur nella loro distinzione, penetrativi – potremmo dire continui in senso stretto -, per cui il presente è sempre anche passato e futuro, il passato anche presente e futuro e il futuro anche presente e passato, nella loro intensività che Carabellese fa risalire ad Agostino.

Nel La storia, il saggio del ‘25 in onore  di Bernardino Varisco, Carabellese si inserisce nel dibattito sulla natura e lo statuto della storia contestando quelle posizioni che riducono la storiografia, in quanto storia di fatti che non sono più, a una creazione ideale dello storiografo: nel ritenere mal posto e ozioso il dibattito sulla natura scientifica o estetica della storia, Carabellese le attribuisce anche un carattere estetico (in quanto espressione), ma soprattutto vi vede la necessità di una sintesi tra libertà e dovere scientifico, che fa rivivere il fatto storico “morto” attraverso il presente e il futuro che continuamente riscrivono quel fatto in modo nuovo. La storia[195] è historia rerum che implica la res gestae, operazio­ne di conoscenza che lo storico attua nel presente sulla res gestae intesa come creazione umana del passato che viene rivissuta (Carabellese, con evidente accento diltheyano, dice sentita e voluta) nel presente dalla historia rerum.  Ribadendo che la riflessione filosofica deve far ricorso alla concretezza della coscienza comune se vuole uscire dalle morte formule dogmatiche e ritrovare l'impulso al proprio rinnovamento, Carabellese ritrova nella coscien­za comune la visione della storia come accadere raziona­le di fatti, e da qui prende le mosse per delucidare la propria riflessione sul tempo in senso ontologico, mostrando come una concezione che consideri nullo il passato, in realtà nullifi­chi anche il presente, e con ciò tutto l'Essere. Carabellese vede la radice di questa negazione della storia nella millenaria concezione che vuole l'Essere come eterno in sé al di là del tempo, e il tempo, in quanto mutamento, come fenomenicità, come parvenza, come non essere. Appellandosi all'urgenza di una riforma dell'estetica kantiana, vista come ulteriore affermazio­ne della fenomenicità del tempo, Carabellese le oppone una metafisica del divenire che concepisce l'Essere come un Essere che diviene, dunque un Essere come attività alla quale è cooriginario il tempo. All'idea hegeliana del tempo come temporalità essenziale allo Spirito nel suo manifestarsi, che condivide, rimprovera però di privilegiare uno solo dei momenti del tempo, il presen­te, ribadendo invece la compresenza e coessenzialità di tutti e tre i momenti, passato, presente e futuro, che sono non estensivi ma intensivi, per cui in ogni momento vi è sempre compresenza e coessenzialità di presente, passato e futuro, cosicché il divenire non si fonda sulla contraddizione. Alla temporaneità empirica che il divenire implica come successione atomistica di istanti posti estrinsecamente gli uni dopo gli altri con un inizio e una fine, Carabel­lese oppone la temporalità che è cooriginaria all'Esse­re concreto come durata eterna che non ha né inizio né fine, perché  intensivo e non estensivo[196].

C’è qui la precisa contestazione dell'idea di eternità sia come assenza di tempo, sia come eterno presente: per Carabellese “bisogna andare ancora più in là”, e vedere l'eternità come infinità temporale, assoluto tempo, temporalità da non confondere con la temporaneità. Se in questa i tre momenti del tempo sono empiricamente e fenomenisticamente reciprocamente escludentisi, in quanto circoscrivono praticamente le singole cose che in essi accadono, in quella passato, presente e futuro sono reciprocamente implicantesi, in quanto essi rappresenta­no le forme essenziali in cui l'Essere si determina. E questa reciproca implicazione come intensione e non estensione dei momenti del tempo è esemplificabile dal fatto che la determinazione del prima e del poi non è assoluta, ma è una questione di prospettiva che cambia a seconda del punto di vista dal quale ci si pone nell'os­servazione: la temporalità pura non è successione. Identificare la temporalità con la tempora­neità, la durata con la successione, è errore che appar­tiene ancora a una visione statica e intellettualistica dell'Essere. Ciò che Carabellese contesta, in altre parole, è sia l'ontologismo tradizionale della visione statica dell'essere, sia il realismo del diveni­re empirico, seppure trasposto sul piano metafisico. Per quanto anche per lui l'Essere è attività, tale attività non ha una direzione tempo­rale estensiva, ma intensiva: i momenti del tempo onto­logico - della temporalità - si coimplicano, e questa coimplicazione avviene dall'eternità come durata che implica come reciprocamente immanenti la realtà (presente), il fatto (passato), e la possibilità (futuro): l'essere è sempre anche essere stato e dover essere.

Allora, "[...] la storia è intesa come scoperta dell'essere [...] e suo sviluppo inesauribile. In questo disegno la storia della filosofia è il processo di sviluppo in cui si articola la fondamentale affermazione metafisica che ad essa presiede [...]. Dalla semplice affermazione: l'essere è, passiamo così ai suoi caratteri: mentale (Anassagora), in quanto idea (Platone), e perciò principio di coscienza, ecc. La storia è pertanto processo progrediente, e cioè sviluppante, ciò - l'esse­re - di cui è svolgimento."[197] Questa stessa concezione ontologica del tempo nella sua cooriginarietà all'Essere che si manifesta era già chiaramente espressa nella Critica del Concreto, dove infatti Carabellese afferma che i momenti del tempo sono i “soli fondamentali concreti” momenti dell'Essere. La concezione ontologica del tempo, che non è né quella realistica prekantiana né quella idealistica kantiana di matrice platonica, corregge il pregiudizio che tempo puro sia successione come rapporto di prima e poi, e considera il tempo come pura esigenza temporale della co­scienza, la cui durata intensiva è il reciproco penetrarsi delle sue forme: gli irriducibili passa­to, presente e futuro sono - come forme - momenti eterni dell'unica durata[198], che è l'Essere.

La polemica contro gli storicisti della sua epoca, che a suo parere dimenticano la concretezza (e ci è parso di aver se non altro suggerito l'infondatezza di questa posizio­ne carabellesiana alla luce delle posizioni più recenti dello storicismo italiano) -, si iscrive dunque nel percorso dell’ultimo Carabellese, che ne L’Essere e la sua manifestazione procede alla razionalizzazione del processo in sistema[199]. La comprensione da parte del soggetto del processo come sviluppo da un lato risente ancora dell'ottimismo illuministico, dall'altro richiede al soggetto la comprensione non del solo significato, ma anche del senso complessivo del processo stesso: un innalzamento del soggetto al punto di vista dell’Assoluto e alla fine sempre provvisoria del processo stesso che fa essere la filosofia appunto, la nottola di Minerva. Carabellese coniuga il senso razionale del processo con l’elevazione del soggetto, dell'uomo come pensante-che-vive – interessante ripetiamo sarebbe istituire un parallelo con la concezione simmeliana del “più-vita” e “più-che-vita” -, al piano ontologico, conservandogli in ciò, oltre alla propria libertà, la propria responsabilità, la propria azione morale. Perciò egli mostra un forte senso della storia anche dal punto di vista della storia della filosofia[200]. Il rischio di appiattire il suo pensiero su di un'ontologia di tipo tradizionale, ossia unilateralmente oggettiva, esiste allora solo per chi la leggesse in modo superficiale e sbrigativo, mentre essa si pone se non altro in consonanza con le direzioni più innovative della ricerca filosofica europea, oltrepas­sando le tradizionali categorie dell'essere e della sostanza, e coniugando a livello della manifestazione dell’Essere l'essere con il divenire nel senso che si è sopra chiarito. L’Essere carabellesiano non è statico e immobile, ma un Essere che è manifestazione, movimento, attività, divenire nel tempo: un Essere che viene all'essere. Quantunque perciò egli si ponga sempre in posizione fortemente polemica nei confronti dell'idealismo hegeliano - per la non accetta­zione del privilegiamento del presente e della risolu­zione dell'Essere nel divenire - pure il suo sviluppo metafisico del criticismo kantiano riconosce un debito all'hegelismo nello stesso concetto di Concreto come Essere che è attività.

 

10. Sintesi a priori fisica e sintesi a priori metafisica. 

La critica a Kant: la costruzione di una sintesi a priori metafisica 

e la ricerca di una critica dell’esperienza di fatto

 

Ma torniamo ad analizzare più nel profondo,  scendendo ora nell’analisi dei testi, il proficuo rapporto che Carabellese instaura lungo tutta una vita con le opere kantiane.

Kant secondo Carabellese rappresenta il terzo momento della conoscenza dopo quello di Cartesio e Hume, il primo che impostò il problema dell’origine e il secondo quello del valore della conoscenza, eppure lasciò secondo Carabellese inevaso il vero quesito di Hume, che non riguardava la conoscenza come scienza, la cui possibilità Kant dimostrò contro l’affermazione humiana di un’abitudine soggettiva, ma piuttosto concerneva il problema dell’esperienza empirica concreta. Kant si è posto la questione quid juris ma non la questione quid facti: “[…] ha spiegata così la scienza nella sua universalità, non ha  spiegato la esperienza nella sua individuata determinazione”[201], cosicché egli ammette una sintesi a priori senza porsi il problema dell’esperienza nella sua attualità, lasciando in balia dello scetticismo il problema dell’esperienza: è questo ciò che Carabellese considera un compito che si apre al pensiero filosofico dopo Kant, nonostante le correnti empiristiche, pragmatiche e positivistiche, quello di una critica dell’esperienza concreta. Ecco uno dei motivi che sono all’origine della Critica del concreto, che Carabellese ha gia già pubblicato in prima edizione nel 1921 e poi ripubblicherà nel 1940 e nel 1948.  Gli altri Carabellese li esplicita in una citazione del 1931, illuminante perché in essa egli non si ferma soltanto al piano dell’esperienza concreta, ma investe direttamente il problema dell’essere concreto, e dunque dell’attività spirituale non soltanto umana, distaccandosi dal piano meramente gnoseologico e ponendosi del tutto sul piano ontologico: “ La Critica […]”, dice infatti Carabellese ne Il problema teologico come filosofia, “non può più essere quello che Kant istituì […], non può più essere soltanto critica della conoscenza […], deve diventare critica della coscienza, cioè critica della concreta attività spirituale, critica dell’essere nella sua concretezza […]. La Critica ha posto   capo all’essere come noumeno, e cioè essere che è coscienza […]. Scoperta la concretezza e cioè l’immanenza dell’essere in sé come puro oggetto, ad ogni atto con cui la coscienza del soggetto si realizza, non ci basta più e non è più necessario neppure sapere come è possibile conoscere […].” E poi continua con una citazione famosissima della Critica del concreto: “Al problema kantiano: <<come è possibile conoscere?>> bisogna quindi sostituire l’altro <<come è possibile essere?>>.

Così la Critica da problema della scienza diviene problema della stessa coscienza. Sembra un ritorno a una vieta ontologia dogmatica, ed è invece il logico sviluppo della conoscenza critica della realtà […].”[202]

Il nucleo della critica carabellesiana non tanto e non solo a Kant, quanto ai suoi successori, è rintracciabile in quell’intellettualismo e gnoseologismo che hanno voluto ridurre il reale portato della Critica a mera critica della conoscenza. All’intellettualismo allora bisogna sostituire per Carabellese il coscienzialismo, ossia una visione della realtà che privilegi, più che l’intelletto, strumento riduttivo della conoscenza e della scienza, la coscienza, intesa da un lato come attività spirituale umana nella sua globalità, ma dall’altro, e ben più profondamente, come essenza della realtà stessa, ossia non soltanto come coscienza soggettiva e umana, ma come coscienza assoluta. La scienza, in questo orizzonte, diviene marginale, in quanto il suo strumento, l’intelletto, che scinde la realtà in soggetto e oggetto, non è in grado di cogliere l’essere: “[…] non si può, senza cadere in un illuminismo intellettualistico e realistico, proclamare la scienza guida unica e somma dell’attività spirituale umana.”[203] In questo, e soltanto in questo senso, la filosofia, e dunque la metafisica come sua massima espressione, non è scienza bensì sforzo, ma ciò non vuol dire che sia “Volo lirico o annullamento mistico”, poiché né pura attività fantastica, né trascendenza del soggetto in un Oggetto posto fuori di sé, perché anzi l’Oggetto puro che il soggetto ricerca è costitutivo del suo essere, e non è l’altro da sé, ma è l’in sé. Egli infatti sottolinea come il risultato della Critica kantiana – l’inconoscibilità dell’essere in sé al livello della sintesi a priori kantiana – comporti poi come sua conseguenza esplicita nel pensiero postkantiano che l’essere in sé divenga pura negazione, e contesta che tale conseguenza sia inevitabile. Egli vuole sottintendere che l’inconoscibilità dell’essere in sé della Critica esclude la metafisica dall’ambito delle scienze particolari, ma non dall’ambito del sapere, perché l’inconoscibilità sensibile non implica la negazione dell’essere in sé, ma solo la sua esclusione dal campo della conoscenza sensibile sia a priori che a posteriori. Il punto è infatti che per Carabellese quest’esclusione dell’essere in sé dal campo della conoscenza sensibile è accettata per affermare la positività, e diremmo noi la conoscibilità, dell’essere in sé a un livello più alto e profondo, a livello non della semplice conoscenza, ma egli dice della coscienza, ossia del sapere della ragione. Infatti, dopo aver detto che nella Critica vi è contraddizione tra l’affermazione della cosa in sé e l’esigenza della sua negazione, egli invita a credere non tanto alla lettera kantiana, quanto al vero risultato della Critica: “[…] Kant esplicitamente affermava come risultato fondamentale della sua Critica l’inconoscibilità dell’essere (cosa in sé). Ma è veramente questo il risultato della Critica? […] il risultato vero della Critica, invece, è la noumenicità dell’essere in sé come puro oggetto, cioè la riduzione della cosa in sé a Idea. In breve il risultato della Critica è la dimostrazione che l’essere in sé è l’oggetto della coscienza […] tale essere, pur pensabile, è assolutamente inconoscibile, in quanto è principio della conoscenza, ma non è immanente a questa. “[204]   Dunque, dal momento che l’essere in sé è principio della conoscenza, esso è inconoscibile non nel senso che non se ne può avere esperienza, ma nel senso che quest’esperienza non è quella delle scienze particolari e sensibili: esso è oggetto della coscienza, e quindi oggetto del sapere, non immanente ma trascendente la conoscenza intesa come conoscenza particolare. Inoltre, Carabellese vuol dire che la Critica , nel suo intento e nel suo punto di partenza è indagine sulle possibilità della metafisica come scienza, nel suo punto di arrivo – vista l’impossibilità di una sintesi a priori metafisica, almeno appunto nella Critica, poiché essa richiede il senso per il soprasensibile e dunque sarebbe in contraddizione con se stessa – è indagine sulla possibilità della conoscenza    come esperienza della scienza particolare fisico-matematica: il conoscibile in Kant è ciò che risulta dalla sintesi a priori, e dunque in tal senso l’essere in sé è l’inconoscibile, ossia è escluso dall’ambito della conoscenza, intendendo per conoscenza l’ambito della scienza fisico-matematica e delle sue applicazioni particolari. “Perciò, per Kant, la proclamata inconoscibilità della cosa in sé, nonostante la non meno proclamata sua pensabilità, voleva dire l’irriducibilità della cosa in sé entro gli estremi della scienza,[205] voleva dire che l’astratto in generale, cui la scienza arriva, non può essere la stessa cosa in sé, che è l’Oggetto unico assoluto. Kant certo non vide questo che era implicito al suo pensiero e perciò tentò di costruire una metafisica con le leggi fisiche ritenute a priori proprio quando egli le mutuava dalla metafisica, metafisica che perciò non poteva riuscirgli: rimaneva irrimediabilmente fisica nella sua forma scientifica. […] La cosa in sé di Kant è quindi l’irriducibile a scienza. E intesa in tal senso l’inconoscibilità kantiana è giustificabilissima […].”[206]

La critica carabellesiana alla Critica di Kant va qui molto a fondo: una metafisica come scienza non è costruibile sulla base degli stessi apriori  che regolano le scienze fisiche, e dunque è necessario andare oltre la Critica kantiana. In base ad essa, la cosa in sé  è irriducibile a scienza, non è oggetto di una sintesi a priori, e nemmeno di una qualunque esperienza.

Ma per cercare di approfondire il concetto carabellesiano di esperienza, cosa che ci appare necessaria dal momento che la costruzione della metafisica come scienza del soprasensibile non deve escludere l’esperienza, una forma di esperienza di livello diverso dall’esperienza comunemente intesa e dalla sua attuazione, ci sembra più agevole preliminarmente soffermarci sul suo collegamento al concetto di metafisica: se la metafisica deve essere scienza apriori del soprasensibile[207], e scienza si dà per Kant solo con la sintesi a priori, non soltanto diviene centrale per la fondazione della metafisica critica il concetto di sintesi a priori metafisica, ma anche più in generale il concetto di sintesi a priori, che comporta il concorso del concetto e dell’intuizione, laddove essa sintesi a priori è per Kant “[…] riferimento essenziale di un’entità logica all’esistenza reale […] Da una parte è quel precritico e critico <<più>>, che caratterizza l’esistenza […] Dall’altra l’immanenza del pensiero logico nella realtà […]”[208], immanenza nella realtà che è secondo Carabellese  la  grande scoperta di Kant.

E quel “più” dell’esistenza risulta al soggetto proprio attraverso quella via conoscitiva fino a Kant considerata fallace: il senso o intuizione, che, collaborando con l’intelletto, è proprio la capacità realistica dello spirito che ne rende possibile il passaggio dalla pura logica alla realtà[209]. Come si vede, qui, in questa fase non ancora tarda del pensiero carabellesiano, l’intuizione è considerata uno strumento euristico capace di dare conoscenza in modo specifico, mentre nel Carabellese metafisico non si trova più questa scissione tra la realtà e la sua  conoscenza che l’intuizione colma, e che infatti egli definirà “pura logica”. E ciò proprio perché la stessa pura logica è quella che a nostro parere l’ultimo Carabellese, superando programmaticamente la intellettualistica divisione soggetto-oggetto, considera strumento per accedere all’essenza della realtà.  La vera sinteticità è per Kant, secondo Carabellese, non quella della matematica e della fisica, scienze fenomeniche, ma quella della metafisica, di cui Kant deve porre come scienza assoluta almeno l’esigenza, se non vuole sconfessare di fatto anche la possibilità della scienza fenomenica ritrovandosi in quella posizione scettica che Hume aveva determinata.

Ne  Il  problema teologico come  filosofia, Carabellese sembra individuare come risultato della Critica kantiana l'inconoscibilità dell'essere in sé, dal momento che  la conoscenza  viene  fondata sulla sintesi a  priori mediante il concorso del concetto e dell'intuizione, per cui l'essere  in  sé  viene messo ai margini dell'ambito  della conoscenza, non  è più oggetto del conoscere, diviene  inconoscibi­le. In altre parole, l’appunto di Carabellese a Kant consiste nel  non aver risolto il problema che la Critica  si  era posto - la possibilità della  metafisica -, ma, attraverso la sintesi a priori, solo quello della conoscenza  (scientifico-natu­rale) [210], per cui la kantiana inconoscibilità della cosa in sé diviene per Carabellese il caput mortuum del kantismo. Il problema fondamentale di Kant, ossia come sono possibili i giudizi sintetici a priori metafisici, trova in Kant risposta positiva ma non di contenuto con la Critica perché la sintesi a priori così come impostata da Kant comporta quella  sensibilità che invece la metafisica, scienza del soprasensibile, esclude. Bisogna, pensa Carabellese, fondare “la”  metafisica, non più dialettica[211]: essa è il luogo di fondazione dei giudizi sintetici a priori metafisici, e il suo programma è espresso da Carabellese molto chiaramente: “Una tale dialettica critica noi tendiamo a istituire; e perciò essa non è antitetica ma intensiva.”[212]

Ne Il problema della filosofia da Kant a Fichte, del 1929, Carabellese si pone nei confronti di Kant in maniera ancora più analitica e polemica, affermando che il Kant critico non riattualizzò il problema dell’essenza della filosofia, ma, dopo Cartesio e Hume – che reimpostarono l’uno quello dell’origine della conoscenza, l’altro quello del suo valore -, solo quello della sua  possibilità, ponendosi come terzo momento (appunto dopo Cartesio e Hume) della messa a fuoco del problema della conoscenza. Ma Kant manca di radicalità nel definirne chiaramente come problema fondamentale l’essenza perché la Critica parte da un presupposto intellettualistico: da un lato accetta la filosofia come scienza, dall’altro ritiene ancora valido il dualismo soggetto-oggetto, ossia la loro intellettualistica divisione. La polemica carabellesiana si incentra nell’argomento che il vero quesito di Hume è lasciato inevaso, quesito che riguarda, oltre alla conoscenza come scienza e non come abitudine soggettiva, della quale Kant dimostra la possibilità, soprattutto il problema  dell’esperienza, che egli invece lascia ancora aperto. Kant insomma risponde al quid juris – e l’interpretazione della filosofia kantiana come filosofia trascendentale così come voleva essere elimina il problema di una divisione kantiana tra realismo e fenomenismo (che infatti in Carabellese non è mai realmente presente, intendendo egli in una prima fase del suo pensiero per realismo il realismo empirico, mentre nel suo periodo metafisico è a Dio che si dà realtà strictu sensu intesa, come noi in questo scritto vogliamo). Il  fenomenismo eventualmente si pone a valle, ossia come  ultimo livello della coscienza soggettiva che appartiene ancora all’intellettualismo. Così Kant,  rispondendo al quid juris, e non  al quid facti, lascia l’esperienza in balia dello scetticismo, che accetta implicitamente[213], e così manca di radicalità perché, partendo da un presupposto intellettualistico, ritiene ancora valido il dualismo soggetto-oggetto, ossia la loro intellettualistica divisione. Perciò la sintesi a priori kantiana, se apre la possibilità della metafisica come scienza, che è il primo compito che Carabellese individua e fa proprio dopo Kant, pure lascia inevaso il vero quesito di Hume, ed è questo l’altro compito del postkantismo carabellesiano: la critica e la fondazione  dell’esperienza concreta[214], la questione quid facti [215].

Si vuole dire che la sintesi a priori inserisce il quid dell’esistenza, quel “più” di cui parla Carabellese con Kant, all’interno delle forme della sensibilità e delle categorie, universalizzandolo e quindi facendogli perdere quel senso proprio di particolarità e unicità che ha invece l’esperienza concreta nella sua fatticità, lasciando pertanto inevasa la domanda cui poi abbiamo visto risponderà Rosmini[216], che Carabellese considera infatti un continuatore del kantismo più vero: il quid facti dell’esperienza, l’esperienza nella sua fatticità, deve infatti essere lontana dalla soluzione scettica dell’”abitudine soggettiva”, e in ciò Rosmini è per Carabellese  un caposaldo di tale soluzione reale, poiché mette in stretta relazione gnoseologia e metafisica. Il Carabellese critico però va oltre, e vuol fondare sul piano metafisico l’esperienza concreta.   Ma Kant, con la stessa sintesi a priori, apre alla cosa in sé, che, pur esclusa dall’ambito della conoscenza, ne costituisce il limite, e dunque vi è necessaria, pertanto ha uno statuto positivo[217]. Ma se la Critica che bisogna istituire è divenuta problema della coscienza, allargando di fatto il problema della conoscenza e del suo campo di azione, nonché quello dello spirito umano da investigare, la fondazione dell’esperienza di fatto implica che tale esperienza sia della coscienza tutta intera, implica perciò la coscienza stessa come punto ormai nodale e compito ineludibile della filosofia fattasi scienza. Insieme alla fondazione della metafisica come scienza a partire dai giudizi sintetici a priori metafisici, è questo della risposta al vero quesito di Hume il compito che si apre per la filosofia dopo Kant in contrasto, come abbiamo visto, con le correnti empiristiche, pragmatistiche, positivistiche, in realtà votate allo scetticismo.

Ma se il concreto Carabellese intende sottoporlo a critica appunto con la Critica del concreto già nel ’21, è, ripetiamo, con il 1931 de Il problema teologico come filosofia che egli affronta la questione sul piano metafisico e non più solo fattico: il Concreto – ossia l’attività spirituale non soltanto umana: il livello metafisico dell’esperienza concreta, potremmo dire l’universale dell’esperienza concreta di fatto. Per cui si può affermare che egli qui si pone oltre il piano trascendentale kantiano intendendo ora la filosofia trascendentale in senso prettamente realistico: la critica deve essere ormai quella della Coscienza, in due modi distinti. Nel primo, la critica del Concreto deve essere quella del Concreto come “Essere che sa, Sapere che è”, ossia quello che poi egli stesso definirà Essere-Sapere, da noi considerato uno dei livelli di Dio ma non quello sommo. Nel secondo modo della sua critica della Coscienza, Carabellese, al livello dell’io nella sua singolarità, intende prendere in considerazione la concreta attività spirituale: il livello dell’Essere nella sua concretezza fattica.

Dopo Kant, il Concreto è l’Essere come Coscienza, ossia l’immanenza dell’Essere in sé, come puro Oggetto, in ogni atto della coscienza del soggetto.[218] La domanda è oramai quella sulla possibilità dell’Essere – e dell’Essere nella sua possibilità, si potrebbe oggi dire -, e ciò proprio per sviluppare il criticismo. Per cui il problema è, nella fase critica di Carabellese,  quello del rapporto tra Coscienza e  coscienza, tra Io e io: è un  problema che Carabellese affronta già  prima del ’21 con l’opuscolo su  La Coscienza morale[219], del 1914 e conclude provvisoriamente[220]:  nel periodo metafisico ne L’Essere e la sua manifestazione[221] - in cui il Concreto come  manifestazione dell’Essere a nostro parere diviene Coscienza qualitativa,  che supera il dualismo soggetto-oggetto sia sul piano trascendentale che su quello più propriamente metafisico -, e ne L’Essere. Parte II. io[222], per quanto riguarda la coscienza nella sua universalità, l’Io, mentre la trattazione dell’io di fatto segue e completa il programma rosminiano appunto di una critica dell’esperienza di fatto[223].

L’interpretazione che Carabellese dà della Critica di Kant è di una filosofia trascendentale mal interpretata dai suoi successori, rei di intellettualismo e gnoseologismo, per cui soggetto e oggetto, scissi dall’intellettualismo sono originariamente congiunti e conformantisi nel concretismo, ossia a partire dal livello, solo, della Coscienza Concreta: il coscienzialismo, visione della realtà che, privilegia la Coscienza , la intende per un verso come attività spirituale umana nella sua globalità (sono qui gli echi diltheyani e hegeliani), dall’altro, e ben più profondamente, come Coscienza concreta e non soltanto soggettiva e umana, ossia come uno dei gradi dell’essenza della Realtà stessa, che appunto Carabellese esplicita ne L’Essere e la sua manifestazione, distinguendo dunque chiaramente, come si deve, tra l’Essere e la manifestazione: qui potremmo dire il suo neoplatonismo. In questo orizzonte slargato il problema della conoscenza diviene  marginale, e al cattivo illuminismo  intellettualistico [224], si sostituisce il vero Aufklarung, quello della Ragione.

 

11. Il rapporto tra noumeno e cosa in sé conosciuto dalla ragione 

a partire dal superamento della distinzione tra soggetto e oggetto

 

 

I due capisaldi dell’impostazione critica kantiana sono in sostanza da Carabellese rinvenuti da un lato nella sintesi a priori, dall’altro nel rapporto tra noumeno e cosa in sé, che Carabellese fonde, nel prosieguo e sviluppo del suo pensiero, nella ricerca della metafisica dell’essere degli ultimi anni, in cui abbandona di fatto la metafisica critica da cui pure era partito. Egli ricerca la conoscibilità dell'essere in sé  a  un livello più alto e profondo, a livello non solo della sempli­ce  conoscenza, ma della coscienza, ossia del sapere della ragione.  Sintesi a priori e rapporto tra noumeno e cosa in sé: nella ricerca della metafisica critica, Carabellese cerca poi ulteriormente la conoscibilità dell'essere. Negli anni ’30 del Novecento però già si orienta verso quest’obiettivo: è necessario infatti, afferma, credere  non  tanto alla  lettera kantiana, quanto al risultato  vero  della  Critica, che è, come abbiamo visto, l'inconoscibi­lità dell'essere inteso come cosa in sé, ossia “[…] la noumenicità dell'essere in sé come puro oggetto, cioè la riduzione della cosa in sé a Idea. "[225] Infatti il vero punto di arrivo della Critica kantiana è per Carabellese non l’inconoscibilità dell’essere in sé che è un portato del suo inserimento entro gli estre­mi della scienza[226], per cui la cosa in sé diviene l’”[…] irriducibile a scienza [...]."[227], avendosi così come risultato la sua esclusione dall’ambito della conoscenza, ma la sua noumenicità, ossia pensabilità, affermata come esigenza della ragione, noumenicità che apre la possibilità della metafisica come scienza nel momento in cui, si potrebbe dire, si tratta di stabilire come è possibile il passaggio dalla stessa noumenicità della cosa in sé, esigenza della ragione come sua pura pensabilità alla conoscibilità e dunque alla scienza del soprasensibile appunto coi suoi giudizi sintetici a priori metafisici a partire dalle tre idee della ragione, passaggio che implica come strumenti euristici l’abbandono del piano del concorso di senso e intelletto e l’innalzamento al piano della ragione.

E’ la ragione lo strumento: la filosofia intesa quale metafisica è perciò sforzo, di raggiungere quell’in sé più profondo che rivelandosi e rivelandolo ne permette la trascendenza in termini jaspersiani, o ascesi di coscienza. In questa argomentazione dell’immanenza dell’Oggetto è già chiara non soltanto la metafisica della Coscienza come Soggetto-Oggetto, ma anche a nostro parere sia la distinzione tra Essere e Coscienza sia quella ben da sottolineare tra Essere[228] e manifestazione[229].

Nel periodo metafisico, con la concezione della Coscienza qualitativa come rapporto Soggetto-Oggetto,  Carabellese supera veramente la loro dualistica e intellettualistica divisione, e trova nella cattiva interpretazione di Cartesio – altro approfondito oggetto di studio di Carabellese -, che pure scinde l’essere in res cogitans e res extensa dando in realtà legittimazione al materialismo,  un punto nodale e centrale di tale disconoscimento del Concreto e del rapporto soggetto-oggetto, che, nella sottacenza e implicitezza del soggetto nel suo rapporto necessario con  l’oggetto, risalendo indietro oltre la questione degli universali, affonda le radici appunto almeno nella teorizzazione del rapporto universale-particolare di Aristotele, sebbene Carabellese sia sempre molto critico nei confronti di Aristotele, secondo argomenti che non è possibile qui affrontare.

La divisione che Carabellese supera nella distinzione Soggetto-Oggetto, che è relazione circolare, la supera  in quella che per lui è Coscienza qualitativa come uno dei livelli dell’Essere  - quello della manifestazione - che potrebbe essere definito Universale in Re e viceversa, nel momento in cui si dia alla Res  tutto il valore idealistico e spirituale che Carabellese intende conservarle: si può infatti affermare che per Carabellese il dualismo cartesiano tra le sostanze, e  il conseguente riconoscimento della materia come res, non esiste, appunto perché la materia non è sostanza ma, si potrebbe dire dispregiativamente nel superamento realistico carabellesiano del dualismo essere-apparire, empiria, ossia falsa coscienza dell’essere, a meno di non considerarla, come Carabellese intende fare, spiritualità anch’essa, proprio perche tutta la realtà è spirito.

E' nella critica  pro­fonda   al   dualismo    essere-realtà-materia/soggetto-spiritualità-forma  che avviene il distacco  consapevole di  Carabellese da Kant: è cioè nel considerare  la  co­scienza non più la mia coscienza soggettiva ma la  tota­lità dell'essere,   la Coscienza universale, che  non  è neppure l'Io penso kantiano come coscienza trascendenta­le  che fonda tutti i soggetti pensanti possibili in  un solo  soggetto. Bisogna però intendersi sul concetto di soggetto, se si vuol far riferimento ai soggetti empirici soltanto oppure includerli nel concetto di Spirito: di uno Spirito che pervade, che è, tutto, anche la materia. InChe cos'è la filosofia? è detto: "Corretto l'errore realistico e stabilito il concetto  positivo  di  realtà e il  concetto  pieno  di essere come concreto in quanto coscienza, l'impostazione della  critica  non può più essere quella di  Kant,  che supponeva come realtà la non coscienza, il non soggetto. Si pone, ed è necessario porre, il problema critico  non più  della  scienza [...] ma della coscienza  in  quanto concretezza, cioè della coscienza dell'essere (coscienza che  ha essere, essere che ha coscienza) [...]."[230]

Ma  in questo porre tout court, nel periodo critico, l’identità tra Essere e Coscien­za  e la loro reversibilità, Carabellese lascia fuori  e sembra dimenticare il problema del Non Essere, e, allar­gando  il  discorso,  del Male, sia esso  pure  il  male radicale.  Omnis determinatio est negatio,  si  potrebbe dire,  e  allora resta il problema di  dare  dell'Essere sommo  una definizione omnicomprensiva anche del Male  e del Non Essere, ché altrimenti ce li ritroviamo a minac­ciarci l'essere così faticosamente raggiunto.

La reinterpretazione del kantismo si attua perciò nell’assunzione di concetti-chiave del criticismo, di carattere sia gnoseologico (il concetto di sintesi a priori e quello di ragione) che metafisico (fondamentali al fine di comprendere il Carabellese metafisico sono i concetti di immanenza e di oggettivismo), che vengono trasposti appunto sul piano metafisico e presuppongono una concezione realistica della realtà intesa come continuum: nell’ordine, il rapporto soggetto-oggetto[231], la sintesi a priori, l’intuizione, la cosa in sé, il noumeno, l’idea, da Carabellese analizzati approfonditamente in lavori tutti tesi a ricercare non soltanto nella prima Critica, ma anche negli scritti precritici kantiani e in quelli sempre kantiani posteriori alle tre Critiche la verifica della propria interpretazione del kantismo né come gnoseologia né come metafisica, ma come propedeusi trascendentale in grado di dare fondazione a una metafisica trascendentale o critica in vista di una nuova metafisica assoluta. Una metafisica trascendentale che  superi, nella connessione tra ontologia e gnoseologia che ha caratterizzato  e caratterizza come intreccio inscindibile di problemi il pensiero di qualsivoglia autore di qualunque epoca abbia voluto affrontare vuoi il problema della conoscenza umana vuoi quello della realtà metafisica, il realismo o empiristico o scettico (che sono a nostro parere le due uniche soluzioni derivanti dalla separazione soggetto-oggetto) della distinzione tra essere e conoscere: in ciò la sua vicinanza a Heidegger, che pure conosceva, e di cui cita appunto Che cos’è la metafisica?.

E’ per questo che l’apporto della filosofia italiana del ‘900 non si esaurisce nel suo neo o post-kantismo, ossia nella reinterpretazione del kantismo nei termini di filosofia trascendentale, che pure è fondamentale: la nuova metafisica critica cui egli vuol dare corpo deve anche tener conto del cammino della filosofia non solo dopo Kant, ma anche dopo  Hegel. Infatti, in tale cammino percorso soprattutto dall’hegelismo nelle filosofie successive a Kant e Hegel, è necessario distinguere, dopo Hegel, non soltanto la manifestazione dal fenomenismo, ma anche la manifestazione dal realismo – manifestazione in cui è tolta neoplatonicamente la distinzione tra essere e apparire e si comincia a delineare il vero realismo carabellesiano: si vuol dire che definire la filosofia come teologia intesa quale scienza nel senso del realismo, significa rifarsi a un concetto di realismo evidentemente dopo Kant non empirico bensì – da ciò le continue polemiche carabellesiane col realismo neoscolastico – hegelianamente inteso, quale realismo razionale in senso forte, è necessario fare una riflessione sulla differenza tra realismo empirico, che potremmo anche chiamare fenomenismo, e realismo razionale, dove per razionale si intende un realismo che comprenda anche, come si vede dalle matematiche contemporanee, o anche dai più recenti studi di psicologia o di psichiatria, e anche in primis di filosofia, l’irrazionale, il quale, lungi dall’essere incomprensibile e non sottoponibile a riflessione, o meglio razionalizzazione, è dotato, come le ricerche più avanzate mirano a fare, di una sua razionalità altra da quella classica. Tale razionalità, che è dunque sottoponibile a scienza, intende allargare il campo, sia umano che extraumano, delle facoltà e degli elementi che compongono il nostro universo e mentale e extramentale, appunto, potremmo dire, sia il microcosmo che il macrocosmo, comprendendone la razionalità. In tal modo si può affermare che non solo il campo delle scienze viene così ad essere allargato, così come il campo di ciò che è considerato facente parte del concetto di uomo, ma anche, soprattutto, il tì o la res, ossia la cosa in sé che a partire dalla lettura del kantismo e in particolare del noumeno in termini  post-kantiani di ciò che, in quanto pensabile, è conoscibile, e non inconoscibile come affermava Kant, e che ancora non è però conosciuto e deve perciò essere attentamente indagato, diviene un limite che si sposta a un tempo in avanti e indietro rispetto al campo del conosciuto attuale. E’ questo ciò che si può definire progresso della scienza, la quale, attraverso, come è ormai acquisito, congetture e confutazioni, come direbbe Karl Popper, e cambi o aggiustamenti di paradigma, come direbbe Kuhn, in un velocizzarsi e un incrementarsi della temporalità che sono sotto gli occhi di tutti, e che fanno sì che Io, Mondo e Dio siano sempre più vicini, procede a uno slargarsi che è a un tempo sia orizzontale che verticale, ossia a una cultura che è al tempo stesso sempre più comune, ossia includente un numero sempre più alto di persone, e sempre più “alta”, ossia sempre più scientifica e penetrante nelle infinite pieghe della “realtà”, meno “naif”, meno mitologica. Potremmo dire infatti che il sogno non solo italiano del ’68 del secolo scorso, quello di rendere la cultura accessibile a tutti, si sta, dopo un periodo di necessario abbassamento del livello culturale di massa dovuto allo slargarsi a patrimonio della cultura comune  della cultura precedente, appannaggio prima di pochi privilegiati, realizzando sotto i nostri occhi, con un nuovo innalzamento di massa dovuto non solo ai media e a una scolarizzazione sempre più estesa e approfondita, ma anche alle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, che, ad esempio con internet, portano un sempre maggior numero di persone in contatto col sapere.  Così, considerando, se vogliamo, la scienza e la sua storia una linea progredente all’infinito, ammesso che non sia una linea curva il cui inizio e la cui fine coincidono, il tì è, potremmo dire, sia il limite “in avanti” di ciò che la scienza conosce e che è progetto non ancora conosciuto, ossia lo stato della ricerca,  sia il limite “indietro”, oltre il quale la scienza non è ancora in grado di andare. Ma è chiaro che qui per scienza non si intende solo la conoscenza scientifica in senso stretto, ossia le scienze vuoi umane vuoi esatte, che restano ambedue sempre in qualche modo legate all’umano, bensì la Filosofia, che, quale linguaggio dell’universo, in altre parole Linguaggio di Dio, inteso come Assoluto, si incarna nel Logos, cioè nel Verbo, inteso nelle due accezioni di Parola e di Uomo, e dunque ha una sua Storia che è Progresso.

A differenza del realismo razionale o post-razionale, il realismo empirico, o fenomenismo, che Kant ha il merito di aver scandagliato e compreso in tutte le sue forme, è quello che, potremmo dire, è il primo livello della conoscenza, appartenente originariamente a ogni uomo, a prescindere dalla sua “cultura”: è la considerazione o conoscenza delle cose appunto come “fenomeni” (da fainomai= apparire), ossia per come appaiono, e precisamente apparenze che distinguono la conoscenza in doxa, ossia opinione, e episteme, ossia concetto della scienza. Dei fenomeni non si può avere scienza, o meglio, la scienza dei fenomeni è quella che Kant ha in via definitiva impostato attraverso spazio, tempo e categorie, e da cui, riferita al mondo storico umano, e al cammino dello spirito, Hegel fa derivare la fenomenologia dello spirito, ossia l’apparire dello spirito incarnato nell’uomo in forme e figure storiche del mondo umano, e che poi Husserl riprende insieme ai concetti cartesiani di dubbio e di necessaria epoché. Kant ha mostrato come la conoscenza di tipo empirico si basi sulla distinzione, è cosa nota ma vorremmo ripeterla per chiarirne meglio le distinzioni col realismo razionale, in primis tra materia e forma della conoscenza, la materia essendo il “dato” esterno che “entra” nelle forme a priori della conoscenza e fa sì che la conoscenza da potenza, o potenzialità comune a qualsiasi uomo a partire dalla sua venuta alla luce - direbbe  Antonio Rosmini l’accensione della luce della ragione o primo atto di conoscenza del neonato, ossia sintesi primitiva -, passi dalla potenza all’atto. Tali forme a priori, com’è noto, sono quelle della sensibilità, ossia l’intuizione spaziale e quella temporale che fanno sì che qualsiasi percezione sia determinata in un hic et nunc imprescindibili, ossia in un punto preciso delle coordinate spaziali e temporali, e quelle dell’intelletto, che fa sì che qualunque cosa venga conosciuta attraverso le forme a priori dell’intelletto, ossia categorizzata secondo la tavola delle dodici categorie che Kant, derivandola da quella aristotelica, riduce appunto a dodici e individua. Ma mentre secondo Rosmini, e dopo di lui Carabellese e Gentile, in questo primo atto della ragione che attiene al neonato, o sintesi primitiva tra materia e forma della conoscenza, non c’è distinzione appunto tra materia e forma della conoscenza, né tra io e mondo, e il neonato percepisce se stesso e la realtà che lo circonda come un tutt’uno, nel prosieguo della sua vita avviene il distacco tra il sé e il mondo che lo circonda,  cioè la distinzione, ovvia ma vogliamo ripeterla, tra soggetto e oggetto della conoscenza. E’ questa distinzione quella che fonda il rapporto dell’uomo comune con la realtà, appunto il fenomenismo o anche l’intellettualismo, e che fa sì che il soggetto si chieda in sostanza qual è il rapporto tra vero e certo, intendendo per “vero” l’in sé della cosa, che abbiamo precedentemente detto essere un limite via via estinguibile nel tempo dalla scienza e dalla sua ricerca nella loro storia, o anche, più comunemente, il vero inteso quale generale – si badi, non universale - sentimento di certezza appartenente a un più o meno grande numero di persone – e che spesso è il risultato della cultura a cui si appartiene -, e per “certo”, naturalmente, la propria singola conoscenza, che in genere è accompagnata da un sentimento di certezza interiore il cui valore numerico può essere alto o basso, e anche variare sia nel confronto con altri io, sia in quello con altre esperienze dello stesso soggetto. Per cui, riprendendo la distinzione tra doxa ed episteme, all’uomo comune attiene la doxa, allo scienziato l’episteme.

Ma la scienza contemporanea e poi post-contemporanea nel suo complesso, già a partire, in campo filosofico, dall’idealismo, e in particolare da Hegel e l’hegelismo prima, e poi, nel ‘900 italiano, tra gli altri, da Pantaleo Carabellese, ha finalmente superato la distinzione che ci portavamo dietro almeno da Cartesio tra res cogitans e res extensa, tra materia e forma in primis della realtà e in secundis della conoscenza e tra soggetto e oggetto, e ha parlato, in campo conoscitivo, di concreto, ossia di un tipo di realtà, e della relativa conoscenza, in cui soggetto e oggetto non sono distinti, essendo la distinzione un aposteriori (che produce il soggetto quando riflette da un lato sulla propria conoscenza e sulla conoscenza in generale, e dall’altro sulla “realtà”), e non un apriori esistente nella realtà, che, a questo livello, è un unicum (potremmo affermare, con un atto di fede, un Uno-Tutto), e,  seguendo Giuseppe Semerari, parla di “concrescenza materiale-formale”, ossia appunto di un venire all’essere dell’essere, nel caso specifico del quale stiamo parlando la conoscenza, in cui soggetto e “dato”, e soggetto e contesto, siano un tutt’uno in rapporto dialettico di osmosi tra loro. Pietro Piovani, per rimanere in Italia e sempre nel ‘900, parla di oggettivazione  etica, ossia del necessario rapporto, appunto quello di oggettivare la realtà in concretizzazioni in particolare etiche, che lega il soggetto e il mondo che lo circonda, che non è il mondo in assoluto, ma il suo mondo sempre frutto di una costruzione, necessità che proviene all’uomo da ciò che questo autore chiama “assenzialismo”, cioè l’anelito a superare e a superarsi, e separare e separarsi, dal Male e dall’imperfezione, in un continuo rovello interiore – di rovello parlerà anche Semerari per Carabellese – perché ogni meta divenga nuovo punto di partenza. Teodorico Moretti-Costanzi parlerà a proposito di questo anelito interiore a superarsi continuamente di ascetismo (quindi di un necessario movimento della coscienza verso l’alto, verso una sempre più intensa idealizzazione del rapporto tra l’io e il proprio mondo), e lo stesso Carabellese, quando verso la fine della sua esistenza punterà l’attenzione sulla speculazione prima e sulla meditazione poi, lo farà nello stesso senso, semmai più marcato, di una simbiosi tra scienza filosofica e ascetismo religioso, ovviamente intendendo qui per religione non quella confessionale in senso stretto. Oggettivazione: non dunque una conoscenza assoluta dell’in sé dell’oggetto, o come afferma Carabellese dell’Oggetto, allo stato irraggiungibile se non per fede, ma una scoperta – aletheia nel senso di disvelamento, e non creazione – di ciò che il soggetto rende oggetto della propria esperienza, a partire non soltanto dal proprio essere, ma anche dal proprio contesto più generale, in quella che Giuseppe Cantillo definisce l’etica della situazione. In campo psicologico, si parla oggi di costruttivismo – una derivazione del comportamentismo vicina al cognitivismo -, ossia di un costrutto, appunto, che il soggetto si fa della realtà che lo attornia e su cui egli punta l’attenzione, e in cui si trova: un sistema io-mondo, che non solo cambia da soggetto a soggetto, essendo ogni soggetto, diremmo in filosofia, Individuum metafisico, ossia come minimo un irripetibile, ma anche cambia nella storia del soggetto col suo andare avanti nel tempo e acquisire nuove esperienze che mutano il senso e della propria identità e della realtà che lo circonda, mutando appunto i significati che egli attribuisce alle sue esperienze. E si parla più precisamente, in psicologia, di costruttivismo post-razionalista, a mio parere perché finalmente anche in questo campo da tempo, come in filosofia in modo precipuo ed esplicito da non molti decenni, si cerca una logica dell’irrazionale che estenda il senso stesso dell’Individuum metafisico a cui abbiamo accennato. In questo si deve necessariamente operare un’importante distinzione tra descrizione e interpretazione: l’una, potremmo dire in termini filosofici, afferente al fenomenismo, come operazione che il soggetto compie nella conoscenza di semplice esplicitazione di ciò che vede, l’altra, viceversa, in senso stretto costrutto del soggetto in cui i confini tra vero e falso, e tra vero e certo, sono molto più labili, perché interpretare significa sempre guardare da un determinato punto di vista, inferire non il Vero, ma ciò che ogni singolo uomo, oppure in campo scientifico ogni singola prospettiva di una determinata scienza,  getta come luce su una porzione estratta e specifica della realtà intesa come Tutto (si ricordi il continuum eterogeneo del reale di Wilhelm Dilthey, da cui il soggetto trae o un discretum omogeneo, come nelle matematiche, oppure un continuum eterogeneo, come nelle scienze umane) per cui il costrutto si può dire sia sempre un’operazione astraente e interpretativa. 

Per tornare alle ricerche in campo filosofico che per prime stabiliscono come il rapporto tra individuo e realtà sia appunto sempre un rapporto mediato dalla struttura esperienziale a priori che fa parte della natura umana, vuoi in senso individuale vuoi umana in senso lato, o più specificatamente culturale e scientifica, dell’individuo, con Hans Georg Gadamer si affermerà l’ermeneutica appunto come scienza dell’interpretazione, che, da lui applicata al rapporto tra soggetto conoscente e testo da comprendere, vede, nella precomprensione anche linguistica che sempre precede il contatto diretto e immediato tra pensiero e realtà, e nel circolo ermeneutico tra interprete e realtà da interpretare secondo cui a partire appunto dalla precomprensione si ha un continuo movimento parte-tutto che mira alla comprensione totale, irraggiungibile, del testo, sia esso un testo scritto, sia esso pure un’esperienza di cui si è parte o che si mira a comprendere, un nuovo modo di dipanare l’antico dilemma tra vero e falso. Date allora per acquisite le forme intellettive che il singolo interpretante “trova” nella specificità del suo essere uomo, e quelle che gli appartengono come formazione culturale individuale (di Individuum metafisico) e collettiva (la civiltà cui appartiene), si può affermare che il singolo non è mai lui, solo, di fronte alla sua esperienza, ma è sempre precondizionato almeno da questi tre livelli. Ma ce n’è un quarto, che Gadamer sottende ma che pure, anche al livello collettivo dell’umano, almeno nell’istante, non può risolvere: il Vero. E’, questa, la distanza tra Vero e Storia, che solo la fede individuale, intesa in senso lato e non specifico, può colmare: per un verso è la propria Weltanschauung  di Individuo irripetibile, il punto oltre il quale si ferma il proprio progresso esperienziale che può dirsi concluso solo dalla morte, e anche più precisamente, sempre in senso esistenziale e non religioso, il proprio percorso di vita comprensivo dell’eredità spirituale e materiale che egli, come punto su una linea infinita che coniuga tradizione e innovazione, lascia ai posteri, e le linee di continuazione come tracce da sviluppare che egli anche inconsapevolmente porta all’essere e che altri dopo di lui riprenderanno, per l’altro è anche, la distanza tra Vero e Storia, la Weltanschauung, potremmo dire, dell’epoca storica che il mondo nel suo complesso attraversa e fa propria come vera, nell’osmosi sincretistica e nelle fratture e nelle collisioni che le sue diverse civiltà contemporanee rendono concrete. Ma evidentemente qui il confine sempre presente e sinora sottaciuto, anche dai migliori ingegni del ‘900, il rovello di filosofi e scienziati, torna: è l’antico dilemma, ripetiamo, tra Vero e Falso, la distanza incolmabile, all’atto, tra Realtà e immaginazione, vuoi pure quest’ultima intesa come costrutto ipotetico. Sogno, direbbe Cartesio, o son desto?  Che cosa c’è al di là dello specchio? La frattura tra Vero e Falso, anche con l’ermeneutica, anche col costruttivismo post-razionalista, si ripresenta, semmai spostata più avanti: potremo mai essere certi del vero, giungere al punto in cui l’interpretazione si dimostrerà autentica, il punto in cui idealità e realtà si incontrano? Oppure ancora una volta la scienza mostrerà di non essere poi così assolutamente distante dal mito? Pur con tutte le teorizzazioni e le razionalizzazioni, siamo veramente distanti dalla ormai millenaria separazione voluta come nascita della filosofia tra mutos e logos? Abbiamo costruito un Logos che anche per chi non crede in senso stretto è una specifica prospettiva necessaria per comprendere la realtà vuoi umana vuoi naturale, vuoi del mondo storico vuoi di quello scientifico-esatto, e in questo senso dobbiamo molto a Hegel, se non anche a Platone e Aristotele. Abbiamo anche allargato il concetto di logos o ragione a comprendere vasti campi dell’irrazionale, via via sempre più chiari. Ma la chiarezza e distinzione delle idee non sempre è sufficiente, come il cammino della scienza e della storia mostrano: il percorso conoscitivo sembra non avere mai fine. Torna allora qui il vecchio distinguo tra perfezione e imperfezione, e prende piede il dubbio, che, seppure allontanato con l’epoché, o seppure “sconfitto” dalla distanza che abbiamo assottigliato tra fides e ratio  col cammino della scienza verso il disvelamento, sempre più avanti e indietro nello spazio-tempo sia naturale che storico, del o della res, e tra l’ideale dell’uomo vitruviano e la sua realizzazione concreta in termini di diritti e di ponti, come direbbe Papa Francesco, resta. E allora il diaframma tra dubbio da una parte, e fede, intesa stavolta in senso religioso, dall’altra,  riappare: lo scontro di civiltà al quale stiamo assistendo si fa più strettamente religioso, o in senso lato di fede, anche intesa come fede laica secolarizzata. Non considerando, ovviamente, la scia di sangue, proprio e altrui, che si portano dietro, sono più “evoluti”  o più involuti di noi occidentali gli individui e i movimenti che stanno sconvolgendo l’assetto tradizionale dell’Occidente in termini di ratio, e il suo trionfale cammino in termini di Progresso? Non stanno dicendoci qualcosa riguardo proprio a quell’allargamento al diverso del concetto di uomo vitruviano (il simbolo dell’Uomo universale che coincide col suo mondo) che stiamo noi stessi per nostra parte allargando con l’ingresso nella storia dell’Occidente di nuovi soggetti politici e sociali già presenti nel nostro assetto sociale, e “solo” emarginati? Il diverso così, da presente ma lontano dall’integrazione sociale e culturale (e si potrebbe dire del valore acquisito dalle classi popolari e dalle loro culture come di quello dei gay o dei folli, ma anche dei minori e degli anziani), è anche il diverso ma lontano geograficamente e storicamente, oltre che culturalmente. L’uomo vitruviano è anche questo, un uomo che coincide, nel macro come nel microcosmo, col suo mondo: un ideale da raggiungere, nessuno sa quando, nessuno sa come. Intanto la fede e la fede nel dubbio continuano a incontrarsi e a scontrarsi, in tutte le loro forme, e in sempre più vasti e specifici contesti del piano storico-sociale: IO/tu, NOI/voi: questo è il punto di non ritorno. Finquando non smetteremo di considerare il diverso non, come diceva Carabellese, un altro come noi, ma un altro da noi, non ci sarà soluzione al conflitto. Apparentemente l’uomo non riesce a uscire da questa dicotomia, che, quando non dell’altro uomo, ha preso sembianze animali, naturali o aliene: essa sembra essere un apriori collegato con la dicotomia Bene/Male, che è innegabile, se non in termini filosofico-religiosi di teoria o fede – che com’è noto nel campo della filosofia contemporanea sono connesse -, almeno a livello “naturale”, ossia con la lettera minuscola. Questa nostra attuale non è, come vorrebbe Domenico De Masi, una società senza modelli: è una società alla ricerca di un modello comune e unico per tutti gli uomini, che li ri-orienti in una sola unica nuova direzione. Solo perciò quando dalla società senza modelli si sarà giunti alla società con un solo modello potranno riprendere il cammino la Storia e il Progresso.  Per ora nel popperiano Mondo Tre, quello delle idee – ovviamente non quelle platoniche, divine, bensì quelle umane -, che già da alcuni decenni ha preso prepotentemente piede, si assiste, e purtroppo non solo a livello delle sole parole, allo scontro di pensieri e azioni, delle ideologie e della loro attuazione spesso non pacifica né dialogante. E così, il dialogo socratico, che nuove menti e prospettive ripropongono ancora dopo 2500 anni, potranno realizzarsi nella compenetrazione attiva delle idee. Carabellese, non solo riguardo al tempo, parlava di penetratività: oltre al compenetrarsi cioè nell’istante, in ogni istante, di passato presente e futuro che sono tutti e tre appunto compresenti in ogni istante della vita della realtà e dell’umano, la penetratività deve riguardare appunto anche le persone e le personalità – i pensanti-che-vivono, li definiva Carabellese: un lascito morale e etico carabellesiano che permette di guardare al futuro con speranza.   

Tornando a guardare la conoscenza del soggetto (genitivo oggettivo), si tratta oggi in campo scientifico di scandagliare un Individuo, come affermava già Dilthey e tutto il movimento che a lui fa capo in Germania alla fine dell’800, che sente vuole conosce, ossia un uomo “intero”, che, nelle ricerche attuali ma per quanto riguarda l’intuizione almeno a finire a Kant come suo punto fermo, comprenda, nel doppio senso di capire e di avere, anche ciò che è al di là del razionale, o meglio intenda per razionale non solo le potenzialità della sensibilità e dell’intelletto così chiaramente esplicate da Kant e di cui si diceva all’inizio di questa lunga digressione, ma anche quelle della ragione, ma intesa in un senso molto più ampio di quello finora tramandatoci, ossia che includa elementi apparentemente irrazionali quali, riprendiamo l’ultimo Carabellese delle sue dispense metafisiche da circa un decennio pubblicate, la fede, l’intuito, il fato, il destino, ecc.

Ecco forse il punto della questione: la fede, intesa sia in senso religioso-confessionale sia in senso laico, ossia come credere in senso lato che qualcosa sia vero, e che faccia parte della propria Weltanschauung. E’ punto questo che, inteso in senso stretto di credere in Dio, nella Scolastica in particolar modo la Chiesa cattolica si pone come nodo da dipanare razionalmente. Infatti che dire a un non credente per convincerlo a far parte della ecclesia? Già nel Medioevo, per non dire della storia della filosofia nel suo complesso a partire dai greci riguardo all’esistenza di un essere e di un mondo divini da cui derivare il mondo umano e naturale, la Chiesa cattolica si pone il problema della dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, perché dimostrazione, appunto razionale, significa che credere in Dio non è più questione di fede, sia essa illuminazione divina intesa come grazia che Dio fa al singolo uomo, oppure come credenza che proviene dal sentire interiore di ognuno. Credere, nel momento in cui si perviene alla dimostrazione razionale, non è più un atto di fede ma di logica: e alla logica ogni individuo deve credere, perché gli appartiene come facoltà in quanto uomo. Qui punto fermo è ovviamente Tommaso d’Aquino con le sue cinque prove, come maggior rappresentante dello sforzo della Chiesa cattolica di  superare il pericolo dello scetticismo: dal credo quia absurdum che risale a Tertulliano (II sec. d.C.), Tommaso passa al credo ut intellegam e all’intelligo ut credam, ossia al legame indissolubile tra credere e comprendere, fede e ragione, compresenti ambedue quando si tratta di affrontare temi che esulano dall’esperienza immediata.

Ma l’altro enorme passo avanti che Carabellese per primo in Italia ha fatto è quello tra umanesimo e  nuovo umanesimo, che si distingue nettamente dall’antropocentrismo. Nell’umanesimo in quanto antropocentrismo, che Carabellese rifiutava recisamente criticandolo più e più volte nelle sue opere, al centro dell’universo, appunto, c’è l’uomo in quanto creatura di Dio, il cui concetto nasce con Cristo in quanto primo Uomo apparso nella storia, a partire dalla sua evangelizzazione dell’uomo inteso quale Persona, ossia uomo dotato di pienezza di senso e di valore assoluto nel creato: in questo senso Carabellese concordava con il pensiero umanista.

Ma, come Carabellese acutamente notava, Umanesimo e antropocentrismo, apparentemente sinonimi, non lo sono affatto, perché l’antropocentrismo intende l’uomo non in rapporto immediato con Dio attraverso l’illuminazione spirituale che deriva dalla grazia di Dio, ma come uomo mondano: l’asse si sposta così nell’antropocentrismo dal creato e dal Creatore alla creatura, che a partire dalla fine del Medioevo è completamente secolarizzata, ossia si occupa dello sviluppo del mondo umano, sia in termini fisici, con l’urbanizzazione e la nascita delle città, sia in termini spirituali, con la nascita delle corporazioni e lo sviluppo di arti e mestieri. Si tratta di un concetto di uomo talmente secolarizzato e lontano dalla spiritualità di Dio che nel ‘900 europeo porterà, Carabellese con sagacia ne è consapevole, all’esistenzialismo, e quindi in qualche sua deriva, o meglio alle sue estreme conseguenze, al nichilismo, ossia a un concetto di uomo che nullifica il suo valore spirituale.  

 Ma, al di là di questo piccolo excursus teoretico sull’affacciarsi già prima del Novecento dello studio multidisciplinare di una possibile logica dell’irrazionale, e in conclusione di queste mie poche osservazioni, è necessario fare alcune precisazioni sul significato dei termini e dei concetti qui di volta in volta utilizzati e richiamati.

Prima di tutto sarebbe da dipanare il concetto di logica, che nel patrimonio scientifico comune diviene multicentrico e plurale: perciò, col soccorso di Hegel e della sua Scienza della Logica, il cui significato è tutto da approfondire, sembra ormai scontato affermare che le logiche si pluralizzano e vi si ricercano i punti comuni. Nuovi soggetti si affacciano alla Storia del Mondo, e di ciascuna categoria, che sembrerebbe, compito difficilissimo, non voler escludere nessuno, si ricerca da più parti la logica, e in senso lato la Weltanschauung: è un aprirsi rivoluzionario alla, si potrebbe dire, democratizzazione  del mondo, in un senso mai visto prima d’ora. E’ in questo senso interessante il breve saggio, da poco in libreria,  del costituzionalista Michele Ainis, La piccola uguaglianza, in cui si auspica, come in un nuovo ideale utopico di società,  un’uguaglianza “di partenza”, ossia non l’egualitarismo della vecchia Cina e della Russia, così mortificanti per l’essere umano perché tendenti al livellamento  “di arrivo” che costringeva ciascuno a essere, a prescindere dalle sue potenzialità, uguale all’altro,  bensì la possibilità che ciascuno, a prescindere dal suo background culturale di nascita, così fortuito, sia messo in condizione di costruirsi, con strumenti culturali che colmino le differenze inevitabili, almeno per ora, tra individui e gruppi, un futuro a sé confacente e per sé soddisfacente.  Altra pubblicazione illuminante, in altro ambito ma sempre attinente a quella più su definita la “democratizzazione del mondo”, è l’opera recentissima di Louiss A. Sass, Follia e modernità, sui rapporti molto ben elucidati tra arte contemporanea (del Novecento) e malattia mentale: lo scopo, ambizioso e ben riuscito, è quello di rinvenire un ideal-tipo, alla Weber, della malattia mentale, sia attraverso la comparazione, mai descrittivamente fine a se stessa, e la ricerca della Gestalt e della struttura della malattia mentale, in particolare della schizofrenia, sia mediante la ricerca delle sue attinenze con l’arte soprattutto pittorica del Novecento.

Per fare un altro esempio di ricerca di una logica specifica ma pure complessiva, stavolta in ambito più marcatamente filosofico e psicologico, la realtà dell’esperienza sembra suggerire che, a partire dalla specifica storia di ciascun soggetto, sia possibile rintracciarvi, oltre al significato immediato e a quello immediatamente vissuto, che parcellizzano le esperienze e le cose, un secondo binario, una seconda logica di esperienza, un’esperienza di secondo livello (una seconda navigazione di platonica memoria), più sotterranea e nascosta, che fa parlare tra loro, nel soggetto, come binari paralleli, flusso del reale e flusso del vissuto, in un continuo rimando di significati simbolici che “costruisce” una seconda realtà in cui intuizione interiore e “realtà” esteriore sono, come si chiarirà più avanti, “concrescenti”. E’ allora evidente che emerge come questa seconda realtà sia il senso unitario che è rintracciabile al di sopra e al di là dei singoli significati via via evenienti, e corrispondentisi, nei due paralleli binari (che sembrano rimandare ai due modi in cui si dipana la realtà, di Spinoza), senso unitario a sua volta diveniente in una costruzione piramidale sempre più astratta ed essenziale, seppure ben ancorata al “dato”: per quel che riguarda il mondo storico sia intersoggettivo che individuale, si sta parlando qui di senso della storia e significato della prassi. In tal modo, ci sembra apparire nel mondo storico la possibilità, finalmente concretizzantesi, di una comunicazione intersoggettiva tra “monadi senza porte e senza finestre” ma pure in necessaria comunicazione tra loro grazie all’Armonia prestabilita: l’utopia leibniziana.

Per tornare alle poche necessarie precisazioni conclusive su concetti fin qui sottesi, in secondo luogo bisogna chiarire in che senso ci si riferisce al concetto di fenomenismo, e parallelamente, ma ben diversamente, a quello di fenomenologia. Se per fenomenismo si è inteso qui l’attenersi del soggetto al mero scorrere dei fenomeni nel loro fluire ininterrotto nell’esperienza – altro concetto da precisare -, così come da ciascuno, in qualsivoglia cultura, viene direi “automaticamente” apparentemente vissuto e compreso in qualsiasi attimo del proprio vivere quotidiano, per fenomenologia viceversa si intende appunto lo studio e la ricerca di una logica dell’esperienza che tenga conto dei fenomeni non più come dati, ma come prodotti, come venuti all’essere. Entrano qui in gioco due fondamentali concetti: quello di concreto e quello di oggettivazione, che grande ruolo hanno nella Filosofia.

Per concreto si è inteso qui, facendo riferimento alla geniale espressione utilizzata dal compianto Giuseppe Semerari in un suo noto scritto su Carabellese, la “concrescenza materiale-formale dell’esperienza”.  Perché concrescenza? Perché è a partire da qui che l’esperienza non viene più considerata appunto un dato che si rinviene già bello e fatto nel fluire dell’esperienza di ciascun soggetto, ma un venire all’essere dell’essere, che viene sì esperito in modo irriflesso da ciascuno secondo il suo particolare e unico e irripetibile punto di vista, o sguardo sulla realtà nella quale ciascuno è immerso, ma che, sottoposto alla riflessione filosofica, si rivela  “in sé” non soltanto come frutto di una creazione dell’Io trascendentale che coniuga in una produzione sincretica la materia da un lato e la forma dall’altro dell’esperienza (intendendole in senso kantiano e postkantiano), ma anche come appunto una creazione da parte dell’Assoluto della Natura e della Storia che sostiene il Mondo e lo porta perciò all’essere non una volta per tutte, ma nell’Hic et nunc che continuamente si riproduce, ogni volta anch’esso irripetibile e diverso.

E’ necessario qui aggiungere però, e ci si sposta sul piano dell’oggettivazione, che l’Io trascendentale che “crea” (si è visto non in senso materiale ma esperienziale) la realtà in cui  ciascuno è immerso e vive, la produce nel senso appunto di produrre un’oggettivazione, ossia, se volessimo dare un senso letterale a quest’espressione, una “creazione degli oggetti  dell’esperienza”, laddove evidentemente per oggetto non si intende la singola cosa, bensì il singolo contenuto di ciascuna esperienza.  Da questo punto di vista ciò significa che in ciascun soggetto, il singolo contenuto di esperienza, così come il suo flusso ininterrotto, e infine, nei diversi soggetti compresenti e successivi,  non può mai essere uguale, ma sia diverso nell’istante sincronico, sia diverso appunto nel tempo diacronico. La variabile Tempo, che qui si intende come sinonimo di Storia, si rivela così fondamentale nel Mondo, sia esso dei soggetti nella storia, sia esso della natura.

Perché allora Essere e Tempo? Heidegger si era prefisso un trattato di metafisica che poi tralasciò, soffermandosi viceversa soprattutto sulla preliminare chiarificazione del rapporto tra essere e tempo del soggetto. Allora il suo intento si riversa su di noi, suoi posteri, per la costruzione di una nuova metafisica, ossia di un nuovo paradigma che tenga conto sia del pluralizzarsi delle logiche, sia dell’irrazionale. 

 

12. Il concetto di oggetto in Carabellese e in Kant[232].

 

La concezione carabellesiana dell'oggetto trova la sua matrice nella filosofia kantiana come filosofia dell'asso­lutezza e dell'unicità della coscienza, laddove ciò che unisce i soggetti è quell'unico che è in ciascuno, per cui l'essere ideale dell'oggetto è presente come pura teoria nei soggetti tutti, sostanziandoli e costituendoli nel loro essere per l'oggetto, che è perciò immanente e trascendente insieme: immanente perché costituisce la loro idealità, trascendente perché nessun soggetto può esaurire l'Oggetto, che lo travalica all'infinito. L’esperienza è allora per Carabellese una specifica forma di coscienza e una ineliminabile esigenza della coscienza, esigenza e forma di coscienza che sono state o ignorate o riportate al concetto realistico di rapporto del soggetto con la realtà esterna mediata dal senso, che vede l’oggetto fuori dalla coscienza.

Per focalizzare il proprio concetto di oggetto Carabellese prende in esame il rapporto soggetto-oggetto  nel quale  l'oggetto è visto come altro. Secondo Carabellese “[…] il pensiero moderno non ha saputo risolvere il problema dell’oggetto. Questa la sua deficienza, che ha il suo culmine nella negazione dell’oggetto che si ha con l’idealismo. L'oggetto non è l'altro realistico perché  nel  concetto di altro è sempre  presente  anche l'uno a cui l'altro è perciò omogeneo […], e che perciò  implica  nel suo  stesso concetto moltiplicazione, molteplicità, per cui l'oggetto come altro non è neppure estraneo a me come  vuole  il realismo, bensì è proprio ciò (Oggetto) in cui i molti convengono. Qui l’interpretazione carabellesiana di Kant è apparentemente letterale: l’oggetto, l’oggettività, è il consentire dei molti in un unico oggetto, è l’universalità e necessità del consentire.  L'oggettività è il  consentire dei molti soggetti nell'unico Oggetto,  è l'universalità  e  necessità del consentire.  In  questo senso  "[...]  l'oggetto è sempre l'essere in sé  che  è presente nella coscienza. [...] Presenza nella  coscien­za, e quindi interiorità non esteriorità [...] Oggetto è dunque l'essere unico costitutivo di tutti questi  reci­proci nella loro alterità. E' l'unicità; non è la molte­plicità."[233] L’interpretazione di Kant è solo  apparentemente letterale,  perché durante l'argomentazione avviene  una traslitterazione dal piano gnoseologico al piano metafi­sico. Per il Kant gnoseologo l'oggettività come consentire dei molti  soggetti nell'unico  oggetto  si esplica mediante le categorie e fa dell'oggetto l'oggetto della scienza. Qui universalità  e necessità  dell'oggetto sono un portato  del  soggetto attraverso  la categorizzazione, e il risultato di questo processo consiste nella conoscenza dell’oggetto, o per meglio dire nel kantiano circolo vizioso tra conoscenza dell’oggetto e oggetto della conoscenza da parte del soggetto, diremmo  con maggiore chiarezza noi oggi essendo figli di Heisenberg. Infatti già per un Cara­bellese contemporaneo del Premio Nobel (1932) per la Fisica Heisenberg il discorso  trapassa  dal piano gnoseologico  al piano metafisico, e il suo oggetto non consiste più in un invalicabile e in fondo inutile circolo vizioso della conoscenza e del suo soggetto, ma in un aperto e solo in principio sconosciuto essere dell’essere che si espande nella storia in due modi, l’uno diacronico nel tempo futuro, l’altro sincronico nell’istante molteplice.

Se  l'"oggetto  è l'essere  in  sé presente nella coscienza",  è  da notare innanzitutto quel “presente alla coscienza”, ossia l’interiorità dell’oggetto alla coscienza che consente a Carabellese di considerare l’oggetto come non esteriore, come vorrebbero i realisti empirici: l’oggetto è il consentire dei molti nella coscienza. Ma, consideriamo ora quell'"essere in sé" che  diviene  nella frase successiva "l'essere unico costitutivo di tutti" i soggetti. A una prima lettura sembrerebbe che universalità e necessità siano in Carabellese, come in Kant, un portato del soggetto epistemico attraverso la categorizzazione, ma in realtà, e qui il discorso trapassa dal piano gnoseologico al piano metafisico,  essi sono  una proprietà dell'Oggetto come Essere in sé in quanto immanente alla coscienza, che in Kant, permanendo sul piano gnoseologico, era il noumeno, cosicché “Il valore dell’oggetto in Kant è duplice: a) metafisico (l’oggetto come cosa in sé , noumeno) b) logico (oggettività come forma del conoscere; categoria, concetto puro).”[234] Ma anche con questo avvicinamento dell’oggetto carabellesiano alla cosa in sé kantiana rimane ancora implicito il senso dell’”essere in sé come unico costitutivo di tutti” i soggetti, che, sebbene abbia consentito il passaggio dal piano gnoseologico al piano metafisico, verrà alla luce analizzando il concetto di cosa in sé. Infatti, possiamo anticipare, l'oggetto di Carabellese non è l’oggetto gnoseologico kantiano, ma l'Oggetto metafisico, l'Oggetto unico e assoluto, Dio[235]. Nella Critica del concreto, infatti, Carabellese, mentre afferma la “diversificazione essenziale” dell’oggetto in termini di verità, bellezza e bontà in rapporto ai valori del soggetto, mostra   il "fondamentale  carattere"  di universalità  e  unicità dell'Oggetto, così affrontato:  "Appunto perché vale per tutti, appunto perché, cioè, è universa­le,  l'oggetto  è anche unico. L'oggettività non  è  che l'unicità  dell'essere,  di  cui noi  soggetti  siamo  i molti."[236] Si  inserisce  qui quel rapporto  Uno-molti  o  Oggetto-soggetti che caratterizza il pensare di Carabellese: all’Oggetto unico e universale corrispondono i molti soggetti. Metafisicamente, è la pluralità e non l’unicità che è propria dei soggetti, perché “La riduzione dei tutti come tali a unico è la fonte dei più grandi equivoci […]. Non lo spirito soggettivo ma l’essere oggettivo è unico. Gli spiriti sono infiniti […] nella unicità del loro essere.”[237] Qui è dell'Oggettività  Pura che si parla, Oggettività Pura che  è  per  Carabellese  il Bewusstsein uberhaupt, la Coscienza in generale: separare soggetti e oggetto è per Carabellese compiere un’astrazione, falsificare l’essere concreto, che è costituito dai molti soggetti e dall’unico oggetto. Quindi secondo l’interpretazione della filosofia kantiana come trascendentale,  l’universale e unico, venen­do  a costituire la soggettività di  tutti, mette in relazione i tutti tra loro scavalcando la  loro separazione  e monadicità e costituendosi come  la  loro Oggettività.  Non c'è per Carabellese, come si vede, un Oggetto fuori dalla coscienza, cosa  che Kant,  col suo residuo  realistico  dell'inconoscibilità della cosa in sé e della distinzione tra Objekt e Gegen­stand, non poteva comprendere fino in fondo[238]. Ma, afferma ancora Carabellese: “Si dirà: […] ‘l’oggetto sono le cose che mi stanno davanti: tante. La oggettività è proprio la molteplicità, la soggettività proprio l’unicità.’ E avete ragione, rispondo; ma avete ragione, perché avete già fatto prima un’altra astrazione, vi siete considerato voi, solo, di fronte alle cose […] quelle cose vi risultano oggettive, perché tali risultano ai tanti soggetti, uno dei quali voi siete. […] Questa penna […] come oggetto, è universale, vale per tutti, è da tutti conosciuta, ma ognuno la conosce a suo modo […] come oggetto, è sola teoria, la penna; di questa teoria poi ciascuno fa a suo modo la pratica. […] Il Concreto? L’unica penna (teoria) che si attua in tante distinte visioni […] Ma si aggiunge: ‘E la molteplicità delle cose […]? Non mi avete dimostrato che l’oggetto, il puro oggetto, sia unico […] Ci saran quindi più soggetti, ma ci sono anche più oggetti: No […].”[239]

Ma che cosa intende dunque già il Carabellese premetafisico per Oggetto?  Non "[...]  il singolare 'questo' o 'quello',  [...]  perché non può essere in tutti i soggetti. [...] La singolarità,  sia  astratta, sia concreta, non è mai oggettività, perché è   soggetti­vità. [...] La pura oggettività, dunque, essendo schiet­ta  universalità, è assoluta unicità.  Perciò  l'oggetto non è né dato né prodotto della conoscenza; l'universale  [è]  l'attività stessa, che la coscienza attua  in  ogni sua forma di concretezza e in tutta la sua individuazio­ne."[240] Perciò l'oggetto non può essere separato dal  soggetto se  non con un atto di arbitraria astrazione che  scinde il concreto nei suoi distinti. Infatti se "[...] l'esse­re oggetto di un ente-cosa abbiam visto che consiste nel suo  valere per tutti [allora ciò] non esclude  ma  anzi implica gli enti-io che sono questi tutti."[241]

Carabellese critica ogni sapere sino a  lui che  vuole soggetto e oggetto separati e l'oggetto  come dato (realismo empirico) o prodotto del soggetto (idealismo post-kantiano)[242], affermando viceversa che  non  solo  il soggetto è  attivo  ma  anche e soprattutto l'Oggetto e l’oggetto: "[...] la realtà [è] attiva [...]", ma ciò  non significa  che  soggetto e  oggetto  sono  separatamente "[...] entrambi attivi; l'attività è concretezza, laddo­ve soggetto e oggetto sono soltanto termini del  concre­to.  Concreta è soltanto la coscienza [...] che [...]  è  la realtà attiva."[243] Quindi alla concezione gnoseologica dell’oggetto come ente-cosa, che nella coscienza è sempre in rapporto col soggetto, Carabellese ne affianca quest’altra di carattere decisamente metafisico: se l’Oggetto è sempre in rapporto  col soggetto,  significa che ha carattere  metafisico[244]: inserito il concetto di concreto come attività, afferma che: “[…] concretamente concepita, l’attività risulta dei molti agenti con un unico principio.” Qui l'Oggetto, nel prosieguo metafisico del pensiero di Carabellese, non è più considerato gnoseologicamente come quel qualcosa che, anche se erroneamente, si contrappone al soggetto formando assieme ad esso i due distinti del concreto, bensì è visto come quell'unico Principio che attiva i  sogget­ti, comune  a tutti, i quali, nella loro molteplicità, trovano in esso la possibilità del loro rapporto reciproco, cosicché “Il valore dei soggetti sta in quell’essere, come agenti, molti, il valore dell’oggetto nell’essere, come principio di attività, unico.” Ciò che interessa qui Carabellese è la definizione della soggettività come concreta individuazione, come singolarità di coscienza che trova nell’oggetto, unico e comune a tutti, il principio intrinseco dell’attività che rende possibile l’esplicitarsi dell’attività stessa, tale che “Queste esplicazioni dell’oggetto, quindi, sono insieme anche lo stesso sviluppo dei soggetti.”   E’ dunque il Principio intrinseco  dell'attività che  rende possibile l'esplicarsi dell'attività stessa, tale  che lo stesso sviluppo dei soggetti non  può che essere inesauribile,  dato  che "Questo principio immanente [...] visto nella sua unici­tà  dai soggetti, che ne sono consapevoli  proprio  come del principio del loro essere (fare), è, in ciascuno  di questi, soltanto implicito, cioè sempre superante quella qualsiasi  esplicazione  che  ciascuno  di  essi   abbia dato." E' qui che si inserisce il tempo come  "qualità universale"   dell'Essere,   ossia necessaria    forma dell'esplicarsi  dell'Essere,  per cui "Agire  è  eterna esplicazione soggettiva  dell'Unico  universale  nelle forme diversificate della sua temporalità. Esplicazione eterna, continua, come l'Unico, di cui è esplicazione." Il tempo dunque non si oppone all'essere come il  mobile all'immobile,  la forma del fenomenico all'essenza  del sostanziale: questo sarebbe ridurre l'Essere a una  sola delle forme del tempo, la presenza, mentre invece  l'Es­sere Concreto è eterna attività come eterna  temporalità che si diversifica nelle sue forme, eterna temporalità che è intensività e non estensività di passato, presente e futuro.

  

13. L’esperienza: la differenza tra universalità implicita e generalità esplicita.

 

Sul livello ontologico pertanto, definito l'altro non l'oggetto ma l'altro soggetto, a  me omogeneo, l'esperienza si qualifica come  rapporto non con l'oggetto, ma dei soggetti tra loro, ed è perciò “[…] reciproca attività dei soggetti, che convengono tutti nel medesimo  risulta­to,  l'oggetto conosciuto. In questo senso  l’oggetto è unitario,  e solo in quanto  unico  per tutti definisce l'esperienza esperienza e  l'og­getto cosa reale.” Qui saremmo ancora, sembrerebbe, in un’ottica kantiana, ossia ai risultati della critica come critica della conoscenza, e sicuramente quest’interpretazione che fa essere unico l’oggetto d’esperienza perché tutti i soggetti lo definiscono tale è giusta. Ma di quale oggetto si sta parlando, se è unico per tutti? Certo non dell’oggetto dell’esperienza comune, che è soggetto a molteplici interpretazioni. E’ quindi dell’oggetto della scienza, sperimentale e necessario, che si sta parlando. L’oggetto esperibile sempre identico. Ma in altro luogo Carabellese ripete: l’esperienza è pertanto "[...] reciproca attività  dei  soggetti, che conviene  in  un  risultato unico, che è attività dell'uno e dell'altro dei soggetti insieme.  L'esperienza, in quanto reciprocità, è  dunque questo  convenire dei molti nel produrre.  [...]  Questa unità   dell'esperienza  è  quella  che   diciamo   cosa dell'esperienza,  cosa  reale. [...]  anche  se  debbasi ammettere  una diversità di esperienza e  quindi  ordini diversi  di  soggetti [...]. Lo  sperimentante  non  sta dunque,  mai,  solo egli con la sua cosa. Se  egli  solo fosse,  neppure  questa  ci  sarebbe.  Perciò  la   cosa dell'esperienza  non è chiusa nella coscienza  singolare di un singolo sperimentante [...]."[245] Ciò che noi diciamo cosa reale allora è per  Carabellese ciò  che  ha una validità comune, e che è  specifica  in primo  luogo della scienza, ma che si estende  oltre  la scienza  comunemente  intesa,  dal momento  che  il  suo carattere  è  non l'universalità ma la  generalità, una generalità prodotta dall’attività di ogni soggetto, mai solo, ma sempre insieme agli altri: e anche qui ci chiediamo: di quale comunità di esperienza parla Carabellese? Qual’è quest’attività comune che i molti producono dall’incontro dei loro molteplici pensieri? Il pensiero comune? La cultura comune?  Certamente, noi diremmo, l’oggettività etica: "La comunità di esperienza [...] non è mai assoluta  univer­salità; la si può dire generalità. [...]  l'universalità è  implicita  e presupposta [...] non può  tradursi  mai pienamente  in  fatto: negherebbe il suo  essere.  [...] L'universale  perché sia tale deve essere  assolutamente unico  [...]  La generalità dell'esperienza,  invece,  è sempre propria della totalità; risulta dal numerico, non è  mai assoluta unicità; non è in sé, ma proprio e sempre nell'altro;  non è assoluta ma relativa."[246] Infatti l’universale e necessario consiste nell’assoluta unicità in ogni tempo e in ogni luogo, possibile e attuale, per tutti i soggetti. Ma mettiamo un po’ d’ordine: se la cultura comune non può essere assoluta, ossia universale necessaria e unica in ogni tempo e in ogni luogo e per tutti, anche i possibili, ciò vuol dire che in questo tipo di esperienza generale e condivisa è insito il concetto di storia, nei due sensi  dell’essere temporanea, cioè sincronicamente diversa a seconda delle varie culture viste nel loro confronto attuale, sia dell’essere diacronicamente relativa, ossia che è diversa a seconda delle epoche. Carabellese qui, in modo netto, si pone in maniera polemica, forse al di là delle sue stesse intenzioni e della propria consapevolezza, contro il solipsismo e l’esistenzialismo, come d’altronde viceversa fa esplicitamente in alcuni altri luoghi delle sue opere. Ciò ci consola nell’idea che c’è sempre, in ogni momento della storia, un altro io cui il soggetto possa dire tu, per formare un noi, il minimo di comunità sociale cui ogni individuo, appunto a giudicare dalle parole di Carabellese, ha diritto, perché semmai il problema, a spostarlo sul piano sociologico, vuoi sincronicamente nella stessa epoca storica, vuoi diacronicamente, storiografico, nel corso del susseguirsi delle varie epoche, nasce proprio dall’incontro, o dallo scontro, di due o più culture, ossia comunità culturali, diverse, come su scala macroscopica avviene oggi.

Ma inoltre questi  passi sono molto importanti per comprendere il concetto  di  esperienza di secondo livello, diversa dall’esperienza di primo livello finora da noi fugacemente analizzata, quella meramente empirica. La differenza tra universalità e generali­tà della conoscenza non spiega per Carabellese soltanto la differenza tra scienza ed esperienza di primo livello, ossia tra scienza e conoscenza empirica, generale, a cui quella non è riducibile e che non è mai universale. Essa spiega vieppiù in Carabellese sia la differenza  tra cosa in  sé  e  cosa empirica, questa astratto prodotto della scienza quella mai pienamente raggiungibile, e  dell'esperienza, sia quella che all’interno dell’esperienza si dà tra forme di esperienza diverse per grado, corrispondente a una diversità  di ordine  dei soggetti: infatti solo alcuni soggetti giungono all’esperienza di secondo livello, ossia pensano, mentre la generalità dei soggetti per Carabellese si ferma all’esperienza empirica, di primo grado quindi, e vive soltanto. Vi è pertanto un’aristocraticità del pensiero e della conoscenza in Carabellese, che si connoterà in termini fideistici: infatti, invertendo i  termini  del rapporto,  di  una generalità intesa  come  comunità  di credenti  e non dell'universalità intesa come  l'insieme di tutti i soggetti possibili sarebbe esperienza la cosa reale, laddove qui reale è da noi inteso in senso forte, hegeliano.  Qui la generalità che come comunità fa esperienza della cosa reale condi­vide  l'apertura all'intellectus fidei.  Questo  sapere, implicito  nella  totalità  dei  soggetti  possibili,  è esplicito allora  solo  nei  soggetti,  pochi non fa che sottolineare Carabellese, che  si   aprono all'intellectus  fidei,  alla  ragione: è l’esperienza della cosa reale in senso hegeliano. La cosa reale, infatti, afferma Carabellese in consonanza con Kant, “[…] la cosa, che è presente nell’esperienza, non è che l’oggetto-idea che non è il dato, ma il prodotto della reciproca attività unificante dei soggetti. […] Cosa reale è dunque quella che risulta all’esperienza perché risulta dalla esperienza.”[247] Ma l’esperienza per Carabellese è sempre generale, mai soggettivamente singolare né oggettivamente universale: essa presuppone come sua condizione trascendentale la “reciprocità spirituale” dei soggetti, ossia è prodotto e generazione.

  

14. La cosa in sé nell’interpretazione di Carabellese

 

Importantissimo nel pensiero di Carabellese è il concetto kantiano di cosa in sé. Ciò che già in Kant denotava un’apertura metafisica come fondamento ontologico del noumeno, viene da Carabellese lungo l’arco della sua meditazione via via inteso in senso assoluto, ossia affrontato prima sul piano della riflessione, poi sul piano della pura speculazione, e, appunto, vorremmo aggiungere, su quello della pura meditazione: il concetto di cosa in sé, che già nella filosofia trascendentale era fondamento ontologico dello stesso noumeno (e relativamente al fenomeno inteso questo nella sua prospettiva empirico-soggettiva), diviene anch’esso un’essenziale configurazione dell’Essere: la Cosa in sé è unica ed è l’Essere soprasensibile.

Già negli anni Trenta, ossia ne Il problema teologico come filosofia, e ne L’idealismo italiano, Carabellese afferma che la kantiana possibilità della metafisica come esigenza della ragione è fondata proprio su ciò che, lungi dall’essere il “caput mortuum” del kantismo, come nell’interpretazione postkantiana tradizionale, è proprio la fondamentale scoperta di Kant. La Cosa in sé, di cui Carabellese riporta la formula tradizionale “das Ding an sich selbst”, è necessario ricercarla: Carabellese la traspone dal piano gnoseologico al piano metafisico.

Nel periodo metafisico, la Cosa in sé, che è uno dei nomi di Dio, diviene il trascendente per eccellenza, l’inesauribile dalla  conoscenza  come dall'esperienza come dalla scienza, tutte considerate in senso reale, appunto perché essa Cosa in sé ne è Principio. Allora  l'unico Oggetto,  che,  proprio in quanto unico, non  è  mai  né totalmente  né universalmente esperito, perché, attuatosi  completamente, "negherebbe il suo essere", diviene la radicalizzazione in termini teologico-metafisici della cosa in sé in senso kantiano. Nell’ultima parte de L’Essere e la sua manifestazione la cosa in sé è assoluta, ed è, in quanto configurazione di Dio, il principio immanente al generarsi della cosa “reale”, immanente non soltanto a questa ma alla stessa coscienza come suo essere costitutivo, ossia spiritualità, presenza presenziata nel sentimento[248]: qui si nota una sottolineatura carabellesiana del concetto di uomo intero, non limitato soltanto al soggetto gnoseologico.

Poiché il concetto di Cosa in sé viene così radicalizzato, lascia il suo posto di concetto-limite all’interno della filosofia del conoscere, così come viene erroneamente interpretata la filosofia trascendentale, e, trapassando nella metafisica e nella teologia, assume il significato di fondamento ontologico e poi propriamente teologico all’interno della filosofia dell’essere: esso diviene il limite assoluto ma mobile, la Cosa in sé per eccellenza, che distingue, fondando tale distinzione e nel contempo la storia, l’Essere dagli enti, e nel contempo l’Essere dall’essere degli enti: l’ente è ente perche l’Essere, nel periodo metafisico, è anche Cosa in sé. E in questa manifestazione dell’Essere come Cosa in sé, che nell’ora è all’infinito e nell’infinito manifesta, nel momento in cui la mobilità del limite assoluto cade, decade anche la Cosa in sé come limite assoluto, e l’Essere e gli enti si riuniscono coincidendo: si ha la fine della manifestazione dell’Essere, il ritorno dell’Essere a se stesso, argomento che qui non è possibile approfondire, ma che costituirebbe il vero prosieguo, eminentemente teologico, del pensiero di Carabellese, come se fosse possibile riprendere le fila della filosofia carabellesiana nel post-carabellesianesimo.

Se si guarda a L’Essere e la sua manifestazione nel suo complesso, Dio in quanto Essere è sotteso a tutti gli argomenti trattati in questo periodo metafisico. E Dio in quanto Essere è legge dialettica, nel senso penetrativo espansivo e intensivo che dà Carabellese alla sua propria dialettica, contro la sua interpretazione della dialettica di Kant, generatrice di antinomie e paralogismi, o di  Hegel, secondo Carabellese astratta perche oppositiva invece che, appunto, penetrativa e intensiva. L’Essere in quanto Dio  è perciò ne L’Essere e la sua manifestazione, ossia nella sua manifestazione, innanzitutto, come si è già detto,la Legge dialettica delle Forme in cui è esprimibile dall’io che lo ricerca, e che sono oggettive, reali. Ma è anche la Legge dialettica che regola il rapporto tra fato e fatto, cui Carabellese dedica due “Temi” estremamente affascinanti nella loro razionalità stringente, il III, “ La Necessità ”, e il IV, appunto “Il fato”, dove tratta del rapporto tra Dio e fato. Ancora,  Dio in quanto Essere  è la Legge dialettica che regola il rapporto tra la realtà e l’attività spirituale umana. In altre parole, qui l’Essere, essendo la Legge che regola e dunque è superiore a tutte le Forme della sua manifestazione, è, in  quanto immanente-trascendente, il Dio di Mosè, il Dio della Legge che si incontra, nella triade Dio Io io (o Persona io, o Coscienza qualitativa), con l’io. Il Dio di Mosé, dando a questo io  la Legge , configura il Mondo, appunto la Coscienza qualitativa nei suoi cinque gradi di emanazione. Si può affermare che questi cinque gradi di emanazione della Coscienza qualitativa corrispondano ai cinque livelli di ascesi dell’io della Kabala ebraica, definendo Carabellese conoscitore e accoglitore anche dell’Ebraismo sia essoterico che esoterico, come nei fatti attesta il suo Disegno storico, che dopo il brahmanesimo prende infatti in considerazione la teologia giudaica. Peraltro, seppure immanente, in quanto trascendente l’Essere come Legge non si identifica con quello che abbiamo chiamato Mondo: anche la Legge è una manifestazione dell’Essere, e infatti L’Essere nella Dialettica delle Forme e La Dialettica fanno parte della manifestazione.  Si vuol dire in altre parole che per Carabellese nemmeno la Legge è il vero Dio, e in ciò Carabellese, pur contemplandoli nella sua speculazione e nei suoi studi di teologia (come adesso ci appare in tutta la sua evidenza il Disegno storico), esce sia dall’Ebraismo essoterico sia dal kantismo strictu sensu inteso, ossia come teologia e filosofia del dover essere (“ortoprassi”). Se Carabellese, precisamente nel Disegno storico come oggettiva riflessione pura,  esce dall’Ebraismo in quanto teologia del dover essere e dell’Io con la ricerca sul brahmanesimo e con l’attenzione all’estetismo degli antichi greci inteso come loro genio, non vi esce né col continuo ritorno sull’importanza del noema nello stesso Anassagora e non solo, noema fondamentale nell’Ebraismo appunto come ortoprassi, né per la sua inavvedutezza che l’Essere è in relazione distinzione col Nulla, che nell’Ebraismo ha valore positivo essendo uno dei livelli di Dio, e precisamente il Luogo del Mondo. Perciò la relazione Essere Nulla, oggi allo studio, o meglio secondo l’Ebraismo Nulla Essere, non soltanto è relazione gerarchica, ma anche non è relazione cui si possa attribuire un giudizio di valore e soprattutto un giudizio di valore negativo come nella teologia cristiano-cattolica.

Ciò che non è manifestazione in Carabellese non è la Legge , ma l’Essere, che per lui – ed è già storicamente un grande merito oggi superato - è la vera cosa in sé kantiana, la res o il tì, il limite. Limite  peraltro da lui non raggiunto, perché dell’Essere non fece in tempo a scrivere nelle dispense metafisiche, ma solo nel Disegno storico, che così assume un grande valore anche dal punto di vista teologico-metafisico. Infatti se si fa interagire il Disegno storico con L’Essere e la sua manifestazione considerandolo anch’esso una ricerca di carattere teologico-metafisico che non vi può essere scissa, e quasi, forzatamente, come un testamento che Raniero Sabarini ebbe il merito di pubblicare, si scoprono moltissime cose. Si scopre ad esempio non solo la matrice gnostica di Carabellese ma anche, al di là del continuo ritorno sul noema e sulla sua perdita, la grande importanza data a Anassagora, e si comprende finalmente come L’Essere e la sua manifestazione, come risulta chiaramente dai grafici appostivi (da leggere tridimensionalmente e non sul piano, e che risultano più che come circoli come coni), sia in realtà un ritorno a Parmenide ante litteram [249].

In questo senso, il ciclo del Carabellese del periodo critico può essere considerato punto essenziale di passaggio al piano metafisico della  speculazione, che perciò diviene ai nostri occhi speculazione critica (ossimoro che indica appunto kantismo ed hegelismo carabellesiani, e che Carabellese esprime come “metafisica critica”, che comincerà a vedere la luce negli anni Quaranta, ma che egli a nostro parere progetta già prima di quel 1931 con la domanda retorica sulla sua possibilità con la quale titola un fondamentale capitolo del Problema teologico). Il ventennale travaglio del progetto carabellesiano della metafisica critica prende corpo lungo tutti gli anni ’30 e ’40, fino agli ultimi dell’esistenza di Carabellese, nella parziale  stesura del sistema dell’Essere, ma ciò avviene a partire dalla manifestazione dell’Essere stesso prima di analizzare l’Essere in sé e il suo rapporto con l’io, e, vorremmo sottolineare, considerando l’Essere – e non il Principio[250] - origine, e origine della sua stessa scissione (la coppia circolare Dio Io). Qui l’io, ossia il singolo soggetto trascendentale – a nostro parere non il solo pensante che vive carabellesiano – e non l’Io trascendentale kantiano, è da intendere come manifestazione dell’Essere solo  se si dà al termine manifestazione significato realistico coincidente con la realtà, ossia se si esce c.d. fenomenismo kantiano, che a nostro parere non è rintracciabile neppure nelle prime dispense, appunto se si guarda al postkantismo carabellesiano in un’ottica posthegeliana di oggettivismo immanentistico, in cui essere e apparire sono leibnizianamente fondamentalmente unum et idem. Vorremmo sottolineare perciò che è la parola manifestazione che dà adito a equivoci fenomenistici: a nostro parere la parola manifestazione è da intendere non in relazione alla coppia oppositiva essere-apparire, che Carabellese esplicitamente contrastava, ma in relazione alla coppia oppositiva di ascendenza almeno cristiano-razionalistica - se non anche greco-aristotelica perché è appunto Aristotele che fonda tale distinzione che nei filosofi c.d. naturalistici era in realtà assente perché improponibile – spirito-materia (da intendere perciò anche come metafisica-fisica): se c’è un appunto da fare a Carabellese è proprio questo suo aristotelico-cristiano dualismo irrisolto e insuperato tra spirito e materia - che proprio perciò  fonda la scissione della metafisica occidentale e la “dimenticanza” del problema dell’essere -, dualismo non superato che è il solo che spiega veramente a fondo la distinzione tra quella che noi  abbiamo definito realizzazione e quella che Carabellese chiama manifestazione, che pure si pongono sulla stessa linea di continuità.

 

15. La distinzione tra coscienza e inconoscibilità della cosa in sé: la concretezza.

 

Secondo Carabellese, escludere la cosa in sé dall’ambito della conoscenza in senso generale, non significa poi escluderla dall’ambito della coscienza, poiché anzi la vera scoperta della Critica kantiana, per Carabellese, è la dichiarazione della noumenicità della cosa in sé: l’Essere in sé è noumeno, ossia appartiene all’ambito della coscienza come Idea. Carabellese capovolge  il senso negativo dell'inconoscibilità kantiana della  cosa in sé:  per la sua conoscibilità è necessaria la concretezza, che supera la separatez­za tra essere e conoscere e tra soggetto e oggetto nel concetto di attività spirituale. Carabellese mette in rilievo la distinzione tra pensabilità e inconoscibilità della cosa in sé, l’una propria della coscienza, l’altra della scienza empirica, forma astratta della conoscenza. “[…] Che cos’altro può voler dire la pensabilità della cosa in sé pur nella sua inconoscibilità? […] quella cosa in sé […] dobbiamo affermarla col pensiero, cioè la pensiamo positivamente […] La pensabilità della cosa in sé kantiana non è che questo vivere l’in sé nella concreta coscienza: la sua inconoscibilità non è che il reciso negare che l’essere astratto della scienza sia l’essere in sé.   L’inconoscibilità kantiana quindi può e deve essere ammessa come risultato della Critica solo nel senso della irriducibilità dell’essere in sé a scienza, presa questa come forma astratta della conoscenza. E’ quindi da distinguere nettamente tra l’essere della scienza, che non è affatto in sé ma è proprio l’essere correlativo, quale viene astratto dalla relazione in cui vive e quindi così (in quanto astratto) generalizzato, e l’essere in sé che è il vero, l’unico e assoluto essere concretizzato da tutto ciò che è.”[251] Vi è dunque inconoscibilità perché la cosa in sé non è un oggetto tra altri, ma il principio dell’oggettività, il principio della conoscenza, e proprio in quanto tale inconoscibile. L’inconoscibilità significa qui non l’impossibilità di una sua esperienza  - esperienza non empirica -, ma l’inesauribilità che essa, in quanto principio, impone a questa esperienza stessa, e dunque alla conoscenza. E poiché è principio della conoscenza, è oggetto puro, oggetto immanente alla coscienza: l’inconoscibilità, ammessa la noumenicità, si è trasformata da negazione in positiva affermazione della cosa in sé come principio di conoscibilità, e ancor più come principio della stessa coscienza, Oggetto puro. E’ la noumenicità il punto chiave che consente il rapporto tra cosa in sé e coscienza, e non a caso Carabellese la ritiene, insieme alla cosa in sé, il vero risultato della Critica: in tal modo  la cosa in sé è affermabile come immanente alla coscienza, suo oggetto puro.

Edoardo Mirri, che con Furia Valori ha avuto il merito di aver ricostruito per circa un decennio la speculazione dell’ultimo Carabellese pubblicando il sistema metafisico fino ad allora inedito, centra nella interpretazione carabellesiana della kantiana cosa in sé il nucleo della ripresa che Carabellese fa di Kant, anche se individua un’improprietà di linguaggio di Carabellese nel definirla Oggetto puro[252]. La noumenicità significa non estraneità dell’essere alla coscienza, ma anzi ancor di più il suo esserne principio immanente, ciò per cui ogni oggetto è oggetto della coscienza. Mirri mette bene in luce la differenza fondamentale che il Kant interpretato da Carabellese pone tra cosa in sé e cosa “reale”, empirica: l’una è l’assoluto essere della coscienza, ciò che la fonda come tale e che in quanto principio è inconoscibile, cioè non riconducibile ad alcuna rappresentazione, perché esso stesso fondamento di qualunque rappresentazione, Dio come Oggetto puro, l’altra, la cosa “reale”, è frutto della reciprocità dei soggetti nella loro alterità di coscienza, reciprocità il cui consenso fonda la cosa che si dà nell’esperienza, ed è oggetto della scienza sperimentale – la natura.

La cosa in sé kantiana è dunque interpretata da Carabellese in chiave nettamente metafisica e teologica, dandole il valore di essere che in quanto principio fonda la realtà empirica, e in questo senso si identifica con Dio. Vi è dunque uno spostamento di piano dall’ambito gnoseologico kantiano all’ambito ontoteologico carabellesiano: nell’interpretazione carabellesiana della cosa in sé kantiana come Oggetto puro di coscienza è possibile infatti intravedere la trasformazione del problema gnoseologico in problema ontoteologico. Questa reinterpretazione può considerarsi come la radicalizzazione e al tempo stesso l’oltrepassamento della concezione kantiana della cosa in sé come essere in sé oggetto della metafisica. Nell’affermazione kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sé Carabellese infatti intravede un residuo di realismo acritico, che accetta come fondata la posizione dell’essere come al di là della coscienza. Ma come fa notare Leo Lugarini in  un interessante saggio,  il ripensamento carabellesiano dell’inconosci­bilità kantiana della cosa in sé  implica innanzitutto la distinzione  di  matrice aristotelica tra l'Essere in sé, oggetto della metafisi­ca, e l'essere degli enti, oggetto delle scienze empiri­che. La noumenicità della cosa in sé si inserisce nella distinzione kantiana tra conoscere e pensare, intelletto e ragione. Inconoscibilità e noumenicità costituiscono una coppia oppositiva, i cui due elementi si integrano a vicenda: se la cosa in sé è inconoscibile dall’intelletto con le sue categorie, che infatti quando vi si applica dà luogo alla contraddizione che Kant prende in esame nella Dialettica Trascendentale come costitutiva della ragione umana, pure essa cosa in sé risulta pensabile dalla ragione con le sue idee. Mentre dunque l’inconoscibilità è considerata da Carabellese un residuo realistico e acritico che si riferisce a un al di là della coscienza inaccettabile, la noumenicità è il punto di partenza per la metafisica critica, in quanto per Carabellese, ricorda Lugarini, “punto di appoggio” della ragione sia come concetto-limite che come concetto razionale. La cosa in sé nella sua noumenicità si trasforma in Carabellese in idea trascendentale. Carabellese individua in Kant lo spazio per un passaggio dalla critica della  coscienza alla critica del pensare: la cosa  in  sé kantiana  viene identificata con "L'idea  trascendentale interpretata   come  universale e  unitario  oggetto  di coscienza,  [che] si rivela immanente  fondamento  della coscienza [...]."[253]

Carabellese ha sempre combattuto contro la riduzione dell’Essere al sapere, che tacciava di gnoseologismo: l’Essere-Sapere costituisce un livello dell’Essere che però non può essere considerato, a nostro parere, assoluto. Perciò se da un lato per Carabellese il problema del sapere viene riproposto in termini nuovi come Sapere concreto, pure dall’altro esso non è il problema centrale della sua metafisica, che perciò non si esaurisce in esso: è necessario non dimenticare l’inconscio Otto-Novecentesco, che pure Carabellese conserva e assume nell’implicitezza dell’Universale, quella “notte della conservazione” di cui parlava Hegel.

Anche Giuseppe Semerari concorda con quest’interpretazione della noumenicità dell’essere in sé, nella quale vede l’antidogmatismo carabellesiano, ma continua a vedere in essa, a  differenza di Mirri, un essere esterno alla coscienza, dunque un essere realistico: “Secondo Carabellese la conquista maggiore della Critica […] è che l’essere, benché esterno alla coscienza, è tuttavia pensato dalla coscienza in questo suo essere esterno ad essa. <<E’ questa la imprescindibile noumenicità dell’essere in sé (Kant diceva cosa in sé)>>. Tale scoperta […] viene perduta nel pensiero posteriore.”[254]        Il problema della cosa in sé è, secondo Semerari, il punto di “maggior tensione problematica e ambiguità della Critica”, per cui il ritorno a Kant di Carabellese è sviluppo critico della Critica, al di là del dogmatismo persistente del pensiero  contemporaneo, che a partire dal pensiero postkantiano ha ignorato o negato il problema della cosa in sé. Ma riguardo alla concezione realistica di un essere visto come il fuori della coscienza ancora in Carabellese, Semerari sembra poi ricredersi quando individua in Kant il limite oltre il quale tale concezione realistica dell’essere scompare: “La cosa in sé è, a un tempo la maggior scoperta e il maggiore limite della Critica, che da un lato ne fa l’oggetto ineliminabile del pensiero oltre i confini conoscitivi dell’intelletto, e la regola del conoscere stesso, e, dall’altro, continua a concepire acriticamente come qualcosa che esiste sostanzialisticamente, al di fuori della coscienza.”[255] Quindi vi è un essere che concretisticamente viene all’essere nella concrescenza di materia e forma, citiamo Semerari che riprende il neokantiano Masci, primo maestro di Carabellese. Dopo la  Critica kantiana, Carabellese afferma una critica che sia "[...] critica della  coscien­za,  cioè  critica della concreta  attività  spirituale, critica  dell'essere nella sua concretezza [...]  essere che è coscienza [...]."[256] L’ontologismo critico carabellesiano si afferma come nuova ontologia nel momento in cui riconosce l’appartenenza dell’essere alla coscienza e ricerca, come sua questione critica fondamentale, quell’essere di coscienza che, come fondamento del sapere, è sempre presente in ogni sapere concreto pur senza identificarsi con esso. Su questa base Semerari giunge a dire che “La nuova metafisica […] è il problema del sapere radicalizzato sino al limite del suo essere.”[257], laddove non si può non notare che Carabellese ha sempre combattuto contro la riduzione dell’essere al sapere, che tacciava di gnoseologismo, e inoltre che l’Essere-Sapere è non solo interpretato da Carabellese in termini ontologici, ma costituisce un livello dell’essere che, ripetiamo, non può essere considerato assoluto. A nostro parere perciò, se da un lato sicuramente in Carabellese il problema del sapere viene riproposto in termini nuovi come sapere concreto, pure dall’altro esso non è il problema centrale della sua metafisica, che perciò non si esaurisce in esso: il problema di Carabellese in altre parole non è umanistico, come continuamente egli ci ripete, ma è il problema ontologico, il problema dell’essere in sé, che sconfina oltre i limiti del sapere del soggetto e che mette in campo tutto il lavoro novecentesco dell’inconscio, e forse anche oltre, in quella “notte della conservazione” di cui parla Hegel. Al di là di questo, Semerari sottolinea come l’oggetto è recuperato da Carabellese nella sua pluridimensionalità, che travalica il limite angusto dell’oggetto di conoscenza per divenire in  diversi modi oggetto di coscienza, e vede inoltre, forse un po’ riduttivamente, lo sfondo dell’opera carabellesiana nel rinnovamento della concezione dell’uomo in polemica sia con l’antropocentrismo che con il naturalismo “che limita al puro attualismo il valore dell’uomo”, rinnovamento, seppure secondo lui macchiato da uno spiritualismo che si lascia sfuggire la drammaticità dell’esistenza dell’uomo tesa nel conflitto delle possibilità.[258]

Carabellese, a nostro parere, considera la Coscienza non  soltanto  come coscienza umana, bensì come Coscienza che pervade  tutto l'essere concreto e di cui l'Essere in sé costituisce il Principio, dunque Coscienza divina che è attività spiri­tuale, e di cui l'attività spirituale umana e la  coscienza umana sono particolarizzazioni, concretizzazioni parzia­li. Questo Essere come Coscienza, e dunque come  Pensie­ro,  d'un colpo elimina quel dualismo tra essere e  pen­siero,   tra  realtà  e  coscienza  (umana)  che,   dice  Carabellese,  ha attraversato  tutto  il  pensiero filosofico come problema della possibilità di  conoscere questo essere altro e che ha condotto l'idealismo  post-kantiano  alla "proclamazione del valore assoluto  della contraddizione".  L'Essere come Pensiero, l'Essere  come Coscienza è allora  una seconda forma di essere, l'Esse­re Concreto: tutto ciò che ha l'essere in sé  immanente, tutto ciò che  è distinto  e relativo,  nel  doppio senso di essere in  relazione  ad altro e di non essere assoluto. Ma tra Essere in sé e Essere Concreto c’è una distinzione precisa e una differenza di livello. Afferma infatti  Carabellese:  "[...] stiamo bene attenti a non confondere l'essere in sé  con l'essere  concreto  nel quale pur tale essere in  sé  si realizza [...]."[259]

  

16. Cosa in sé, cosa reale, cosa astratta

 

Siamo, nella considerazione della cosa, di fronte a tre distinte forme  d'essere,  di cui  solo  le prime due sono poste  da  Carabellese  sul piano  ontologico:  l'Essere in sé, l'essere  in  altro, l'essere  astratto  della scienza  empirica  che  scinde l'essere  in  un soggetto e in un oggetto e  vede  que­st'ultimo come il fuori della coscienza. Perciò  è necessario per Carabellese distinguere innanzitutto tra cosa in  sé e  cosa  reale: "Questa è relativa, quella  è  assoluta; questa è la cosa nel suo generarsi, quella è il  princi­pio  stesso  immanente alla generazione: quella  è  Dio, questa  è natura. [...] la cosa in sé,  scopertasi  come l'oggetto  puro  della coscienza, non solo non  è  fuori della  coscienza,  ma ne è l'essere  costitutivo,  è  la stessa spiritualità [...]."[260]

Soffermandosi in questo passo sulla concezione carabellesiana di cosa reale, è possibile dedurre la concezione dell’essere e inoltre mostrarne la sua interpretazione come Coscienza, dal fatto che Carabellese, nel proporre una nuova Critica che dopo la Critica kantiana non sia più critica della conoscenza ma Critica della Coscienza, afferma: “[…] critica della coscienza, cioè critica della concreta attività spirituale e critica dell’essere nella sua concretezza […] essere che è coscienza […]”[261] Qui implicitamente la Coscienza è intesa non soltanto come coscienza umana, bensì come Coscienza che pervade tutto l’essere concreto, e di cui l’Essere in sé costituisce il Principio, dunque Coscienza divina che è attività spirituale, di cui l’attività spirituale umana e  la coscienza umana sono particolarizzazioni, concretizzazioni parziali. L’Essere come Pensiero, l’Essere come Coscienza è allora una seconda forma di essere, l’Essere concreto: tutto ciò che ha l’essere in sé immanente, tutto ciò che è distinto e relativo, nel doppio senso di essere in relazione ad altro e di non essere assoluto. Ma tra l’Essere in sé e l’Essere concreto c’è una distinzione precisa e una differenza di livello: l’essere concreto è l'"essere  correlativo", l'essere in relazione, che viene  "astratto dalla relazione in cui  vive  e generalizzato". Questa operazione di astrazione che Carabellese attribuisce alla scienza è in singolare consonanza con la tesi del già ricordato Rickert, secondo cui la scienza opera una razionalizzazione del reale con la quale astrae dal continuum eterogeneo del reale stesso per costruire o un discretum eterogeneo delle scienze empiriche, qualitativo e reale, e che a sua volta è diviso in scienze della natura e scienze della cultura, o il continuum omogeneo della matematica, quantitativo e irreale.[262] Ma qui soprattutto si chiarisce il perché della continua critica carabellesiana all’intellettualismo: la distinzione tra scienza e coscienza, tra conoscenza e coscienza, è distinzione tra due modi di approccio al reale, l’uno che coinvolge il solo soggetto epistemico, un soggetto parziale e che a sua volta parzializza la realtà, l’essere concreto, astraendone un solo lato, quello che poi chiama “realtà”, raggiungendo così la cosa astratta, e l’altro che costituisce quest’Essere Concreto, che, a sua volta, coinvolge tutto l'uomo e la realtà, è la Cosa Reale. Riguardo alla scienza, Carabellese dice infatti che essa non raggiungerà mai in nessun progresso conoscitivo la cosa in sé: “La scienza […] non scoprirà mai la cosa come tale, che richiederà sempre quel quid […]. Ma, implicitamente, nel procedere stesso delle sue ricerche, lo scienziato come l’uomo comune continuerà a porre la cosalità della cosa in quel quid unificante.”[263]

Coscienza comune e scienza dunque presuppongono ambedue nella conoscenza la cosa in sé come base e fondamento della conoscenza stessa, ma pure non la raggiungeranno mai perché la Cosa in sé è l’Universale. Mentre la coscienza comune e la scienza la presuppongono, la coscienza speculativa – la filosofia – la tematizza: Essa è quel più del concetto che nessun concetto riuscirà mai a cogliere pienamente, per quanto, dice Carabellese, essa ne costituisca il punto di partenza. E’ in questo senso che la Cosa in sé è Oggetto puro: “Oggetto puro traducibile in termini […] di realtà di esperienza: ecco l’inconoscibilità kantiana della cosa in sé […]”[264] Così avviene il passaggio dalla concettualità alla noumenicità che Carabellese interpreta prima nel senso che la Cosa in sé diviene esigenza suprema della coscienza e sua condizione intrascendibile, poi  nel senso che la Cosa in sé da specifico essere determinato diviene Essere in sé ”[…] quid unificante, costitutivo di ogni cosa perché è la cosalità stessa.” [265] Da un lato dunque interiorità e non esteriorità della cosa in sé, dall’altro sua estensione a “principio fondamentale di ogni singolarità”.

 

 17.  L'Assoluto carabellesiano: 

la possibile  connessione tra Kant e Hegel nella direzione del sistema metafisico

 

Questi due aspetti costituiscono l’interpretazione originale che Carabellese dà della cosa in sé kantiana, interpretazione che gli consente di identificare cosa in sé e Oggetto puro. Se infatti la cosa in sé è assoluto unico, valido universalmente, e pertanto immanente alla coscienza, la cosa in sé si rivela come Oggetto puro, che, dopo e oltre Kant, è l'Assoluto[266]. L'essere l'Assoluto  come  unità del relativo in quanto  ad  esso immanente, ma non totalità del relativo perché altrimen­ti vi si identificherebbe, fa sì che la filosofia di  Carabellese esuli dal rischio di panteismo.  Perciò riguardo al rapporto tra relativo e Assoluto[267], che è poi rapporto  tra soggetti e Oggetto come   condizioni  tra­scendentali  della  Coscienza, "[...]  è  proprio  nelle intime viscere del relativo che bisogna ricercare  l'As­soluto. L'essere oggettivo che io ritroverò in me non è solo ciò per cui io dipendo da voi e voi da me, l'essere cioè reciproco, ma è l'essere pel quale unicamente siamo io e voi, l'essere unico, ineffabile [...]. [...]  L'as­soluto oggetto è la cosa in sé." [268] Le tappe di quest'identificazione tra assoluto Oggetto e cosa  in  sé sono la concezione della cosa  in  sé  come noumeno immanente alla coscienza,  la  concezione della cosa in  sé  come  Essere unico,  la  concezione della  cosa  in sé come Oggetto  puro, condizione trascendentale e principio della coscienza dei soggetti, e in cui tutti i relativi coincidono e trovano il loro fondamento, e infine come Essere assoluto in cui Soggetto puro e Oggetto puro hegelianamente trovano il loro spazio nello Spirito assoluto. In tal modo, la trasformazione del problema gnoseologico in problema metafisico è compiuta, manca ancora solo l’esplicita dichiarazione che questo Assoluto è, come Oggetto puro, Principio immanente della coscienza soggettiva, è Dio. Quando questa dichiarazione troverà il supporto della necessaria argomentazione, il problema metafisico si preciserà essere onto-teologico.

Ne  Il  problema teologico come filosofia è chiara l'interpretazio­ne  carabellesiana della cosa in sé come Dio: "[...]  la cosa  in  sé in quanto oggetto puro  [...]  è  assoluta [...]  è il principio stesso immanente alla  generazione [della  cosa  reale] [...] è Dio [...]."[269] Così Dio  da  un punto  di  vista oggettivo è coscienza  omnipervasiva  e principio spirituale che immane al concreto, da un punto di vista soggettivo è oggetto della coscienza dei singoli soggetti  spirituali, e nell'un caso come  nell'altro è "costitutivo", secondo Carabellese. Che continua:  "L'Esse­re  in  sé adunque, o è l'Unico o non  è  assolutamente. [...] Quella cosa in sé, adunque, che è l'Oggetto  puro, essendo,  come  tale, assoluta unicità di  coscienza,  è quello  che da tutti intendesi come Spirito assoluto:  è Dio."[270] Così,  cosa in sé e Oggetto puro sono i due  aspetti  di Dio,  l'uno oggettivo, l'altro soggettivo: ciò  che  dal punto di vista oggettivo è l'essere in sé delle cose, la cosa  in  sé come ciò che costituisce le cose  nel  loro essere  cose, dal punto di vista soggettivo è  l'Oggetto puro  della  coscienza. L'essere in sé  dunque,  che  si realizza  nell'essere concreto o Coscienza (sua  manife­stazione),  è  Dio. Come si vede, il  concetto kantiano  di  cosa in sé assume un  significato molto  più  ampio che in Kant: da cosa in sé diviene Essere  in sé, da concetto relativo che esprime ciò che ogni cosa è in se stessa diviene concetto assoluto esprimente Ciò che è immanente in  tutto l'essere, vera e propria essenza di  tutte  le cose,  ma intesa unitariamente e non come  essere  delle cose. Si tratta di una diversa interpretazione che Carabellese dà della cosa in sé kantiana. E’ un’estensione dell’in sé che potrebbe anche fare a meno di dirsi cosa, se non fosse fondamentale per Carabellese il fatto che questo Essere in sé è l’Oggetto puro che sostiene  e fonda l’attività spirituale non solo umana  ma di tutto l’essere, e può sostenerla e fondarla in quanto è in se stessa Idea. Dio è Idea,  principio attivo, che mentre è essere, è anche movimento,  diveni­re, e,  in quanto è spiritualità, spirito: ne La  filosofia di Kant Carabellese  precisa tutto ciò con queste  paro­le : “…] la cosa nella sua purez­za, la cosa che non è questa o quella cosa, in breve  la cosa  in sé sarà la stessa idea nella sua purezza,  sarà cioè  l'oggettività  pura,  sarà  l'unicità  dell'essere universale  [...].  E supera­re la concezione statica dell'essere non è negare  l'es­sere  per  il  divenire, ma  concepirlo  come  continua, attiva realizzazione che dura. [...] Essere è  attività; e  attività è  spiritualità della quale  soltanto  siamo consapevoli. Tutto sta a guadagnare veramente la  conce­zione  dinamica dell'essere. [...] Ha  ragione  Rosmini: l'idea,  che è idea per eccellenza e soltanto  e  sempre idea, è unica; è l'Essere. [...] L'Idea,  dunque,  è Dio, e solo così possiamo concepire la creazione evitando  le grossolanità del concetto  tradizionale.  L'Idea, nella sua purezza, è l'assoluta coscienza."[271] Dove sono da notare, insieme alla trasposizione metafisica del concetto kantiano di cosa in sé  come Dio, e l’avvicinamento (che nell’ultima fase sarà anche distinzione), sempre sul piano metafisico, del concetto di Cosa in sé con quello di Idea come Dio,  sia, contro certa  critica  neoscolastica, il concetto carabellesiano di  Dio  come creatore, sia la vicinanza, al di là delle  differenze che meriterebbero uno studio specifico, con il concetto di Assoluto in Hegel, che supera la distinzione tra  relativo e assoluto e tra soggettivo e oggettivo  e si  pone come assoluta coscienza in sé che si attua  nel movimento  del  divenire, e così facendo  si  pone  come creatore.

L'Assoluto  come  Idea, se da un lato risale a Kant, dall'altro non solo nel suo essere Idea, ma anche nel suo essere in sé,  rimanda all'Assoluto  hegeliano. In questa fase critica del pensiero carabellesiano questo rimando è all’Assoluto hegeliano inteso come, citando espressioni famosissime della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, "essenza o ciò che è in sé", "sostanza come movimento" e  "Spirito  come intatta  eguaglianza e unità con sé". Nella fase tarda del sistema metafisico invece, è da  verificare, secondo noi,  l'in­fluenza  dell'Assoluto hegeliano come "intero che  è  il vero", nel senso che è "l'essenza che si completa median­te il suo sviluppo", per cui "è essenzialmente  Resulta­to",  "Spirito  come l'effettuale", sistema. Al di là della persistente critica carabellesiana alla dialet­tica hegeliana e alla presunta negazione hegeliana della soggettività plurale, è rintracciabile, oltre all'appar­tenenza  al comune orizzonte  dell'idealismo  oggettivo, una  possibile coincidenza dell'Assoluto hegeliano  come intero con  l'Essere carabellesiano. In questo caso, si porrebbe il  problema storico-teoretico di uno sviluppo del concetto di  Asso­luto in Carabellese nel passaggio dall'Assoluto come  in sé  dell'essere del periodo critico,  all'Assoluto  come Essere   nei suoi diversi livelli e nelle  sue  distinte articolazioni  nel  disegno  della metafisica carabellesiana dell'ultimo periodo, ossia, se ci si passa la terminologia non completamente hegeliana, Essere in sé (Idea o Principio), nella sua distinzione in Dio e Io, Essere per sé, nella  manifestazione della sua articolazione dialettica in Fatto e Atto, e Essere in sé e per sé, nella sua logica costituita ad un primo livello  dall'attività spirituale umana[272].

A proposito di questa dimensione dell'Assoluto in Hegel come superamento della distinzione tra  sogget­tivo e oggettivo e critica alla filosofia della  sogget­tività incarnata soprattutto da Fichte, nell'intento  di precisare chiaramente i termini nei quali si può parlare in  Hegel  di  un concetto di  Assoluto  come  soggetto, Walter  Jaeschke,  riferendosi  alla  Prefazione   della Fenomenologia dello spirito che chiude il periodo jenese di  Hegel nel 1807, citando  Hegel stesso  afferma:  "Ma cosa significa allora intendere l'assoluto come  sogget­to?  'La  sostanza  vivente e inoltre  l'essere  che  in verità è soggetto, ovvero - il che significa lo stesso - che in verità è reale solo in quanto è il movimento  del porre se stesso.' 'Essere soggetto' viene così  spiegato con  'movimento', ovvero, come si dice in  seguito,  con divenire,  e  dunque con un  movimento  determinato,  il 'movimento del porre se stesso', 'l'automovimento  della forma',  'il  divenir  se stesso'.  L'assoluto  è  'solo l'essere che si compie attraverso il suo sviluppo': come risultato ' è solo alla fine quello [...] che è in  veri­tà'.  Concepire l'assoluto come soggetto  non  significa affatto,  dunque,  concepirlo come soggetto  assoluto  o soggettività assoluta, nel senso che Hegel ha  criticato nei suoi primi scritti jenesi. [...] chi pensa l'assolu­to  come  soggetto  (ossia [...]  rappresenta  Dio  come persona  nel  senso  comune della  parola)  [...]  manca necessariamente l'idea della soggettività dell'assoluto, e  non  la manca solo, ma nasconde anche  la  vera  idea della  soggettività,  cioè l'idea che  l'assoluto  è  il movimento che produce se stesso ed in questa  produzione sa di sé."[273]

Per verificare la vicinanza a  Carabellese, vogliamo  ora citare direttamente dalla Prefazione  alla Fenomenologia dello spirito cui fa riferimento Jaeschke, dove  Hegel afferma: "La sostanza viva è bensì  l'essere il  quale  è  in verità Soggetto, o, ciò che  è  poi  lo stesso,  è  l'essere  che  in verità è  effettuale,  ma soltanto in quanto la sostanza è il movimento del  porre se stesso [...] - non un'unità originaria come tale,  né un'unità immediata come tale -, è il vero. Il vero è  il divenire  di se stesso, il circolo che presuppone e  che ha  all'inizio la propria fine come proprio fine, e  che solo mediante l'attuazione e la propria fine è effettua­le. La vita di Dio [...]. In sé [an sich] quella vita  è l'intatta eguaglianza e unità con sé [...]. Ma  siffatto in-sé l'universalità astratta, nella quale, cioè,  si prescinde  dalla  natura  di esso di essere  per  sé,  e quindi,  in  generale, dall'automovimento  della  forma. Qualora la forma venga espressa come eguale all'essenza, si  incorre poi in un malinteso [...] - se si pensa  che l'assoluto principio fondamentale o l'intuizione assolu­ta  rendano  superflua  l'attuazione  progressiva  della prima   [la   forma]  o  lo   sviluppo   della   seconda [l'essenza].  Appunto  perché  la  forma  è   essenziale all'essenza, quanto questa lo è a se stessa, quest'ulti­ma  non  è  concepibile né  esprimibile  meramente  come essenza,  ossia  come  sostanza immediata  o  come  pura autointuizione  del divino; anzi,  proprio   altrettanto come forma, e in tutta la ricchezza della forma  svilup­pata; solo così è  concepita ed espressa come Effettuale. Il  vero è l'intiero. Ma l'intiero è soltanto  l'essenza che si completa mediante il suo  sviluppo. Dell'Assoluto devesi  dire  che esso è essenzialmente  Resultato,  che solo  alla fine è ciò che è in verità; e proprio in  ciò consiste  la sua natura, nell'essere effettualità,  sog­getto  o divenir-se-stesso. [...] Il  cominciamento,  il principio  o l'Assoluto, come da prima e  immediatamente viene  enunciato,  è solo l'Universale."[274] E  poi  Hegel continua: "Che il vero sia effettuale solo come sistema, o  che  la sostanza sia essenzialmente Soggetto,  ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia  l'Asso­luto come Spirito, - elevatissimo concetto  appartenente alla  età  moderna  e alla sua  religione.  Soltanto  lo spirituale è l'effettuale; esso è: - l'essenza o ciò che è  in sè [an sich]; ciò che ha riferimento e  determina­tezza,  l'esser-altro  e l'esser-per-sé; e  ciò  che  in quella determinatezza o nel suo esser fuori di sé  resta entro se stesso; ossia esso è in sé e per sé."[275],  laddo­ve, oltre alla vicinanza della concezione  dell'Assoluto come Spirito, ossia come Assoluto che si fa  Effettuale nello  sviluppo  di se stesso e solo come  intero  è  il vero,  in  particolare le ultime frasi  di  quest'ultima citazione  ci sembrano molto importanti ai fini  di  un confronto  tutto  da fare con l'ultimo Carabellese  del periodo metafisico e con l'articolazione del suo  siste­ma. Ci sembra che in Carabellese, fin dal periodo critico, e precisamente dal suo La filosofia di Kant. I L’idea teologica, del 1927, cui la sua argomentazione qui riportata si riferisce, si possa dire che si rinvenga una coincidenza di intenti se non anche di vere e proprie teorizzazioni con l’idea di Assoluto in Hegel. Al di là infatti della matrice kantiana di queste argomentazioni così come esplicitato fin dal titolo dell’opera cui stiamo facendo riferimento, il concetto di Assoluto come Idea, se da un lato risale  a Kant soprattutto nella sua connotazione di cosa in sé, dall’altro non solo nel suo essere appunto Idea, ma anche nel suo essere in sé – poiché come abbiamo suggerito la conservazione della denominazione di cosa è del tutto funzionale a Carabellese, a stabilire che ci si muove sul piano metafisico e non gnoseologico della Critica kantiana -, rimanda all’Assoluto hegeliano. In questa fase critica del pensiero carabellesiano, questo rimando è all’Assoluto hegeliano inteso come essenza o ciò che è in sé, così come anche “sostanza come movimento” e “Spirito come intatta eguaglianza e unità con sé”. Nella fase tarda del sistema metafisico invece, è da verificare l’influenza dell’Assoluto hegeliano come “intero che è il vero”, nel senso che è “l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo”, per cui “è essenzialmente Resultato”, “Spirito come l’effettuale”, sistema. In questo rimando e in questa influenza che suffragano la tesi più volte in questa ricerca esemplificata di una vicinanza del pensiero carabellesiano al pensiero hegeliano, al di là della persistente critica carabellesiana alla dialettica hegeliana della soggettività plurale, è rintracciabile, oltre all’appartenenza al comune orizzonte dell’idealismo oggettivo, una possibile coincidenza dell’Assoluto hegeliano come intero (ossia Spirito che è l’effettuale nel suo sviluppo e solo così è il vero come sistema) con l’Essere carabellesiano. In questo caso si porrebbe il problema storico-teorico di uno sviluppo del concetto di Assoluto in Carabellese nel passaggio dall’Assoluto come in sé dell’essere del periodo critico all’Assoluto come Essere nei suoi diversi livelli e nelle sue distinte articolazioni cui abbiamo accennato nel disegno della metafisica carabellesiana dell’ultimo periodo, ossia, se ci si passa la terminologia non completamente hegeliana, Essere in sé, Idea o Principio nella sua distinzione in Dio e Io, Essere per sé nella manifestazione della sua articolazione dialettica, e Essere in sé e per sé nella logica costituita a un primo livello dall’attività spirituale umana. Ma non bisogna dimenticare che, come sottolinea Giuseppe Pinto nella ricostruzione a nostro parere imprecisa in alcuni punti degli ultimi anni di vita del maestro[276], da questo sistema dell’Essere, che costituiva la Metafisica , era, come si dice in nota, esclusa la Fisica , ossia la natura e l’esperienza, che perciò non rientrano in quello che è da noi definito Essere per sé, il quale per tale motivo non costituisce, come per Hegel, il momento della alienazione dell’Essere, poiché secondo la visione carabellesiana l’Essere metafisico non si aliena ma si manifesta: Carabellese avrebbe forse usato, se avesse potuto stendere la Fisica , il concetto di alienazione, come Hegel, appunto sul piano fisico della natura e dell’esperienza.

La  nostra ipotesi che nelle intenzioni di  Carabellese, anche a partire dai titoli, il ciclo di corsi su L'Essere e il ciclo di corsi su L’Essere e la sua manifestazione, che non possono pensarsi diversi per semplice noncuranza, fossero da tenere ben distinti,  riguardando, il primo, il primo livello di  quella Metafisica che, sono parole di Pinto, Carabellese voleva realizzare, cioè quello che potremmo chiamare il livello dell'Essere che pensa Se Stesso, mentre il secondo, L’Essere e la sua manifestazione, riguardante il secondo livello di quella stessa Metafisica, ossia quello della manifestazione dell’Essere, dunque l'ipotesi che i cicli fosse­ro  due e non lo stesso, ipotesi che porta  come  conse­guenza  l'altra, ossia  che il corso sull'Io fosse,  seppure  il primo  in ordine cronologico (A.A. 1946-47), il  secondo in ordine logico di un’opera ancora da scrivere perché mancante,  probabilmente perché non tenuto, più  difficil­mente  perché disperso, il corso sulla Parte I, che  noi ipotizziamo  essere su Dio anche a partire dai  ripetuti richiami  carabellesiani alla specularità  del  rapporto tra  io  e  Dio, tutte queste  ipotesi  suffragano la tesi  che  Carabellese, assolutamente interno all'orizzonte del Cristiane­simo, fosse, oltre la sua stessa  conoscen­za,  assolutamente interno, almeno nell'ultima fase  del suo  pensiero,  all'orizzonte  dell'idealismo   assoluto hegeliano. La  tesi  centrale espressa da Walter Jaeschke nella Relazione citata, con documenti su Hegel evidentemente sconosciuti all’epoca da Carabellese, è che appunto in Hegel, sebbene non chiaramente, si ritrova da Glauben und  Wissen sino agli ultimi scritti la  possibilità  di una  connessione tra la soggettività assoluta e la  sog­gettività  infinita,  anche se i due concetti  non  sono sempre  distinti  con precisione da un  punto  di  vista terminologico.  Ora la soggettività assoluta è  precisa­mente  l'Assoluto  di cui stiamo discutendo,  mentre  la soggettività infinita hegeliana è concetto che si ritro­va,  sebbene in modo non così articolato come in  Hegel, anche in Carabellese, che infatti più volte ritorna  sul concetto dell'infinità del soggetto inteso come spirito.

A proposito della soggettività infinita in Hegel, Walter Jaeschke di nuovo ci fa comprendere, come anche Giuseppe Cantillo, che essa costituisce per Hegel il principio del mondo moderno e il suo carattere distintivo rispetto all’antike, a partire dalla venuta di  Cristo: col Cristianesimo si ha la diffusione e la coscienza della soggettività come spirito infinito, sconosciuta sia al mondo orientale che al mondo greco, dai quali il concetto di individuo come persona, nella quale si attua l’unità dell’universale con il particolare, e che dunque comporta il concetto di libertà come sapere che l’uomo ha  di se stesso, resta escluso. E’ importante citare Jaeschke per portare alla luce e comprendere come in realtà in Carabellese si trovino due concezioni della  soggettivi­tà,  l'una vicina a Hegel, l'altra da questi  criticata: "La ragione di questa libertà, l'infinità della  sogget­tività  si trova nel contesto complesso secondo  cui  il ritorno alla coscienza, il ritorno della coscienza in sé è  nel  contempo un uscire dalla sua  particolarità,  un passare all'universalità. Questo passaggio, però, non si trova  nella  situazione  logica che  il  soggetto  come individuo  è  un particolare - che ogni  io  particolare come io è precisamente quello che sono tutti gli io.  Il passaggio  all'universale  e all'infinità  del  soggetto poggia piuttosto sul fatto che l'elemento più caratteri­stico del soggetto è il pensare. Nel pensare il soggetto è presso se stesso, e nel contempo esso è momento del pensare in quanto  attività  dell'universale.  Questa  relazione   di particolarità  e universalità è costitutiva per il  con­cetto della soggettività infinita."[277] Il concetto  cara­bellesiano di soggettività è dunque vicino a quello di Hegel, nelle due concezioni della soggettività quantitativa degli  io plurimi  e uguali, per la quale "ogni io è  un  ciascuno uguale a ciascun altro e ad esso omogeneo, un quanto"  - concezione che Carabellese mantiene intatta sino all'ul­tima fase del suo pensiero tanto che la si ritrova nella prima sezione dell'Io e che è anch'essa di chiara  deri­vazione  cristiana -, e della  soggettività  qualitativa del  "pensante-che-vive" come "spirito infinito che  non nasce  e  non muore", anch'essa  mantenuta  e  anch'essa cristiana.  Infatti è possibile in particolare al  cara­bellesiano pensante-che-vive l'incontro con la concezio­ne  hegeliana della soggettività infinita poiché  questa si definisce come pensiero: "L'universalità è  piuttosto quella del pensare, che è il processo mediante e mediato in  cui  viene costituita la verità. Nel  concetto  della soggettività infinita Hegel pensa questo processo  della mediazione  di  soggettività  (nel senso  di  sapere)  e sostanzialità: che il soggetto si forma il vero mediante il  pensiero  'e raggiunge e conquista  la  verità  solo mediante  il  pensiero'. Ciò che è vero  è  mediato  dal pensiero.  [...]  Il momento peculiare  del  pensiero  è proprio il fatto che non appartiene meramente al sogget­to, come l'opinione che è solo 'mia' e non ha bisogno  di essere mostrata intersoggettivamente [...] correrebbe in realtà  il rischio [...] di mancare  l'universalità  che pretende."[278]

Sebbene  qui  si parli di Hegel  e  non  di Carabellese,  queste riflessioni costituiscono il  punto di  passaggio per la comprensione non soltanto del  pen­sante-che-vive carabellesiano, ma anche del suo oscilla­re  tra una conoscenza immediata dell'Assoluto  mediante l'intellectus  fidei, che potremmo tradurre  in  termini speculativi  moderni  come  intuizione  intellettuale  o intuizione  trascendentale,  e  una  conoscenza  mediata dell'Assoluto attraverso, appunto, il pensiero. E’ appunto il pensiero il punto  di congiunzione  tra soggettività assoluta  e  soggettività infinita  in  Hegel,  secondo la  tesi  centrale  portata avanti da Jaeschke come direzione di ricerca pur nella distinzione da lui sottolineata come necessaria in Hegel tra Assoluto e Soggetto. Questa connessione, affermata da  Hegel  nell'Introduzione  al corso  del  1827  sulla Filosofia  della  religione,  da  Jaeschke   considerato fondamentale  e poco conosciuto, è articolata da Hegel nell’esposizione dello sviluppo della storia della religione a partire dal momento cardine in cui, nella religione testimoniata dal Vecchio Testamento, il Dio di Israele viene concepito per la prima volta come Soggetto Assoluto e non più come Sostanza: come Dio. La critica hegeliana al Dio ebraico è analoga a quella di Carabellese, sebbene questi non distingua esplicitamente come fa Hegel e come noi stiamo facendo qui per Carabellese stesso tra Antico e Nuovo Testamento: tale critica muove dalla constatazione della distanza, e dunque dalla scissione, tra Io e Dio e tra Dio e Mondo, e, articola Hegel, dal dominio su di essi come dominio assoluto, che si caratterizza come unico rapporto possibile, oltre quello della creazione: la scissione ha generato la rappresentazione come forma di religione inferiore a quella della “comprensione del puro pensiero e del concetto”. E’ 'solo  con  l'apparizione  del concetto  cristiano  di Dio come Spirito nel Cristianesimo, come afferma anche Giuseppe Cantillo, che  si  ha  la realizzazione  della religione in religione  assoluta  e della  soggettività  assoluta  come  Assoluto  in  senso positivo. La vicinanza con la concezione  carabellesiana dell'Assoluto  è evidente: il Dio cristiano che  toglie, in  senso hegeliano, le forme precedenti di religione  è "soggettività  infinita,  assoluta, spirito.  [...]  lo  spirito viene  saputo  come  soggettività  assoluta,  ma  poiché questo sapere è un sapere di se stesso, anche  l'aspetto di questo sapere nella sua forma più elevata va concepi­to  come soggettività infinita. O viceversa: lo  spirito può essere realmente concepito come soggettività assolu­ta  solo quando il soggetto che deve comprendere  questo concetto sa di sé come un soggetto infinito."[279]

E' questo il punto centrale del rapporto tra io e Dio: nel pensie­ro di sé e del soggetto dell'Assoluto e nel pensiero  di sé e dell'Assoluto del soggetto, soggettività assoluta e soggettività infinita si incontrano: la scissione tra io e  Dio  è tolta. Il toglimento  della  scissione,  sulla quale  Carabellese  ritorna  come  motivo  polemico  nei confronti  del cattolicesimo senza una  distinzione  tra Antico e Nuovo Testamento, è da lui espresso nel periodo critico  nella concezione del rapporto tra  Principio  e Termini, mentre nel periodo metafisico è solo  ipotizza­bile, a partire dall'Io, un superamento della  scissione nella  distinzione  tra Io e Dio. E' anche  per  questo, oltre che per i motivi che abbiamo più volte sottolinea­to,  che tale ipotesi a noi sembra più  che  plausibile: una  congettura. E’ chiaro che, come abbiamo mostrato anche a partire dall’opera sull’Io, tale superamento avviene sia sul piano dei soggetti infiniti ma plurimi, sia sul piano dell’Io puro: in ciascuno dei due piani il significato è profondamente diverso, seppure sempre di carattere metafisico, dal momento che nel primo questo superamento avviene per il tramite del pensiero inteso come ragione che, negli io plurimi, si configura come intellectus fidei, o anche come intuizione trascendentale, mentre nel secondo si tratta di una distinzione interna al Pensiero stesso in sé: forse per questo motivo Carabellese non ha tenuto subito il corso su Dio, facendolo precedere da quello sull’Io e facendo seguire a questo quello su L’attività spirituale umana. Prime linee di una Logica dell’Essere.[280]

Tornando al  toglimento  della scissione tra io e Dio sul piano della soggettività,  in esso il soggetto è soggettività infinita che Carabellese traduce anche nei termini del pensante-che-vive, l'Asso­luto  è soggettività assoluta che, nella sua  immanenza, Carabellese chiama Oggetto puro di coscienza, nella  sua trascendenza e creatività, Principio, nella sua immanen­za-trascendenza  che è creazione continua come durata  o temporalità ontologica, Coscienza. L'Essere è per  Cara­bellese,  almeno  nel  periodo  critico,  Essere-Sapere: vogliamo  ripetere  le  ultime parole  di  Jaeschke  per comprendere più a fondo questo concetto  carabellesiano, e vederne la connessione con Hegel e con l'argomentazio­ne che stiamo svolgendo: "[...] lo spirito viene  saputo come soggettività assoluta, ma poiché questo sapere è un sapere  di se stesso, anche l'aspetto di  questo  sapere nella sua forma più elevata va concepito come  soggetti­vità infinita. O viceversa: lo spirito può essere  real­mente  concepito come soggettività assoluta solo  quando il  soggetto che deve comprendere questo concetto sa  di sé come di un soggetto infinito."[281] Il tramite tra  Asso­luto e soggetto, tra soggettività infinita e soggettivi­tà  assoluta,  tra io e Dio, è dunque il  pensiero  come spirito,  che si sa infinito nel  soggetto  comprendente l'Assoluto, assoluto nell'Essere-Sapere che sa se stesso come Spirito. Da questo punto di vista, argomentato in tutto il complesso di questo paragrafo, è necessario ribaltare un giudizio espresso da Semerari che vuole  il pensiero carabellesiano anticipatore del "complesso e vario  lavoro di  smantellamento di tutta la tradizione  metafisica  e gnoseologica  occidentale" che ha il suo  rappresentante di maggior rilievo in Heidegger, perché anzi si potrebbe dire che, proprio guardando il  pensiero  carabellesiano nel suo complesso, dunque considerando almeno nelle sue linee generali, oltre al periodo critico, anche il periodo metafisico, si assiste invece a una  riafferma­zione, questa sì da considerare attuale e perciò all’epoca anticipatrice,  della metafisica: non senz'altro quella tradizionale che conside­ra l'essere soltanto come sostanza statica, ma proprio invece  la metafisica classica platonica e  neoplatonica dell'Idea che come in sé è  Principio inesauribile  della realtà, ma anche la metafisica teologica cristiana in cui il Principio è creatore attivo di questa stessa  realtà,  Spirito che tutto permea: la trasposizione sul piano filosofico  di  questa metafisica nella metafisica classica tedesca  dell'inne­sto  dell'essere  col divenire e del  superamento  della distinzione  tra relativo e assoluto e tra soggettivo  e oggettivo,  per cui l'in sé è assoluta coscienza  che  si attua  nel  movimento del per  sé,  Carabellese  direbbe nella sua manifestazione - che non è però per lui  alie­nazione -, e che trova in Hegel la sua maggiore e più alta espressione. In questo inserirsi carabellesiano  all'in­terno di un orizzonte metafisico che attraversa tutta la storia  della  filosofia  noi troviamo i  motivi  di  un ribaltamento del giudizio espresso da Giuseppe Semerari, ma nel contempo tale giudizio  coglie realmente la portata  anticipatrice  proprio  nel  rapportare  che   Carabellese stesso fa, nella nota 1 della Prefazione alla seconda edizione della Critica del concreto, la sua La filosofia di Kant del '27 al Kant e il problema della metafisica[282] di Heidegger del '29: la portata anticipatrice di Carabellese è pertanto non condivisibile fino in fondo, dal momento che a nostro parere Carabellese innova ma pure conserva la metafisica classica: il suo essere avanti nei tempi è perciò non tanto nello "smantellamento della tradizione  metafisica occidentale",  quanto  nell'innesto in essa  dell'in  sé  kantiano  considerato dal punto di vista  metafisico, e dunque nella possibilità di un avvicinamento sul piano metafisico  di Kant a Hegel

 

18. Il ruolo dell’intellectus fidei nella metafisica critica della Ragione assoluta

  

Questa del rinnovamento carabellesiano della metafisica classica nell’innesto di Kant con l’avvicinamento a Heidegger è un'ipotesi offerta dall'Heidegger del Kant e il problema della metafisica nel quale lo stesso Seme­rari rinviene l'innovazione di Carabellese. L’importanza dell’intuizione trascendentale, che noi abbiamo chiamato intellectus fidei, è supportata dal  rapporto istituito  tra l'Heidegger del Kant e il problema della  metafisica e l'Hegel di Glauben und Wissen da Fabio Ciaramelli, che in  un  problematico e interessante saggio[283] afferma:  "Le pagine di Hegel in Fede e Sapere e quelle di Heidegger in Kant  e il problema della metafisica  convergono, com’è noto, nell’attribuire un ruolo primordiale e decisivo alla capacità d’immaginazione trascendentale, considerata da entrambi non già come il termine medio che congiunge e unifica per dir così estrinsecamente sensibilità e intelletto, bensì come facoltà originaria, espressione d’una unità preliminare [...]. […] per Hegel l’originarietà dell’Einbildungskraft  in quanto idea veramente speculativa attesta la capacità della ragione umana d’accedere conoscitivamente all’infinito e all’assoluto […]. Ciò che avvicina Heidegger a Hegel è proprio ciò che, nonostante tutto, lo allontana da Kant: è, cioè, la pretesa speculativa della conclusiva accessibilità immediata dell’origine. L’identità originaria, benché inizialmente perduta e nascosta, dev’essere tuttavia presupposta all’esperienza della scissione e della dispersione: e proprio per questo motivo, essa sola costituisce la posta in gioco del movimento del pensiero filosofico. In tal modo, l’unità originaria resta promessa alla ricerca e perciò preconizza il soddisfacimento del desiderio filosofico mirante al raggiungimento d’una trasparenza teoretica, attingibile esclusivamente nella forma di un sapere dialettico-speculativo, implicante alla fine del suo itinerario l’accesso trasparente all’autodonazione dell’originario. E’ proprio questa natura speculativa del sapere dell’origine, il suo poter ritrovare la visione dell’identità originaria come sorgente nascosta d’ogni sapere derivato, che gli conferisce una natura intuitiva. […] Questa sintonia, questa ripresa dell’eredità hegeliana nell’interpretazione di Kant, è riscontrabile esplicitamente in Kant e il problema della metafisica, in modo particolare nel già accennato riconoscimento della capacità d’immaginazione trascendentale kantiana come facoltà primordiale, in cui, com’è noto, Heidegger individua la radice comune ma nascosta d'intuizione e concetto, insistendo sulla sua originarietà  ai fini dell’instaurazione del fondamento della metafisica. […] Hegel e Heidegger utilizzano, dunque, in direzioni almeno apparentemente contrapposte, la scoperta kantiana della centralità originaria della capacità d’immaginazione trascendentale. Se tale centralità per Heidegger significa la fondazione temporale della trascendenza finita del Dasein, per Hegel essa preconizza l’attingimento speculativo dell’assoluto. Nei due casi, tuttavia, ne va della conclusiva accessibilità immediata dell’originario. […] Questa verace apriorità, cioè l’originaria capacità sintetica dell’immaginazione, non va più contrapposta all’aposteriorità, ma dev’essere in grado di mediarla assolutamente, e può farlo se e solo se essa precede originariamente ogni scissione. " [284]

Abbiamo voluto citare questi lunghi brani di Fabio Ciaramelli non soltanto perché, come abbiamo premesso, essi ci consentono di approfondi­re quel rapporto tra Heidegger e Carabellese rispetto al Kant metafisico che Carabellese stesso, e poi  Semerari[285], aveva evidenziato, nel contempo avvalorando la tesi  che stiamo portando avanti di un innesto carabellesiano  del criticismo kantiano sull'idealismo oggettivo che vedreb­be,  pur  tenendo conto delle  stesse  dichiarazioni  di Carabellese,  Carabellese e Hegel almeno  appartenere  - nella  fase  critica  carabellesiana -  a  un  orizzonte comune, se non anche - nella fase metafisica -  Carabel­lese  progettare  un disegno del proprio sistema metafisico seppur  diverso  in  alcuni punti  essenziali - come l'alienazione e  la  dialettica degli opposti - affine al sistema hegeliano in altrettanti punti essenziali. Ma non è solo questo: l'intuizione intellettuale su  cui si concentra Ciaramelli è precisamente, a nostro  pare­re,  quell'intellectus  fidei come strumento essen­ziale e tassello mancante per comprendere quella sintesi a  priori  metafisica di cui Carabellese, a  partire  da Kant, si propone di andare alla ricerca, e che costituisce una delle molteplici  direzioni rinvenibili nel suo pensiero.

L’intuizione trascendentale di cui quindi qui si parla è vista nel suo sviluppo moderno da Kant a Hegel attraverso Heidegger, mentre ci riserviamo di dare, esulando dalle nostre competenze, se non altro cenno della sua presenza in ambito medievistico in rapporto alla simbolizzazione analogica di Kant sempre in merito ai giudizi a priori metafisici, che costituisce uno dei due centri intorno a cui  ruota non soltanto il rapporto tra Carabellese e Kant qui in  esame, ma anche il passaggio e si potrebbe dire l’identificazione carabellesiana tra gnoseologia e ontologia in direzione metafisica.

 

 19. Alla ricerca dei giudizi sintetici a priori metafisici in Kant: 

la sintesi a priori  metafisica nell’interpretazione di Carabellese: 

il ruolo dell’analogia e il progresso della metafisica in Kant nel kantiano 

I progressi della metafisica

 

Ne Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni. I Kant[286], del 1928, Carabellese ritiene che la cosa in sé che Kant dimostra irrefutabilmente nella prima Critica, è l’ostacolo che Kant si trova di fronte per la costruzione di una nuova metafisica, dal momento che ne dà una definizione negativa, sebbene per Kant il solo fatto di affermarne positivamente la realtà è già un darne una definizione positiva, per quanto con un contenuto indeterminato. La difficoltà centrale per fondare i  giudizi sintetici a priori metafisici e dunque una nuova metafi­sica consiste nel contrasto tra la pura pensabi­lità del noumeno e la sinteticità, che comporta il rapporto col senso. Sulla  questione, com’è noto,  Kant torna nello scritto Quali  sono  i reali  progressi che la metafisica ha fatto in  Germania dopo  i tempi di Leibnitz e Wolff[287], del 1793-95 (e  pub­blicato  postumo nel 1804),  scritto incompiuto per  il medesimo tema messo a concorso dalla  Reale  Accademia delle Scienze di Prussia di Berlino[288], oltre che  nell'In­troduzione  alla terza Critica. Carabellese afferma  che lì  Kant  sembrerebbe  rispondere  alla questione posta nei Prolegomeni ad ogni futura metafisi­ca sulla  possibilità dei giudizi sintetici  a  priori metafisici  con  l'introduzione  della   simbolizzazione analogica come mezzo per una conoscenza del  soprasensi­bile, che trasformerebbe la sintesi a priori naturalistica in sintesi a priori metafisica[289]. Ma, continua Carabellese, questo passo  avanti non è realmente compiuto perché manca all'analogia  quel "più"  esistenziale necessario a che una conoscenza  sia sintetica, più esistenziale che già a partire dall'Unico argomento per una dimostrazione razionale dell'esistenza di  Dio Kant  chiariva essere  una  posizione  assoluta inderivabile dal concetto, e non una determinazione  tra altre.  Il soprasensibile allora  si conferma  negativa­mente conoscibile non in sé ma per noi, cioè  per esseri  conformi al fine che è il Sommo Bene. Ma nonostante questo limite negativo e invalicabile della conoscenza, che è sempre una conoscenza per noi, e mai una conoscenza dell’in sé, in questo modo  ciò  che  Kant veramente  dimostra  è l'appartenenza  dell'in  sé  alla ragione[290].

Confrontiamoci  allora  direttamente con  ciò  che  Kant afferma  ne  I progressi della  metafisica  a  proposito della  metafisica: la definizione kantiana è  quella  di "una scienza scolastica e un sistema di sicure conoscen­ze  teoretiche a priori di cui si fa un uso  immediato", come  "sistema  della filosofia teoretica  pura"  inteso quale  "sistema  di tutti i  principi  della  conoscenza razionale teoretica pura mediante concetti". Il progresso della metafisica è  legato propedeuticamente  a  quello  dell'ontologia  in  quanto fondazione della metafisica stessa e come esatta defini­zione dei limiti della conoscenza intellettuale e quindi dell'esperienza  verificabile  e  dei  principi  che  la guidano,  ed è legato anche alla chiara definizione  dei confini che separano i due territori del sensibile e del soprasensibile, dal momento che l’ordine dei principi che guidano l’intelletto nella conoscenza del sensibile non è lo stesso di quelli che guidano la ragione  nella conoscenza del soprasensibile, dato che l’ordine dei principi nella sfera dell’intelletto è Dio, libertà, immortalità[291]. Infatti, "[...] questi momenti della  cono­scenza pratico-dogmatica del soprasensibile  [dell'onto­logia] [...] hanno inizio dall'illimitato possessore del sommo bene originario, procedono (attraverso la libertà) verso ciò che è derivato dal mondo dei sensi, e termina­no  con le conseguenze di questo scopo finale  oggettivo degli  uomini  in un mondo  futuro  intellegibile.  Essi stanno  in tale ordine collegati sistematicamente:  Dio, libertà e immortalità."[292]

Ma  Kant  si spinge non oltre il punto  di  dare  sì realtà  oggettiva agli oggetti soprasensibili  (che  per lui si limitano a Dio, libertà e immortalità), riba­dendo  però che a tale realtà oggettiva noi diamo  il  nostro libero assenso perché mossi non da un intento  teoretico ma da un intento pratico, ossia dallo scopo finale che è il  Sommo Bene. Infatti afferma che noi dobbiamo  "[...] agire  come se noi sapessimo che questi oggetti  fossero reali: tale tipo di rappresentazione [è] [...]  necessa­rio  [...] solo sotto l'aspetto morale, al fine di  pro­muovere ciò a cui noi siamo già collegati, cioè l'avanza­mento  del  sommo bene nel mondo [...] noi  ci  formiamo questi oggetti, Dio, la libertà nella qualità pratica, e l'immortalità, in base all'esigenza delle leggi  morali, fornendo  ad essi liberamente realtà  oggettiva,  perché siamo  convinti che in queste idee non si possa  trovare contraddizione alcuna [...]."[293] In questo passo è chiaro che  il primum oggettivo, che Kant ammette  senza  dimo­strazione  come apriori invalicabile, è il  Sommo  Bene, mentre  il  primum soggettivo, ad esso collegato  e  an­ch'esso indimostrato, è la moralità, ossia la conformità allo scopo finale che è il Sommo bene stesso. All'interno  di questo quadro di reciproco  rimando  tra Sommo  Bene  oggettivo e  conformità  soggettiva  allo scopo  finale,  o telos, del Sommo  Bene  stesso,  ossia moralità,  Dio libertà e immortalità da un lato  possono essere gli unici oggetti soprasensibili - ci troviamo in un  ambito pratico-dogmatico e non  teoretico-dogmatico, come  Kant  ha più volte sottolineato, la cosa in  sé è scomparsa, non si danno altri oggetti soprasensibili per Kant, il legame tra gnoseologia e ontologia nella  meta­fisica è negato, e quest'ultima diviene in fondo, se non anch'essa  negata come scienza del  soprasensibile,  nel caso  migliore  soltanto una  disciplina  sottoposta  ai vincoli  della  ragion pura pratica -.

Dall'altro  lato Dio,  libertà  e immortalità  abbisognano,  come  realtà oggettive  della ragion pura pratica stessa, del  libero assenso  della fede, ossia di quanto di  più  soggettivo possa esserci, e la cui libertà, che è apparentemente un atto  di volontà del singolo, è soggetta in realtà a  un dono  almeno nella sua scintilla iniziale. La  questione del  credere  o non credere, in altre parole,  è  troppo complessa perché possa essere discussa e possa ridursi a un  atto di libertà come assenso o dissenso  finalizzato nel primo caso allo scopo finale del Sommo Bene,  perché in  questa  visione  rischia, per chi  assente  su  tali oggetti soprasensibili, di ridurli non a sostanze o cose in sé, ma a funzioni in vista di un primum a loro ester­no  e  anch'esso assunto per fede, e, di  fronte  a  chi dissente  rispetto  ad  essi, di  lasciare  indecisa  la questione  della loro realtà oggettiva in sé e  non  per noi, ossia di lasciare aperta la strada al dubbio se non allo  scetticismo. In tal caso la via della  costruzione della  metafisica come scienza è negata, ed essa  rimane appunto soltanto la dottrina della saggezza di cui parla Kant, come patrimonio che la tradizione ci tramanda  non in forma di scienza progressiva ma in forma di  credenza culturale, cui noi non possiamo aggiungere nulla. Tenendo  conto  del  solco della  tradizione,  ma  anche, quando è  necessario, volgendosi oltre di essa, deve  essere possibile  costruire ancora,  anche  per dare  un  senso all'azione di ciascun  nuovo  individuo. Infatti l'ottica cambia se l'affermazione di una  neces­saria  appartenenza dei tre oggetti soprasensibili  alla ragion  pura pratica viene intesa non nel senso da  Kant attribuitovi  di oggetti finalizzati allo  scopo  finale del  Sommo  Bene  cui la ragion pura  pratica  stessa  è necessariamente conformata, e  che essa perciò  costrui­sce - ossia interni alla moralità come primum soggettivo dell'uomo, il primum oggettivo essendo, lo si ripete, il Sommo Bene -, ma, con Carabellese, abbattendo la separa­zione  tra  ragion pura e ragion pratica, e  dunque  tra conoscenza  e  volontà (per Kant  volontà  morale),  pur conservandone la distinzione a fini teorici.  Carabelle­se, lo si è già detto, contesta, in originale consonanza con  coeve teorizzazioni europee, la  separazione  della teoria come conoscere dalla pratica come volere, mirando a  una visione unitaria dell'uomo che sente vuole  cono­sce, per cui la teoria è l'universale idea che vive solo nella  pratica  degli atti concreti, che sono  al  tempo stesso conoscitivi volitivi e coinvolgenti la sfera  del sentimento e della sensibilità.

In  questa visione siamo liberi di uscire dalla  visione kantiana  di  una moralità omnipervasiva a  cui,  poiché necessariamente conforme al Sommo Bene, tutte le  azioni dell'uomo sono finalizzate, da un lato per articolare in modo  più  complesso  il concetto  stesso  di  uomo,  ma dall'altro e soprattutto per lasciare aperta la  strada, altrimenti  chiusa,  ad  una  conoscenza  teoretica  del soprasensibile  che  pur  coinvolgendo  appunto   l'uomo intero - e dunque anche l'uomo morale - non per questo è riducibile  a quello, così come non ai soli tre  oggetti soprasensibili è riducibile la metafisica. Si vuol  dire che l'aver Kant posto come primum nell'uomo la  moralità avente  come scopo finale il Sommo Bene gli ha  impedito di  aprire  la strada ad una  conoscenza  teoretica  del soprasensibile  - un soprasensibile, lo  ripetiamo,  non limitato alle tre idee ma esteso alla cosa in sé - ossia gli  ha  impedito di aprirsi alla vera  metafisica  come scienza  teoretica  che  si  estende  oltre  i   confini dell'ontologia come scienza a priori dei concetti  delle cose in generale, limite che egli impone alla metafisica come  scienza  teoretica, e oltre la Critica ,  che  così diviene, secondo la definizione carabellesiana,   criti­cismo  metafisico. Ma questa vera metafisica, che non è dottrina della saggezza ma vera e propria scienza teore­tica del soprasensibile, secondo la visione dell'innesto dell'innovazione nella tradizione non rinnega il cammino che Kant ha percorso, ma anzi ne tiene conto, nella  sua necessaria impostazione del problema critico, per proce­dere, a partire da essa, oltre i limiti e le  difficoltà che essa pure presenta, nella direzione della fondazione dei giudizi a priori metafisici. In  questa impostazione il ruolo della fede  cambia.  Da punto di arrivo della conoscenza teoretica del soprasen­sibile  e punto di partenza della sola azione morale  in vista  dello scopo finale del Sommo Bene, diviene  punto di partenza della stessa conoscenza teoretica, che  così può procedere oltre i limiti impostile da Kant.

Nel  Kant  dei Progressi della metafisica,  la  fede[294] è diversa  sia dalla persuasione come assenso che il  sog­getto non sa se basare su principi soggettivi od  ogget­tivi,  sia dalla convinzione che, sebbene  sentita  come oggettiva, non è chiaramente esprimibile, come d'altron­de  la persuasione, in una rappresentazione chiara  com­prensibile e comunicabile: fede per Kant è "[...] un'am­missione, un presupposto (ipotesi) [...] necessario solo in quanto si basa necessariamente su una regola oggetti­vo-pratica  del  comportamento, nella  quale  certo  non intendiamo teoreticamente la possibilità dell'adempimen­to e dell'oggetto in sé che ne risulta, mentre vi  rico­nosciamo soggettivamente l'unico tipo di accordo con  lo scopo  finale. Una tale fede è il ritenere per vera  una proposizione teoretica, ad esempio vi è un Dio, mediante la ragione pratica considerata come ragione pura pratica in  questo caso in cui cioè lo scopo  finale,  l'accordo dei  nostri  sforzi verso il sommo bene, sta  sotto  una regola in ogni modo necessariamente pratica, cioè  mora­le, ma il cui effetto non possiamo pensare come possibi­le  se  non sotto il presupposto  dell'esistenza  di  un sommo  bene  originario, che allora siamo  costretti  ad ammettere  a  priori dal punto di vista  pratico.  [...] questo  credo, dico io, è un assenso libero,  altrimenti non  avrebbe  neppure alcun valore morale.  Non  ammette dunque  nessun imperativo (nessun crede) e il  principio di dimostrazione di questa sua esattezza non è la  prova della verità di queste proposizioni [Kant le cita prece­dentemente: credo in un unico Dio, credo di accordare lo scopo  finale con il Sommo Bene nel mondo,  credo  nella futura  vita  eterna come condizione  di  un  incessante approssimarsi del mondo verso il Sommo Bene] considerate teoreticamente, cioè esso non è un insegnamento oggetti­vo della realtà degli oggetti stessi, essendo ciò impos­sibile riguardo al soprasensibile, ma soltanto un  inse­gnamento soggettivo, quindi praticamente valido, e [...] sufficiente  per agire come se noi sapessimo che  questi oggetti fossero reali [...]."[295] Questa lunga citazione ci è  sembrata  necessaria per mostrare come in  realtà  in essa Kant sbarri la strada ad una metafisica come scien­za del soprasensibile e per mostrare come in lui la fede divenga certezza soggettiva di carattere morale. Che infatti Kant sbarri la strada a qualunque conoscenza del  soprasensibile è detto chiaramente  quando,  subito dopo,  egli  afferma  che  dimostrazioni  teoretiche  di queste dottrine di fede sono impossibili anche solo come probabilità,  dato che il "[...] probabile è ciò che  ha per  sé un fondamento di assenso che sia maggiore  della metà del principio di ragion sufficiente; esso è  dunque una determinazione matematica della modalità dell'assenso in cui i suoi momenti devono essere presi come omoge­nei [...]."[296]  Cosicché "[...] il soprasensibile si  trova diviso  dal  conoscibile sensibile  proprio  secondo  la specie stessa (toto genere), perché si trova al di sopra di  ogni  nostra conoscenza possibile [...]"[297],  per  cui "[...]  anche  con i massimi sforzi  della  ragione  non giungiamo affatto più vicino alla convinzione  dell'esi­stenza  di  Dio, all'esistenza del sommo  bene,  e  alla prospettiva  di  una vita futura, perché  degli  oggetti soprasensibili  non esiste in noi in  natura  conoscenza alcuna.   Ma  sotto l'aspetto pratico  ci  formiamo  noi stessi questi oggetti [...]."[298] La strada ad una conoscenza teoretica del  soprasensibi­le, che significa un'estensione della conoscenza oltre i limiti  imposti dall'intuizione empirica, sembra  chiusa da queste perentorie affermazioni, che inoltre d'un  sol colpo  spazzano  via  tutto il lavoro  di  secoli  della Scolastica medievale, richiudendo in un ambito soggetti­vo  e  interiore, quello della coscienza,  qualcosa  che appunto la Scolastica voleva tradurre in termini univer­salmente  oggettivi, ossia non semplicemente  affermando "vi  è  un Dio"  e chiedendo l'assenso  interiore  della fede, ma dimostrando, o almeno tentando di dimostrare,  che Dio è. E nello stesso tempo questa chiusura della  cono­scenza  entro i limiti del fenomenico se non per  quanto riguarda la ragion pura pratica si connota  storicamente perché  non tiene conto nemmeno come  ipotesi  possibile nel futuro da un lato di un allargamento del campo della coscienza  ad  altre forme e livelli di  esperienza  che implichino  altre forme di intuizione non  chiuse  nella dicotomia tra intuizione sensibile - propria dell'uomo - e  intuizione  intellettuale - propria di Dio  -  ma  si pongano  tra questi due estremi come livelli  intermedi, quelli  di  un'intuizione pura che non  si  limiti  allo spazio e al tempo. In questo senso è necessario  rifarsi all'amor Dei intellectualis di Spinoza, ma  intendendolo come livello della conoscenza intuitiva capace di esten­dere  la  conoscenza  teoretica  al  soprasensibile  non limitato  al  solo "oggetto" Dio.   Dall'altro  lato  la chiusura  kantiana della conoscenza soprasensibile  alla ragion pura pratica non tiene conto dell'avvenuta esten­sione,  dopo  Kant,  della conoscenza pura  che  va  nel senso  della dimostrazione delle realtà  soprasensibili, e,  a partire da qui, della loro  applicazione  pratica: del cammino della scienza fondato, nell'ambito  scienti­fico-naturale,  sulle due scienze a priori kantiane,  la matematica  pura e la fisica pura. In questo  senso  ciò che  era  soprasensibile all'epoca di Kant,  almeno  nel campo  della  conoscenza basata sulle scienze  a  priori fisico-matematiche, non lo è più oggi, così come ciò che è soprasensibile oggi potrà non esserlo domani. Ma  forse  un'apertura a tale conoscenza  teoretica  del soprasensibile nel campo della metafisica è  concepibile considerando  diversamente la fede non  come  necessario presupposto per fondare l'azione morale - da qui derive­rebbe  inoltre  che c'è azione morale solo  laddove  c'è fede,  escludendo la possibilità di una  moralità  laica che  si  rifaccia a valori,  seppure  non  trascendenti, altrettanto  assoluti  -, quindi praticamente,  ma  come necessario  presupposto per fondare  l'azione  teoretica nella  conoscenza del soprasensibile, quindi  teoretica­mente come intellectus fidei. Infatti è vero che la fede ha  un risvolto pratico nel comportamento,  ossia  nella serie  discendente  che la pone come  fede  tout  court, nell'accezione  comune e generale, ma è anche  vero  che essa apre ad esperienze teoretiche di livello non  empi­rico  in cui essa è posta come base di una serie  ascen­dente  verso  queste esperienze stesse.  Questo  diverso modo  di  intendere  la fede, come,  se  vogliamo  usare un'espressione  riduttiva, strumento conoscitivo, non  è contemplato dal Kant dei Progressi della metafisica,  il cui  sforzo è anzi non nel dimostrare teoreticamente  la cosa  in  sé, ma nel fondare a priori  la  vita  morale, fondazione  in  cui  la fede  è  necessario  presupposto dell'azione  morale a sua volta presupponente  un  sommo bene, che viene dunque fondato non in sé teoreticamente, ma su quello praticamente. Infatti Kant afferma:  "Ormai si  può  segnare il terzo stadio  della  metafisica  nei progressi  della ragion pura verso il suo scopo  finale. Esso  costituisce un circolo la cui circonferenza  torna in se stessa, includendo così un totale della conoscenza del soprasensibile, oltre il quale non vi è niente altro di  questo genere, che comunque racchiude tutto ciò  che può  bastare all'esigenza di questa ragione. Infatti  la ragione,  dopo  che si è staccata  da  tutto  l'empirico [...] nei due precedenti stadi, nonché dalle  condizioni della  intuizione sensibile [...] postasi dal  punto  di vista  delle idee da cui essa considera i  suoi  oggetti per  ciò  che essi sono in se stessi,  descrive  il  suo orizzonte, il quale iniziando in senso  teoretico-dogma­tico  dalla libertà quale facoltà soprasensibile,  [...] vi  ritorna  sotto  l'aspetto  pratico-dogmatico,   cioè diretto  allo scopo finale, che è il sommo bene da  pro­muovere  nel  mondo, di cui  completa  tale  possibilità attraverso  le idee di Dio, dell'immortalità, e la  cer­tezza di riuscire in questo scopo, dettata dalla  stessa moralità; e in tal modo a questo concetto viene procura­ta  una realtà oggettiva, ma pratica. [...] ora  da  ciò risulta anche la singolare conseguenza che il  progresso della  metafisica nel suo terzo stadio, nel campo  della teologia, è il più facile di tutti, proprio perché  mira allo scopo finale [e i] filosofi [...] sono costretti ad orientarsi   per  mezzo  di  essa  per   non   smarrirsi nell'esaltazione.  La  filosofia  come  dottrina   della sapienza ha questo vantaggio sulla filosofia come scien­za  speculativa, di essere derivata da  nient'altro  che dalla  facoltà  della ragione pura pratica,  cioè  dalla morale [...]."[299]

Ora, se è vero che l'ipotizzare una conoscenza nel campo del  soprasensibile  corre  il  rischio  di   "smarrirsi nell'esaltazione", è pur vero che negarla a priori sulla base  del  solo passato ha il sapore di negare,  con  la ragione,  le  metafisiche  che pure dopo  Kant  si  sono storicamente date, e di ridurre, come Kant sembra  voler fare  nell'ultima frase, la filosofia a  dottrina  della conoscenza, negandole il valore, che essa ha e deve avere, di scienza speculativa. Inoltre  Kant è consapevole che nel momento in cui  pone il sommo bene possibile nel mondo come primum e  apriori della  moralità, l'esistenza di Dio è dimostrata non  in sé  ma come idea necessaria in relazione al fine  stesso della  moralità, ossia il Sommo Bene. In questo senso  è fondata una teologia che non è teosofia, ossia conoscen­za  della natura divina, e dunque "l'argomento morale  è un   argumentum  kat'avtpottov  distinto  dall'argomento teoretico-dogmatico  kat'alnteiav":  è   un'impostazione umanistica e non ontologica del problema di Dio, e,  con esso, degli enti soprasensibili[300]. Ma mentre sin qui ha negato la possibilità di una  meta­fisica come scienza del soprasensibile, Kant allo stesso modo  la ripropone come "[...] idea di una  scienza  che può  e  deve essere costruito dopo il  compimento  della critica della ragion pura [...]: si tratta di un  totale che, come la logica pura, non abbia bisogno né  permetta alcun accrescimento [...]. Questo edificio non è affatto ampio,  ma  [...] avrebbe  bisogno  dell'unificazione  e degli sforzi e del giudizio di molti artisti per portar­lo a una condizione eterna e immutabile [...]."[301], "[...] in modo tale che, in primo luogo, ogni principio vi  sia dimostrabile  in  se stesso, e, in  secondo  luogo,  che [...] esso riduca inevitabilmente tutti gli altri  prin­cipi,  anche in qualità di mere ipotesi,  a  conseguenze [...]  due  [sono] gli assi attorno a  cui  essa  ruota: primo,  la  dottrina della idealità dello spazio  e  del tempo  [...] secondo, la dottrina della realtà del  con­cetto di libertà [...]. Ma questi due assi sono  confic­cati, per così dire, nello stipite del concetto raziona­le dell'incondizionato nella totalità di tutte le condi­zioni  reciprocamente  subordinate, in cui  deve  essere eliminata  l'illusione  che produce  un'antinomia  della ragion pura mediante lo scambio di fenomeni con le  cose in  sé,  e che contiene in questa stessa  dialettica  un metodo    per    il   passaggio   dal    sensibile    al soprasensibile."[302] Una  scienza del  soprasensibile  che dunque  sia un totale chiuso, un sistema, immutabile  ed eterno,  essenziale e dimostrabile, frutto dello  sforzo di più pensatori, basato sull'idealità di spazio e tempo e  sulla realtà della libertà, ma ancor più fondato  dal concetto  dell'incondizionato come termine ultimo  nella serie  delle  condizioni considerata come  totalità,  da costruire secondo il metodo dialettico: la strada per la metafisica come scienza è aperta.

Nel  primo  dei Supplementi, nella  Sezione  prima:  Del problema  generale della ragione che si sottopone da  sé ad una critica, Kant riprende il problema della  metafi­sica il cui strumento, la ragione, si serve dei  giudizi analitici a priori come mezzi per determinare i  giudizi sintetici a priori, gli unici atti veramente all'amplia­mento  della conoscenza cui la metafisica mira come  suo fine. E questa possibilità dell'ampliamento della  cono­scenza tramite la ragion pura, ossia i giudizi sintetici a  priori  metafisici, è dimostrata dalla  realtà  della matematica,  che  appunto con la ragion pura  e  tramite quei giudizi estende la conoscenza[303].

Nel Secondo Supple­mento, Secondo stadio della metafisica. Il suo arrestar­si nello scetticismo della ragion pura, Kant fa  l'esem­pio  dei  due giudizi sintetici a  priori,  che  possono essere entrambi veri come in logica due giudizi  subcon­trarie, che "nel mondo tutto avviene per cause naturali" e "nel mondo non tutto avviene per cause naturali".  Nel primo giudizio il mondo è considerato come fenomeno, nel secondo come noumeno, poiché nel primo il mondo è consi­derato  come  una totalità di condizioni  sensibili  (di causa-effetto), nel secondo è ammessa una causa  esterna a tali condizioni, una causa non sensibile ma intellegi­bile, libera dal rapporto di causa-effetto meccanicisti­co  ma  che pure non lo contraddice ma  si  affianca  ad esso.  In  questo modo "non vi è  arresto  scettico,  ma possibilità di estendere la conoscenza razionale oltre i limiti dell'esperienza possibile e del sensibile", ossia possibilità della metafisica "sia oltre l'empirismo  sia oltre gli abbagli della filodossia": ciò, afferma  Kant, è stato possibile dopo la critica della ragion pura[304].

Ma,  a  ribadire che la possibilità della  metafisica è data  solo in campo pratico, nel Terzo  Supplemento,  le Note  a  margine, Kant fa riferimento  allo  schematismo come  principio  della conoscenza  sintetica  a  priori, schematismo che è reale (trascendentale) o per  analogia (simbolico):  "A principio della conoscenza sintetica  a priori  sta  il fatto che la composizione  è  l'unico  a priori  che, producendosi secondo lo spazio e il  tempo in generale, deve essere fatto da noi. Ma la  conoscenza in  vista dell'esperienza contiene lo schematismo: o  lo schematismo reale (trascendentale), oppure lo  schemati­smo  per  analogia (simbolico). -  La  realtà  oggettiva della categoria è teoretica, quella dell'idea è soltanto pratica. - Natura e libertà."[305]

Dunque mentre da un  lato sembra  aprire alla possibilità della metafisica  attra­verso  lo schematismo basato su quella  che  Carabellese chiama  la  simbolizzazione analogica,  dall'altro  Kant ribadisce  che  la funzione di quest'ultima  è  soltanto pratica, come la realtà oggettiva dell'idea. Infine, nei Fogli sparsi riguardanti i Progressi della metafisica  e intitolati   Tema  del  concorso,  ritorna   l'argomento dell'analogia come mezzo per comprendere le cause intel­legibili  a  noi  sconosciute  di  fenomeni  conosciuti. Afferma  infatti  Kant:  "Della buona  o  della  cattiva volontà in quanto appartengono al mondo delle massime si può  solo  dire secundum analogiam che è Dio  a  donarla [...].  Noi conosciamo soltanto le azioni e  i  fenomeni della  loro  ammissione  nelle nostre  massime,  ma  non possiamo indagare il carattere intellegibile su cui esse si fondano."[306]

Ma  forse  un'apertura al soprasensibile è  nascosta  in queste parole contenute, sempre nei Fogli sparsi,  nella parte riguardante Sull'incapacità degli uomini a comuni­care pienamente tra loro, dove però si ribadisce  ancora una volta il rapporto al soggetto e alla volontà, dunque una   conoscenza  pratico-dogmatica  e  non   teoretico-dogmatica:  "Che non vi sia alcuna probabilità  riguardo al  soprasensibile, ma un passaggio da  un  genere  del tutto differente di assenso mediante la ragione; ed esso è  di certo valido generalmente, però è pensato in  rap­porto al soggetto, cioè esso è qualcosa da ammettere per vero in  rapporto alle massime della volontà  che  sono necessarie,  altrimenti  si tratterebbe  di  una  vuota volontà senza oggetto."[307] In conclusione, dal confronto diretto col testo kantiano cui  Carabellese si riferisce vedendovi  una fondazione dei giudizi sintetici a priori metafisici non si  evince la possibilità della metafisica come scienza.  E' ipotizzata da Kant la possibilità di  una costruzione,  nella storia della filosofia a lui  poste­riore,  di un sistema della metafisica che  faccia  leva sullo schematismo della simbolizzazione analogica, tema questo di grande complessità che meriterebbe un approfondito  studio specifico. Riportare come fa  Kant alla ragion pura pratica come suo fondamento  e suo scopo finale, il sistema chiuso immutabile e eterno della metafisica (e considerarlo scienza, anzi scienza somma), quello della moralità come  conformità al Sommo Bene, significa  ammettere, pur nella  sua possibilità,  un sistema che avrebbe  fuori di sé la sua ragion d'essere, il suo fine  non teoretico ma pratico, in definitiva un fine non puro, nel senso che apparterrebbe a un'altra forma dell'essere, a meno che non si  ammetta che il Sommo Bene è, come deve, la Verità , secondo ciò che anche Carabellese nel periodo metafisico considera la triade Vero-Bene-Bello. Si vuol  dire che il fine di un sistema scientifico della  metafisica, da raggiungere peraltro secondo Kant in un progressus in infinitum  come  costruzione, secondo le parole di Kant, di  "molti  artisti",  deve avere  in sé il proprio fine come fine puro, la verità, non contaminato da fini esterni, siano essi pure un fine alto  come la conformità della moralità al  Sommo  Bene. Altrimenti  si rischia una confusione di piani  che  non giova né alla scienza né alla moralità. A meno, appunto, di non far coincidere verità e moralità, considerando il Sommo Bene un modo della Verità, e la Verità un modo del Sommo Bene, ambedue, insieme al Bello,  espressioni dell'unico Essere, Dio. E questa è in effetti proprio la soluzione prospettata dal Carabellese metafisico, quando dice distinti i tre Valori assoluti, Vero, Bene e Bello, in continua traslitterazione tra loro. Perciò Dio, libertà, immortalità sono esigenze della ragione umana non solo come principi della conoscenza nel campo del sensibile, ma proprio come esigenza della ragione umana di determinare conoscenze effettive della ragione stessa: se per il primo tipo di esigenza Kant ha proceduto a fondare la critica della ragion pura e la critica della ragion pratica, per il secondo tipo di esigenza non si ha bisogno di alcuna dimostrazione, perché la metafisica, col suo “ininterrotto travaglio verso questo scopo”, sta lì a dimostrare proprio questo. Nella seconda Sezione prima dell’opera, Dell’estensione dell’uso teoretico-dogmatico della ragion pura, Kant afferma che la metafisica può procedere nell’estensione della conoscenza ma non sa se ad essa corrisponde qualcosa fuori di noi o se invece “l’oggetto è sempre entro di noi”. Nonostante  questo “grave dubbio”, la metafisica può comunque procedere all’”estensione dell’uso teoretico-dogmatico della ragion pura”, “[…] perché le percezioni dalle quali ricaviamo […] la nostra esperienza secondo principi tramite le categorie, possono pur sempre essere in noi […] dato che non possiamo in nessun caso attenerci agli oggetti, ma unicamente alla nostra percezione, che è sempre in noi.”[308] Dunque secondo Kant è possibile un’esperienza che si presenti come estensione dell’uso teoretico-dogmatico della ragion pura, ossia come esperienza conoscitiva del soprasensibile, se accettiamo il fatto che non sappiamo se quest’esperienza è in noi o fuori di noi, e ci atteniamo unicamente alla nostra percezione, ossia a qualcosa che è dentro di noi ma che pure si riferisce a oggetti  esterni. In questa concezione è rinvenibile dal punto di vista gnoseologico, dominato come si sa dall’intelletto e non dalla ragione umana – perché dal punto di vista metafisico, dove entra in un ruolo di primo piano la ragione, il concetto di concreto significa tutt’altro - il concetto carabellesiano di concreto, inteso non in senso metafisico, ma come superamento del dualismo gnoseologico tra soggetto e oggetto: la percezione rappresenta il mezzo per questo superamento, l’esperienza si fa concreta, ossia supera il limite del sensibile e entra nel campo del soprasensibile, il suo strumento non è più l’intelletto ma la ragione, anche se Kant afferma subito dopo che “Da ciò [dal fatto che dobbiamo attenerci esclusivamente alla percezione che è in noi] segue il principio della suddivisione dell’intera metafisica: del soprasensibile, per ciò che riguarda la facoltà speculativa della ragione, non è possibile conoscenza alcuna (noumenorum non datur scientia). Questo è quanto nell’epoca contemporanea  è accaduto […] nella filosofia trascendentale, prima che la ragione avesse potuto compiere un passo, anche uno solo, nella metafisica vera e propria […].”[309] Questo in altre parole è il progresso della metafisica fino alla Critica, ossia prima di questo scritto kantiano sui progressi della metafisica, con cui appunto si tratta di estendere tale progresso alla conoscen­za del soprasensibile, ossia di dare realtà oggettiva ai concetti puri della ragione: riguardo alla realtà ogget­tiva dei concetti in generale, nell'importante paragrafo Sul  modo di fornire realtà oggettiva ai  concetti  puri dell'intelletto   e  della  ragione,  Kant  afferma  che fornire  realtà oggettiva, ossia "rappresentare un  con­cetto puro dell'intelletto (o della ragione) come pensa­bile in un oggetto dell'esperienza possibile", significa conoscere,  perché  nel  caso contrario  il  concetto  è vuoto. Questo conferimento, com’è noto, avviene, nel campo del sensi­bile,   mediante  l'intuizione,  ossia   immediatamente, attraverso lo schematismo, ma, ed è questo il punto  che ci  interessa, nel campo del soprasensibile mediante  la simbolizzazione del concetto, ossia non immediatamente ma nelle  conseguenze del concetto stesso. Pertanto qui  Kant introduce  la conoscenza del soprasensibile, da un lato ribadendo che essa non sarà mai una conoscenza vera e propria, ma  solo una conoscenza  prati­ca, dall’altro affermando che tale conoscenza avviene attraverso la simbolizzazione analogica: una conoscenza solo per analogia[310] attraverso il simbolo[311].

Ma,  se ci si consente questa breve digressione  storica mirante a inquadrare meglio il problema dell’analogia e a darne, pur nelle notevoli differenze, anche  non  un solo  riferimento al concetto carabellesiano di  Dio, può essere individuata nella Scolastica medievale[312] quell'analogia,  articolata nelle sue diverse figure, che assume valore metafisico[313] - si ricordi l'analogia entis di San Tommaso, che sviluppa il problema  dell'analogia  come partecipazione  a  partire dalla logica aristotelica - come propria del concetto di ente e dei concetti trascendentali di Uno, Vero e Buono. Perciò nell’analogia ne  viene  fatto  un  uso  metafisico-teologico per distinguere ma al tempo stesso per rappor­tare  Dio alle creature, che sono tra loro né  equivoci, ossia diversi, né univoci, ossia identici, ma,  appunto, analoghi. Ma quest'analogia tra Dio e gli enti creati  è tale  perché, come afferma  San  Tommaso  nella Summa  Theologiae, l'essenza e l'esistenza sono  in  Dio coincidenti in quanto Egli è  il primo principio  univer­sale, mentre nelle creature, proprio perché create, sono separati, e dunque in questo caso l'essere è per  parte­cipazione[314]. Nella Scolastica del XIII e del XIV  secolo numerose sono le dispute sull'"analogia di  proporziona­lità" tra l'essere di Dio e l'essere delle creature. Per San  Tommaso e i Tomisti, che si rifanno ad  Aristotele, vi  è un'unica sostanza, l'essere in quanto essere,  che possiede vari modi che definiscono i vari sensi dell'es­sere. Contro costoro Duns Scoto, il maggior critico  del Tomismo, rifacendosi anch'egli ad Aristotele,  considera l'essere come concetto univoco e non analogo che accomu­na l'essere di Dio all'essere delle creature. Solo così, considerandola  univoca e non analoga, è  possibile  per concatenazione  causale induttiva dalle creature a  Dio, conoscere  e pronunciarsi su Dio. In caso  contrario  la concatenazione induttiva si spezza e Dio diviene  l'assolutamente Altro,  di  cui non è possibile dire  nulla,  con  esiti nichilistici come ad esempio nella teologia negativa.  Nella filosofia moderna Locke  e  Leibniz considerano  l'analogia  come  strumento  di  conoscenza probabile  per  oggetti  che  trascendono  l'esperienza, mentre  lo stesso Kant nella Critica della  ragion  pura definisce  l'analogia come "l'identità del rapporto  tra principi e conseguenze".

Tornando appunto a Kant, e precisamente a I progressi della metafisica, il simbolo di un'idea è infatti  da  lui definito  "[...]  una  rappresentazione dell'oggetto  secondo  l'analogia,  ossia  secondo   una relazione a certe conseguenze che è uguale a quella  che l'oggetto  in se stesso mantiene con le sue  conseguenze [...]", per cui "[...] il soggetto di questo rapporto mi resta  nascosto nella sua costituzione  interna,  sicché può essere rappresentato soltanto il soggetto, questa in nessun modo."[315]

Nel secondo stadio della metafisica, che Kant, com’è noto, chiama “[…] della cosmologia trascendentale, perché spazio e tempo, nella loro grandezza intera, saranno considerati come l’insieme di tutte le condizioni e rappresentati quali contenitori di tutte le cose reali connesse; e così il totale di queste cose, in quanto [spazio e tempo] le riempiono tutte, sarà rappresentato sotto il concetto di un mondo”[316], la ragione cerca di progredire dal condizionato all’incondizionato ancora mediante gli strumenti dell’intelletto, inserendo l’incondizionato come membro di una serie di condizioni, seppure come termine ultimo della serie ascendente stessa e suo fondamento. Ma, com’è noto, poiché “nello spazio e nel tempo tutto è condizionato e l’incondizionato è irraggiungibile”, si giunge alla dialettica della ragione con le sue antinomie e al conflitto tra le varie metafisiche che hanno preceduto la Critica , ossia allo scetticismo: il passaggio all’incondizionato e al soprasensibile (alla conoscenza della cosa in sé) risulta impossibile, perché tesi e antitesi risultano ambedue possibili, tranne nel caso in cui sono entrambe vere come nell’antinomia dinamica della ragion pura, che si riferisce alla causalità dei fenomeni – nella tesi considerandola come legge meccanicisticamente necessaria di causa-effetto, nell’antitesi considerandola, in alcuni casi, come causalità libera, ossia non sottoposta alla legge di causa-effetto. Infatti tesi e antitesi sono entrambe vere perché il soggetto delle proposizioni in cui ci si riferisce nell’una  e nell’altra è diverso: nella tesi si fa riferimento ai fenomeni (causa phaenomenon), nell’antitesi alle cose in sé (causa noumenon), per cui uno stesso soggetto può essere considerato una volta come fenomeno, l’altra come cosa in sé, senza contraddizione né scetticismo. Cosicché l’antinomia dinamica è molto importante perché “ […] attraverso la critica […] risulta che un tale noumeno, come cosa in sé, è realmente conoscibile e proprio secondo le sue leggi, almeno dal punto di vista pratico, sebbene esso sia soprasensibile. La libertà dell’arbitrio è questo soprasensibile che mediante la legge morale non è dato soltanto come reale nel soggetto, ma anche dal punto di vista pratico è determinante riguardo all’oggetto: un soprasensibile che sotto il rispetto teorico non sarebbe per nulla conoscibile e che invece è l’autentico scopo finale della metafisica.”[317] La libertà per Kant, dunque, in questa costellazione di problemi, risulta il mezzo per giungere a  una conoscenza di Dio e dell'immortalità dell'anima,  infat­ti:  "[...]  il soprasensibile (Dio, al quale  lo  scopo propriamente  mira)  può essere conosciuto,  perché  una legge della libertà è data come soprasensibile. Lo scopo finale è diretto al soprasensibile nel mondo (la  natura spirituale  dell'anima)  e al soprasensibile  fuori  del mondo  (Dio), quindi all'immortalità e alla  teologia."[318] La libertà dunque, nello stadio pratico-dogmatico  della metafisica, insieme allo scopo finale della ragion  pura pratica,  ossia  il Sommo Bene,  cioè  l'incondizionato nella  serie  dei  fini, sebbene in  questo  secondo stadio della metafisica  non possano  essere conosciuti come realtà  oggettive,  pure valgono incondizionatamente come realtà pure pratiche, e sono rimasti due concetti, anche se "contestati  scetti­camente, inconfutati"[319].

Dire, come fa Kant, che "è un dovere progredire verso […] lo scopo finale, così  che bisogna avere uno stadio della metafisica  per progredire  in  esso", e che se  ne  ha  una conoscenza pratico-dogmatica significa dire che se ne ha esperienza. La metafisica "deve  esistere  [quaestio juris]  in  quanto è rivolta al compimento  dello  scopo finale",  ossia  il  Sommo Bene, e  nello  stesso  tempo esiste  di  fatto (quaestio facti) come  esigenza  della ragione umana che si è concretizzata in un "ininterrotto   travaglio come campo di ricerca essenziale"[320]  Kant opera una riduzione di  tali  oggetti soprasensibili  da  sostanze, o cose in sé,  a  funzioni connotate  dal  "per noi" e dal "come  se",  e apre così  la strada allo scetticismo in sede teoretica e all'anarchia dei  valori in sede pratica[321], ma al contempo afferma che: “Si tratta ora di vedere se  nondi­meno  possa esserci una conoscenza pratico-dogmatica  di questi  oggetti soprasensibili; essa sarebbe  allora  il terzo stadio della metafisica,  che porterebbe interamente a  compimento  il  suo scopo."[322] Kant  dunque, com’è noto, da un lato limita la conoscenza a una conoscenza pratico-dogmatica che non tocca la natura degli oggetti soprasensibili e riduce tutta la questione della  conoscenza di tali oggetti a questione  pratica  per noi, che ha valore solo in quanto essi fondano  l'azione morale (e al tempo stesso sono fondati dal puro  princi­pio morale, lo scopo finale che è il Sommo Bene)  quindi  in  realtà  svaluta Dio, la libertà  e  l'immortalità  a funzioni  della moralità e del Sommo Bene che per lui  è il  primum  ontologico, e così facendo si limita a  un'impostazione empiristica  e umanistica del problema della  conoscenza degli oggetti soprasensibili come conoscenza non  teore­tica ma pratico-dogmatica[323], togliendo agli oggetti soprasensibili il carattere di sostanze, di cose in sé, e riducendole a funzioni, a cose per noi.

 

20. Il passaggio dalla quaestio juris alla quaestio facti: 

la possibilità della conoscenza delle tre Idee kantiane mediante la simbolizzazione analogica

 

E’ necessario perciò per Carabellese preparare un quarto  stadio  della metafisica in cui si entri nella conoscenza teoretica di tali oggetti soprasensibili da un lato come loro  fonda­zione, dall'altro come  fondazione della possibilità della loro conoscenza (esperienza  non empirica),  uscendo dalla loro riduzione ad oggetti  per noi, poiché l'assenso di cui essi in tal modo abbisogna­no  nel  conoscere pratico-dogmatico  lascia  la  strada aperta sul piano pratico al dissenso, sul piano teoreti­co  allo  scetticismo, con conseguente  riduzione  della scienza  del  soprasensibile, la metafisica,  a  scienza empirica  tra altre scienze empiriche. Solo così,  nella fondazione della conoscenza teoretica di tali oggetti  e nell'allargamento  del concetto di coscienza e del  con­cetto  di esperienza a esperienza oggettiva di cose  in sé,  la  ragione potrebbe dirsi  pienamente  realizzata,  dal momento  che  la sua funzione è la conoscenza delle cose in  sé nella  loro realtà oggettiva, seppure, come  dice  Kant, non nella loro natura intesa come principio o origine di tali oggetti in sé. E' questo il compito che si apre al pensiero  filosofico dopo  ma  oltre Kant, e che consente di uscire  da  quel circolo kantiano tra apriori e aposteriori, tra  quaestio juris  e quaestio facti, nella  considerazione delle  tre cose in sé per eccellenza, Dio,  la  libertà, il mondo: fondare teoreticamente la possibilità della  loro conoscenza vuol dire che esse, non più  semplicemente  degli apriori indimostrabili e necessari come idee alla nostra azione (dei postulati dogmatici funzionali e non delle sostanze) passano ad essere  proprio fondamenti  in  senso  forte, ontologico,  ciò che costituisce non  soltanto  l'azione morale, ma la possibilità stessa dell'azione libera  (la libertà),  la possibilità stessa di pensare Dio (Dio)  e la possibilità stessa di pensare il mondo (il mondo). In questo caso della fondazione oggettiva,  Dio libertà  e  immortalità lasciano la  loro  apparenza  di "come se" derivati a posteriori dall'esperienza e posti surrettiziamente a priori a fondare l’azione morale,  in un circolo vizioso di rimandi tra a priori e a posterio­ri,  per disvelarsi nella loro natura reale di  cose  in sé. Essi da un lato sono idee in quanto queste hanno non solo realtà soggettiva per noi, ma anche realtà oggettiva in sé, in un  superamento concretistico della chiusu­ra della conoscenza in se stessa, e della filosofia del conoscere, e della divisione tra Objekt e  Gegenstaende che finisce per escludere le Gegenstaende stesse, ossia elimina, nel campo della speculazione, l’oggetto come fenomeno,  per soffermarsi solo sull'Objekt, intendendolo come conoscenza oggettiva delle cose in sé (speculazione). Dall’altro lato Dio, libertà e mondo, in quanto idee realmente oggettive nella concretisticamente superata separazione tra essere e conoscenza, ossia cose in sé, costituiscono il fondamento, cioè l’in sé dell’apriori, ciò che rende possibile l’apriori stesso al di là e prima, in senso logico trascendentale, della quaestio facti, ma anche della quaestio juris, ossia del loro essere come apriori ciò che è necessario affinché un’esperienza si dia. Si vuol dire che non è perché  si danno  azioni  libere (quaestio facti)  che  si  postula dogmaticamente  una  libertà  (quaestio  juris),  non è perché esiste un creato che si postula dogmaticamente un Creatore,  e  non  è perché le azioni  libere  si  fanno risalire  all'immortalità della persona che  si  postula dogmaticamente  tale immortalità. Questo è  procedimento induttivo che non appartiene alla filosofia come  scien­za.  E'  piuttosto viceversa perché   Dio,  la  libertà, l'immortalità  sono  reali in senso forte che si  dà  un creato, si dà la persona nella sua infinità e il sogget­to  nella sua moralità libera e responsabile, nella  sua autonomia. In altre parole, sgombrato il campo dalla quaestio facti, e dal circolo vizioso in cui fa involvere  l'intelletto, è la quaestio juris a richiedere un fondamento oggettivo, e  a esistere perché esiste un fondamento oggettivo,  il quale   per un verso è bisognoso di  dimostrazione,  per l'altro  viene postulato al fine di fondare  la  questio juris.  In questo spostamento, e in questo abbandono della  questio facti, avviene veramente il passaggio dal piano dell'in­telletto al piano della ragione, dal piano della rifles­sione con i suoi circoli al piano della speculazione. E' necessario perciò rompere il circolo tra quaestio  juris e quaestio facti, e ammettere la quaestio juris come apriori  della quaestio facti, e non come  aposteriori,  da questa dedotto, della realtà oggettiva della cosa in sé che si pone come il vero apriori intrascendibile. Semmai la  questione diviene allora appunto  quella,  congiunta tra gnoseologia e ontologia nella metafisica, da un lato di fondare la possibilità della conoscenza teoretica  di tale cosa in sé (questione critica de jure),  dall'altro di  mostrare  la sperimentabilità di  questa  conoscenza teoretica  stessa (questio facti). Ma dall’altro ancora per un verso di dimostrare come quaestio juris e quaestio factitrovino il loro fondamento e  la loro possibilità non in un “come se” e in un “per noi” aperti allo scetticismo, ma in un in sé oggettivo, e soprattutto di dimostrare questo in sé oggettivo, e in ciò abbattere la separazione tra essere e sapere.

  

21. Apriori ed esistenza: 

il  superamento  dell'apriori logico dell'intelletto nell'apriori ontologico della co­scienza e la conoscibilità razionale dell'essere in sé

 

Carabellese  ritiene,  ne  La filosofia  dell'esistenza in Kant (dai corsi degli  anni accademici  tra il 1940 e il 1943), che si debba andare oltre Kant, che non riuscì a superare né l’eterogeneità di materia e forma, né l’essere l’apriori un al di là della coscienza. Infatti afferma: "Il problema  dell'apriori, così,  dopo Kant, [...] si pone come il  problema  dello stesso  essere.  E c'è forse modo, allora,  di  scoprire quali  sono le esigenze fondamentali che  sogliamo  dire materia  e forma di coscienza e di superare quella  loro eterogeneità, che determinò i confini che la speculazio­ne  kantiana non riuscì a superare, e che è, o  dovrebbe essere,  problema  vivo  e aperto, in quanto  non  si  è ancora  saputo  andare  al di là  di  Kant.  L'idealismo tedesco  postkantiano è l'arresto della speculazione  di fronte  alla difficoltà creata dalla  scoperta  di  Kant (cosa  in sé), è la ricaduta nell'empirismo. Quelle  che noi  diciamo  individuazione e diversificazione  di  co­scienza ci par  che risolvano il dissidio kantiano della materia  e  della  forma.  Io ritengo  che,  ponendo  il problema dell'apriori di coscienza o meglio anche  della coscienza a priori come lo stesso problema  dell'essere, continuiamo  Kant,  rompendo quei confini  in  cui  egli aveva  chiusa  la  sua  speculazione.  Questo  significa ontologismo  critico o idealismo  ontologico:  significa che  l'esigenza a priori dell'essere, che  la  coscienza ha,  non deve essere soltanto un argomento  (ontologico) per un problema (Dio), ma è l'esigenza fondamentale,  in base alla quale vanno risoluti tutti i problemi."[324] Questo Carabellese considera ontologismo critico: problema della coscienza e problema dell’essere si incontrano nel problema dell’apriori – che è al tempo stesso problema gnoseologico e problema ontologico -, apriori che non sta più soltanto a indicare il limite assoluto della conoscenza, ma per un verso viene a spostarsi e relativizzarsi in direzione proprio della conoscenza dell’essere – si ricordi la tesi masciana della “concrescenza materia/forma della conoscenza” che Semerari rileva essere l’eredità che Carabellese accetta  dal suo maestro neokantiano, Masci, e in questo Carabellese è modernissimo – per l’altro indica proprio lo spazio oltre il  quale la conoscenza  non è più conoscenza dell’intelletto ma della ragione – Carabellese la chiama coscienza – e oltre il quale ci si pone direttamente sul terreno dell’essere.

L'apriori, pur relativizza­to  e disancorato dalle sue forme  immutabili  kantiane, viene  a costituire il punto di apertura all'esse­re che consente di porsi sul terreno della ragione, dove scompaiono sia il rapporto materia/forma a  vantaggio della loro concrescenza[325]  sia il dualismo  sog­getto-oggetto del dato a favore del reciproco prodursi in concreto. Ma appunto per porsi sul piano dell'essere bisogna oltrepassare l'apriori, consi­derato non soltanto in senso kantiano come immutabile ma tout court come apriori logico dell'intelletto, e veder­lo  non più come limite invalicabile, ma  soltanto  come punto  oltre il quale si apre la ragione, e con essa  la conoscibilità dell'essere. Qui siamo ancora apparentemente su un terreno  che vede Kant reinterpretato dal neokantiano Masci, primo maestro neokantiano di Carabellese.  Infatti la facoltà che  scopre la  cosa  in sé è  la ragione, vera e propria facoltà del  reale  in grado di avere un uso trascendente che superi il  limite dell'esperienza  sensibile pur senza essere in grado, per Kant, di entrare  completamente nel mondo noumenico, ma  restando appunto sul limitare, sul confine tra mondo noumenico  e mondo fenomenico, perché la cosa in sé è in lui realtà extramentale inconquistabile, l’essere al di là del conoscere, l’oggettività reale al di là dell’oggettività fenomenica della  conoscenza. Ma come si sarà compreso dalla concezione carabellesiana della concretezza, è proprio questa dualità di mondi che Carabellese  conte­sta, ossia la distinzione tra un mondo in sé e un  mondo mentale[326], ossia la distinzione tra essere e apparire.

Così il concetto di esperienza si allarga a altre sfere[327], appunto la coscienza, la conoscenza non è più conoscenza dell'intelletto ma della ragione, che diviene lo strumento  che l'uomo ha per sconfinare  nel  territorio inesplorato dell'essere. L'apriori non è più limite invalicabile dell’intelletto, ma  punto  oltre il quale si apre la ragione, e con essa  la conoscibilità dell'essere. La  cosa in sé è per Kant la garanzia  del  non ridursi delle cose a rappresentazioni: ciò gli  consente di professare il realismo empirico, che  vede  le cose esterne  alle  rappresentazioni  come fenomeni che si presentano alla coscienza.[328]

Nella distinzione tra un mondo in sé e un  mondo mentale[329] operata da Kant, il mondo mentale è divenuto il mondo dell’esperienza oggettivamente valido per tutti i soggetti a partire dalla coscienza in generale .

Carabellese in altre parole critica in Kant che la ragione conduca solo fino al limitare del mondo dell’essere in sé, ossia nel confine tra mondo noumenico e mondo fenomenico. L’ontologismo integrale di cui Carabellese parla talvolta non può consentire che la ragione abbia un uso così limitato, che si fermi al noumenico e che non abbia una conoscenza dell’essere in sé,  e d’altra parte non può consentire che tra mondo dell’essere e mondo del conoscere si apra uno iato: la sua concezione del Concreto sta lì a dimostrarci il contrario. Il progetto implicito è quello di dimostrare, oltre anche se dopo Kant, e nello stesso tempo, risalendo indietro nei secoli, alla Scolastica medievale, che riteneva possibile una conoscenza dell’essere in sé, una continuità tra mondo noumenico e mondo dell’essere in sé che consenta una conoscibilità di tale mondo dell’essere in sé. Questa conoscibilità è stata esclusa dal Kant critico, che ha parlato soltanto di noumenicità, ossia di pensabilità. Il Kant critico, argomenta polemicamente Carabellese, conserva un tacito presupposto realistico, perché identifica “ […] l’esistenza con l’oggettività ritenuta realtà non mentale” [330] cioè cosa in sé, e con l’identificazione tra esistenza e cosa in sé, sostanzialmente mette da parte quest’ultima. Infatti la conseguenza della cosa in sé è che anche il mondo dell’esperienza, il mondo del senso, è un mondo mentale: l’essere si separa dal conoscere[331].  E infatti, spiega, Kant inserisce l’esistenza come una delle modalità presenti nella tavola dei concetti puri, assieme a possibilità e impossibilità, necessità e contingenza: l’esistenza è da Kant considerata un apriori logico. In tal modo l’esistenza necessita, per essere affermata, dell’apporto del senso, ossia è possibile dichiarare un ente esistente solo a posteriori, a partire cioè dall’esperienza: “E allora […] vediamo che l’apriori dell’esistenza è l’esigenza dell’aposteriori, e cioè dell’empirico: l’esistente a priori è il sentito empirico, cioè l’aposteriori.” [332]    In questo senso l’esistenza del Kant critico è ancora quel più del concetto del Kant precritico, un limite invalicabile e raggiungibile soltanto attraverso il senso: l’oggettività reale in senso forte che collega mondo fenomenico e mondo dell’essere in sé. Infatti questo più del concetto sarà il fondamento della Confutazione dell’idealismo che Kant aggiungerà alla Seconda Edizione della Critica nel 1787, ove dirà che l’avvicendarsi delle rappresentazioni nel tempo richiede un quid permanente che non si risolve in esse.

Ma l’impostazione  formale del problema dell’esistenza  nel Kant critico gli consente di risolvere il problema della realtà e di superare la difficoltà del realismo, “[…] mostrando che il conoscere trae bensì origine dall’esistere, ma che l’esistere non ha significato che entro il conoscere.”[333]

Ciò che preme a Carabellese di questo significato dell’esistenza nel conoscere consiste nello spostamento che l’esistenza stessa assume in Kant da più del concetto che come quid permanente si definisce come limite invalicabile irraggiungibile e conoscibile soltanto mediante il senso a esigenza formale della coscienza, come avviene  nella seconda edizione della Critica, ove c’è uno  spostamento di significato per quanto riguarda l’esistenza da più realistico del concetto a esigenza formale della coscienza. Dire come vuole Carabellese che l’esistenza è esigenza formale della coscienza significa per un verso dire che l’esistenza non è un più realistico del concetto, il quid permanente kantiano, bensì proprio, ancora kantianamente, ma mettendo in luce la sua natura formale e non sostanziale, per un verso un apriori intellettuale per quanto riguarda gli oggetti di esperienza – da qui la sua battaglia contro l’attribuzione dell’esistenza a Dio -, un’esigenza apriori della coscienza per quanto riguarda l’esistente molteplice, omogeneo e relativo – i soggetti - , per l’altro verso dire che è una forma della coscienza (la coscienza in generale) che, superando l’apriori intellettuale, porta l’essere nella coscienza e quindi dimostra che l’essere è spirituale: l’oggetto diviene l’oggetto unico in cui i molti convengono mediante la coscienza in generale.  Quest’ultima Carabellese chiama la concretezza della coscienza, che Kant poteva raggiungere se non avesse considerato la cosa in sé come esistente e come fuori della coscienza. “La vera oggettività kantiana non è rispondenza alle categorie: questa sarà l’oggettività logica. Ma l’oggettività veramente oggettiva è quella che la cosa in sé assume col presentarsi, sì, alla coscienza, ma rimanendo in qualche modo esterna ad essa. L’oggetto, nel suo esser dentro alla coscienza, non è veramente oggetto, è un sentito dell’intelletto, è sempre un <<esse in mente>>, non un <<esse in re>>, che, per Kant, è dato solo dalla cosa in sé”. [334] In questo considerare la cosa in sé come esse in re Carabellese concorda con Kant, perché infatti Carabellese considera l’unico vero apriori, non logico ,ma ontologico, e non dell’intelletto ma della ragione, l’essere.  Questa è l’oggettività “veramente oggettiva”, l’oggettività reale di Kant.  Ma in quel separare kantiano la cosa in sé come esse in re dall’esse in mente la strada di Carabellese procede oltre Kant: la cosa in sé non è l’inconoscibile proprio perché non è separata dall’esse in mente. Invece separando l’esse in mente dall’esse in re Kant, afferma Carabellese, dà dal punto di vista della conoscenza un concetto negativo – non può esser conosciuta – ma nello stesso tempo positivo perché non dubita della sua realtà, che anzi costituisce quel permanente  come punto di riferimento della rappresentazione.[335] La cosa in sé è per Kant la garanzia del non ridursi delle cose a rappresentazioni: ciò gli consente di professare il realismo empirico, ossia quel realismo che vede le cose esterne alle rappresentazioni come fenomeni che si presentano alla coscienza. [336]

Come si è già detto poco sopra, secondo  il Carabellese de L'idealismo italiano,  "[...] Kant  cade nella contraddizione dell'essere in sé  che  è  insieme  noumenico  e cioè  idealistico,  non  raggiunto dalla mente e cioè realistico."[337]

La sintesi a priori da un lato esclude il riferimento al reale che non è oggetto di coscienza, ma dall’altro lo lascia sussistere pur affermandone l’inconoscibilità, e dunque implicitamente afferma la trascendenza dell’essere alla coscienza in generale. Così non soltanto si ha un residuo realistico nella posizione kantiana che conduce a uno scetticismo o almeno a un agnosticismo, ma soprattutto la certezza non è  riportata alla verità, l'immanenza rimane  un'esigenza irrealizzata, ossia rimane quel distacco tra l'essere  e il conoscere che per Carabellese è necessario conservare come distinzione, ma eliminare come separazione,  perché il problema della conoscenza - come è possibile certezza soggettiva dell'essere oggettivo - sia veramente risolto e perché possa parlarsi realmente di idealismo -  l'idea come  oggetto nella coscienza dei soggetti. Pertanto  la posizione di Carabellese rispetto a Kant in  quest'opera è  critica:  Kant ha posto ma non  risolto  il  problema della conoscenza, perché non è salito dal piano  gnoseo­logico  al piano ontologico, dal piano della certezza  a quello della verità - o meglio, non ha posto il problema dell'immanenza  della verità nella  certezza,  lasciando sussistere  la  cosa in sé come estranea al  soggetto  e trascendente rispetto alla conoscenza [338]. Già con la filosofia del Risorgimento italiano,  secondo Carabellese,  ossia con Rosmini, Gioberti e Mazzini,  si comincia a vedere "[...] l'astrattezza di tale  imposta­zione del problema della conoscenza nella sua pretesa di prescindere  da  ogni oggettiva  indagine  metafisica."[339] Anche  qui  Carabellese sottolinea  il  suo  consapevole passaggio dal piano gnoseologico al piano ontologico,  o meglio la necessità per lui che gnoseologia e  ontologia siano strettamente correlate, come dichiara: "Ora fino a Kant  l'inavvertito errore  fondamentale era  l'afferma­zione  della possibilità di una  ontologia  indipendente dalla gnoseologia. La scoperta kantiana, il suo coperni­canesimo, è la denunzia di questo errore [...]  l'errore del dogmatismo metafisico. [...] Ma come conseguenza  si affermò, dopo Kant, il chiudersi rigoroso della  filoso­fia  nella  conoscenza stessa  kantianamente  concepita. L'ontologia  scomparve e scomparve così non soltanto  la metafisica dogmatica ma ogni metafisica [...] la filoso­fia divenne non più dell'essere, ma del conoscere. [...] La conquista kantiana invece così non è stata proseguita [...] l'errore realistico, denunziato da Kant, è  conti­nuato [...] [esso] afferma l'essere come esistente [...] al  di là della coscienza che se ne ha  [...]"[340] L'inscindibilità del  sapere  dall'essere  e   della gnoseologia  dalla  metafisica, secondo Carabellese, Kant la esprime col concetto di cosa in sé, che è  al  tempo  stesso noumeno, ossia idea della coscienza, e cosa in sé, ossia  appartenente all'essere: nella cosa in sé kantiana c'è in  germe e intrinseco  questo  rapporto tra sapere ed  essere,  tra soggettività  ed oggettività, ambedue necessari per parlare di ontologismo integrale. Non è possibile porre problemi  gno­seologici senza porre contestualmente problemi ontologi­ci: è il noumeno kantiano nella sua intrinseca  contrad­dittorietà di essere pensabile eppure cosa in sé,  ossia nella mente e fuori di essa, che rappresenta l'anello di congiunzione tra gnoseologia e metafisica, e tra sogget­tivismo e oggettivismo[341] .

Secondo il Carabellese di Che cos'è la filosofia?, Kant scopre, ed è questo suo merito fondamentale, la cosa in sé, e così fonda, o meglio rifonda, dopo Platone e Aristotele, la metafisica: a suo parere, né l’aver dichiarato Kant l’inconoscibilità della cosa in sé, né l’aver egli definito l’impossibilità della metafisica come scienza, appartengono al vero Kant. Sono la critica e la filosofia successive che hanno decretato, “[…] l’annullamento dell’essere come sapere proprio della filosofia, o la dichiarata esclusiva negatività di tale essere.”[342] E’ insomma per Carabellese la successiva interpretazione che è errata, perché “[…] messa in rapporto con la concezione gnoseologicistica-realistica dell’essere”.[343]  Ma evidentemente Carabellese nella sua severa critica  di  tutta  la filosofia  postkantiana, non si riferisce al Kant della Critica quando afferma che “[…] la vera scoperta kantiana [è] quella dell’essere come oggetto dello speciale sapere filosofico[344], “[…] quell’essere al quale Kant, dicendo cosa in sé, si teneva saldamente avvinghiato […].”[345] Ma Carabellese è consapevole che Kant non ha realizzato il suo pensiero metafisico quando poi afferma implicitamente che il compito, dopo Kant, è sviluppare “[…] la scoperta kantiana dell’appartenenza dell’essere al pensiero (noumenicità) nelle sue esigenze profonde.”[346], perché "Il sapere  filosofico è quello che persegue l'essere e  non si contenta del fenomeno."[347] Quindi la grande scoperta ontologica di Kant è l’essere come cosa in sé[348], con cui egli riapre la via metafisica. Ogni filosofia prima di Kant non poteva essere trascendentale, ma dopo Kant si è elusa la difficoltà insita nella cosa in sé e si è abbandonata la via filosofica kantiana vera perché non empiristica[349]. Poiché per Kant la scienza è apriori, cioè è indipendente dall’esperienza, la metafisica come scienza apriori del soprasensibile costituisce la scienza per eccellenza, e dunque negare la possibilità della metafisica equivale a coinvolgere in questa negazione ogni altra scienza, e dunque la scienza tout court.

Ma mentre Kant pensava  a una metafisica come scienza assoluta immutabile e  defi­nitiva una volta costituita, per Carabellese la  metafi­sica,  pur essendo espressione massima della  filosofia, non  può esser concepita con una sua  "[...]  universale oggettività  incontestata e incontestabile,  compiuta  e però né mutabile né aumentabile. E' l'antistoricismo del Cartesio che permane in K., che non vuol vedere l'ogget­tiva filosofia nel soggettivo filosofare, perché teme di ridurre quella oggettività ad un vano dialettizzare.  E' l'antistoricismo dell'Illuminista (...]."[350] Ma, aggiungeremmo, Kant non vede nemmeno quell’essere la filosofia prima, ossia la metafisica, come sarà poi da Hegel in poi, come uno dei linguaggi dell’Assoluto che si fa Storia.

  

22. Sintesi  a priori metafisica e noumeno

 

Sul piano gnoseologico, Carabellese istituisce un rapporto in Kant tra sintesi critica e noumeno: la sintesi è possibile perche la cosa in sé è noumeno, ossia è l’immanenza dell’essere nella coscienza che rende possibile la sintesi. Infatti: “Sinteticità  è dunque per Kant […] riferimento essenziale di un’entità logica alla esistenza reale, sinteticità è il comporsi necessario di elementi logici rappresentativi, comporsi in modo da avere nonostante questa loro natura schiettamente logica, mercé questo loro comporsi (ed ecco letteralmente la sinteticità) un’ineliminabile rapporto all’essere. Donde l’insistenza del reale nello spirito. Perciò la sinteticità è “[…] Quel precritico e critico <<più>> che caratteriz­za  l'esistenza; ma posto [...] nello spirito [...].  E' quindi  quel carattere dello stesso spirito,  pel  quale questo  ritrova  in sé l'essere [...]: è quindi  l'imma­nenza dell'essere nello spirito, che è pensare."[351]: l’immanenza dell'essere nello spirito come  pensare che è la cosa in sé come noumeno, e la sua dimostrazione, che Kant dà con la sintesi a priori, è per Carabellese la grande scoperta di Kant, “Non quindi quella del limite della conoscenza com’egli credeva; e neppure il non essere della cosa come  credettero i suoi epigoni."[352]. Ma Carabellese vuol sottolineare di  Kant  la ripresa del valore della   sinteticità, perché in tal modo Kant ridà valore alla sensibilità contro il disvalore  che questa, come senso oscuro e confuso, aveva in Cartesio e Leibniz[353]:  la  conoscenza è possibile anche  grazie  al senso  che,  come capacità ricettiva,  raggiunge  "[...] quel  <<più>> che caratterizza l'esistenza di fronte  al concetto  puro  [...]."[354] ,  e così  la  sintesi  apriori, attraverso  il  senso come  "capacità  realistica  dello spirito  conoscitivo", passa  dall'oggettività  soltanto logica all'oggettività reale. Sotto questo aspetto, non si parlerebbe più di sola pensabilità ma di conoscibilità della cosa in sé, che invece Kant dichiara inconoscibile appunto perché quel più esistenziale che risulta al senso nella sintesi risulta non in sé ma come fenomeno, cioè nel suo appari­re: è  questa,  afferma  Carabellese,  la  "difficoltà fondamentale  di  tutta la Critica , il  problema  vero", perché  la  negazione  di una scienza dell'in  sé  e  la riduzione della scienza a scienza fenomenica riaprono la strada  allo  scetticismo humiano, togliendo  valore  di scienza alla conoscenza. E' qui che deve avvenire il salto dalla sintesi a priori naturalistica alla sintesi a priori metafisica, dall'in­telletto  che  è fisico alla ragione che  è  metafisica. Mentre  l'in sé è  inconoscibile per la sintesi a  priori naturalistica  propria dell'intelletto - l'in sé è  qui negativo  - è nonostante ciò pensabile per  la  ragione, che  quindi  deve  dimenticare la  dialettica  che  l'ha caratterizzata  finora nelle diverse metafisiche sino  a Kant per l'uso errato della ragione, quello naturalisti­co, e deve metter capo a una sintesi a priori  metafisi­ca. Questo il progetto di Kant a partire dalla Disserta­zione del 1770. Ma  questa  speciale sinteticità metafisica non  è  però giustificata  dalla sola noumenicità, che rende l'in  sé interno  alla coscienza.

La noumenicità  costituisce  il punto di partenza della metafisica come scienza, dal  momento che è possibile intendere la stessa noumenicità come sintesi.  E' questo  secondo Carabellese il problema  kantiano  della metafisica  come scienza: "O, dunque, la  noumenicità è sintetica, e di una sintesi che non ha bisogno di intui­zioni  neanche pure, e potremo costruire  la  metafisica come scienza assoluta, di fronte alle scienze del  feno­meno;  o  non  v'ha altra sintesi a  priori  che  quella racchiudente l'intuizione e allora [...] [la] cosa in sé [sarà vista] come inconoscibile [...] La scienza metafi­sica  sarebbe  un non senso."[355], e l'unica  scienza  sarà quella  del fenomeno: questa seconda via negativa è  una delle due  percorse dalla filosofia postkantiana,  l'al­tra  è  quella  della trasformazione  della  Critica  in metafisica, trasformazione che Carabellese chiama criti­cismo metafisico, e che dichiara lontanissima dai propo­siti  di Kant. Kant infatti, nel porre  l'oggetto  della metafisica, l'oggetto soprasensibile, secondo Carabelle­se  definisce che "Esso non è l'oggetto  concreto  delle nostre intuizioni, ma è."[356], ossia lo pone positivamente, laddove  "[...]  l'<<è>> si riferisce al  noumeno,  cioè all'idea [...]. Cioè la ragione è per suo conto sinteti­ca: l'essere è proprio il suo oggetto."[357] . In altre parole secondo Carabellese, sebbene "Il dogmatismo intellettua­listico  di  K.  sta nel conservare  il  pregiudizio  di un'altra  oggettività al di là di quella  della  ragione [...]"[358], il noumeno rappresenta la sinteticità metafisi­ca  ricercata da Kant, sinteticità né  naturalistica  né fenomenica,  ma  propria della ragion  pura,  nonostante permanga in Kant  la confusione realistica tra la  posi­tività  del noumeno come appartenenza  dell'essere  alla coscienza  che  si fonda sulla ragione e  la  negatività dell'inconoscibilità della cosa in sé che si fonda sulla sintesi  a  priori naturalistica. Tale confusione  è  in parte diradata dalla distinzione kantiana tra ragione  e intelletto,  ragione  che, dice Carabellese  in  stretta consonanza  con  Jacobi,  è per Kant  in  rapporto  alla fede[359]. Ufficio della ragione in Kant è infatti quello di svelarci l'in sé "al di là e al di sotto del  fenomeno", non come soltanto positivamente pensabile, bensì proprio "[...]  nella  sua intima esigenza di ragione,  cioè  di coscienza  incondizionata:  nella  sua Idea.  E  così è sintetica." [360]

Il  prodotto di questa  sintesi  a  priori metafisica  della  ragione è la cosa in  sé  come  Idea, sintesi che ha origine nel noumeno. Vengono così a delinearsi due interpretazioni carabellesiane della cosa in sé di Kant: l’una fenomenistica che considera la cosa in sé presupposta dal sentire e origine dell’intuizione, ma inconoscibile e dunque negativa, l’altra critica che considera la cosa in sé come noumeno: "La cosa in sé di  K.  è,  tutta, quella  presupposta dal sentire, che pone la Critica  in così grave imbarazzo; o non v'ha anche, e più vitale pel sistema  di  pensiero  kantiano, un'altra  cosa  in  sé, quella  noumenica [...]? [...] la cosa in  sé  veramente critica è questa noumenica della ragione e non quella da sentire [...] il valore della Critica sta proprio  nella scoperta  di  una  oggettività in sé che  non  è  quella naturalistica del senso, sta nella [...] radicale affer­mazione  dell'essere, più che nella negazione della  sua conoscibilità."[361]

E’ dunque l’aver posto l’accento sulla cosa in sé come presupposto inconoscibile del senso che ha deformato l’interpretazione postkantiana della Critica trasformandola in dottrina  fenomenistica della conoscenza, secondo Carabellese, considerando la conoscenza soltanto come sintesi a priori naturalistica. Ma questa deformazione è motivata in qualche modo dalla stessa Critica dal momento che essa postula, e  si ferma sul limitare della cosa in sé come noumeno pensabile ma inconoscibile, "[...] il dualismo tradizionale di soggetto come conoscenza, e oggetto come essere che è il presupposto causale del senso [...]"[362] Così la Criti ­ca si trova di fronte al "famoso dilemma" che Carabelle­se  esprime in questi termini: "C'è,  ineliminabile,  un sentire. Il sentire a sua volta è fondato su presupposti oggetti che facciano impressione sui sensi. Tale presup­posto, a sua volta, è fondato sulla credenza alla  vali­dità  oggettiva  della nostra percezione. [...]  Ora   la Critica  distrugge proprio questa credenza, riducendo  a rappresentazioni gli oggetti dei sensi; ma per procedere a questa distruzione parte proprio dal sentire e  quindi anche  dal suo presupposto. Perciò, mentre  per  entrare nella  Critica  dobbiamo partire da  questo  presupposto [...]  per restare [...] idealisti trascendentali  [...] dobbiamo abbandonare il presupposto stesso."[363]

Per  sottrarre  la  Critica al dualismo tra un essere presupposto e fondamento del sentire, da esso separato e dunque inconoscibile – la cosa in sé -, e un essere interno alla coscienza – il noumeno -, in cui quella separazione tra essere e conoscere e quella inconoscibilità si rivelano una rappresentazione del soggetto empirico, il pensiero postkantiano ha proceduto, secondo Carabellese, alla progressiva eliminazione della cosa in sé partendo dall’accettazione della sua inconoscibilità intesa in senso non naturalistico ma metafisico, mentre avrebbe dovuto “[…] mostrare nel noumeno la vera positiva oggettività dellaCritica […] nella imprescindibilità del suo essere pensato, cioè del suo costituire il pensiero.”[364]  Nel pensiero postkantiano mondo dell’essere e mondo del conoscere si separano, e così,   secondo Carabellese, si rinviene in esso l'eliminazione progressiva della cosa  in sé: così la conoscenza si chiude rigorosamente  in se stessa eliminando ogni  riferimento ad  altro  da  sé e assumendo  un  valore  schiettamente idealistico:  la  cosa  in sé  diviene pura negazione inconoscibile e dunque  irrazionale, la metafisica non  è più  dogmatica e contraddittoria scienza dell'essere  ma scienza del conoscere, la metafisica come ontologia cioè scienza dell'essere è abbandonata, il criticismo metafi­sico, ossia la trasformazione della Critica in metafisi­ca, si compie[365]. Invece per Carabellese problema interno della filosofia, ossia problema della filosofia come conoscere metafisico, e problema esterno della filosofia, ossia problema oggettivo dell’essere, sono inscindibili. Bisogna porre la cosa in sé nella sua positività affermativa dell’essere, non separata dalla sua noumenicità affermativa del sapere. Essere e sapere non sono separati ma distinti: ecco il Concreto o Coscienza, di cui il sapere umano e la coscienza umana sono manifestazioni.

Come si accennava all’inizio di questo scritto, per quanto il mondo mentale sia divenuto con Kant il mondo dell'esperienza oggettivamente valido  per tutti i soggetti a partire dalla coscienza in  generale, per Carabellese la ragione conduce oltre il limitare del mondo dell'es­sere, ossia oltre il confine tra  mondo  noumenico  e mondo  fenomenico. L'ontologismo integrale di Carabellese  non può consentire che la ragione abbia un uso così limitato, che tra mondo dell'essere e mondo del conoscere si apra uno iato: la sua  concezione del  Concreto  sta  lì a dimostrarci  il  contrario, oltre,  anche se  dopo, Kant, e nello stesso tempo  risalendo  indietro nel tempo alla Scolastica medievale che riteneva  possi­bile  una conoscenza dell'essere in sé,  in una  continuità tra  mondo noumenico e mondo dell'essere in sé che  ne con­senta la conoscibilità. Questa conoscibilità è stata esclusa dal Kant critico, che, argomenta polemicamente  Carabellese, conserva un tacito presupposto realistico (lèggi empirico) perché identi­fica  "[...]  l'esistenza  con  l'oggettività   ritenuta realtà non mentale."[366]: la  conseguenza è che anche il mondo  dell'esperienza, il  mondo  del senso, è un mondo  mentale:  l'essere  si separa dal conoscere. E infatti, spiega ancora Carabellese, Kant inserisce l’esistenza come una delle modalità presenti nei concetti puri, assieme a possibilità e impossibilità, necessità e contingenza: l’esistenza è da Kant considerata un apriori logico. In tal modo  l'esistenza necessita  per essere affermata dell'apporto del  senso, ossia  è possibile dichiarare un ente esistente  solo  a posteriori,  a partire cioè dall'esperienza: "E  allora, [...] vediamo che l'apriori dell'esistenza è  l'esigenza dell'aposteriori,  e cioè dell'empirico:  l'esistente  a priori è il sentito empirico, cioè l'a posteriori."[367] In  questo senso, l'esistenza del Kant critico è  ancora quel  più  del concetto del Kant precritico,  un  limite invalicabile  e  raggiungibile  soltanto  attraverso  il senso:  questo “più” del concetto sarà il fondamento della  Confu­tazione dell'idealismo che Kant aggiungerà alla  seconda edizione della Critica nel 1787, ove come è noto dirà che l'avvicen­darsi delle rappresentazioni nel tempo richiede un  quid permanente che non si risolve in esse. Ma l'impostazione formale del problema dell'esistenza nel Kant critico gli consente di superare il realismo empirico,  "[...]  mostrando che  il conoscere trae bensì origine  dall'esistere,  ma che l'esistere non ha significato che entro il  conosce­re."[368] Ciò che preme a Carabellese è lo  spostamento di significato che l'esistenza assume in Kant  da più  del concetto come quid permanente a esigenza formale della coscienza: la carabellesiana concretezza  della coscienza, in rapporto con la coscienza  in generale,  Kant poteva scoprire se  non  avesse considerato  la cosa in sé come esistente e  come  fuori della  coscienza: "La vera oggettività kantiana  non  è rispondenza  alle categorie: questa  sarà  l'oggettività logica.  Ma l'oggettività veramente oggettiva  è  quella che  la  cosa  in sé assume col  presentarsi,  sì,  alla coscienza, ma rimanendo in qualche modo esterna ad essa. L'oggetto diviene l’oggetto unico in cui i molti convengono mediante la coscienza in generale. Quest’ultima Carabellese chiama la concretezza della coscienza che quindi è in rapporto con la coscienza in generale, e che Kant poteva raggiungere se non avesse considerato la cosa in sé come esistente e come fuori dalla coscienza. La vera oggettività kantiana non è corrispondenza alle categorie: questa sarà l’oggettività logica, ma l’oggettività veramente oggettiva è quella che la cosa in sé assume col presentarsi alla coscienza, ma rimanendo in qualche modo esterna ad essa: l’oggetto, nel suo esser dentro alla coscienza,  non  è veramente  oggetto,  è  un  sentito  dell'intelletto,  è sempre un <<esse in mente>>, non un <<esse in re>>, che, per  Kant,  è dato solo dalla cosa in  sé."[369] In  questo considerare  la cosa in sé come esse in  re  Carabellese concorda con Kant, perché infatti considera l'unico  vero apriori, non logico ma ontologico,  e  non dell'intelletto  ma  della ragione, l'essere.  Questa  è l'oggettività "veramente oggettiva", l'oggettività reale di  Kant. Ma nella  separazione kantiana tra esse in re e esse in mente, la strada di Carabel­lese  procede oltre Kant: la cosa in sé non è  l'incono­scibile  proprio  perché  non è  separata  dall'esse  in mente.  Invece, separando l’esse in mente dall’esse in re Kant, afferma Carabellese, dà dal punto di vista della conoscenza un concetto negativo della cosa in sé – non può essere conosciuta – ma nello stesso tempo positivo, perché non dubita della sua realtà, che anzi costituisce quel quid permanente come punto di riferimento della rappresentazione[370].

 

23. L’oggetto come valore

  

In  questa  visione dell’oggetto reale a un tempo come cosa in sé e noumeno, l'oggetto  non  si pone  più come al di fuori  della coscienza, bensì come norma  non  soltanto  della conoscenza, ma anche dell'azione volontaria e del senti­mento[371].
Carabellese considera l'antitesi kantiana e postkantiana tra intelletto e volontà - secondo la quale l'intelletto si  limita  al  campo dell'empirico  mentre  la  volontà afferisce  al  campo del  soprasensibile  attraverso  la realizzazione etica - un'antitesi insostenibile:  "[...] se  col conoscere fossimo chiusi  irrimediabilmente  nel campo  dell'esperienza, lo saremmo ugualmente anche  nel campo del volere."[372]

Allo stesso modo in cui vuole attri­buire all'intelletto una funzione non meramente  empiri­ca, così Carabellese vuole riscattare il senso  dall'es­sere,  da Cartesio e Leibniz in poi, una modalità  della conoscenza  inferiore all'intelletto perché confusa,  e vuole attribuirgli, come si è già detto, una sua propria chiarezza  specifica, rifacendosi a Kant, che dà  grande valore  alla conoscenza del senso e su di esso fonda  in particolare la geometria: l'intuito è intuizione non del semplice ma del composto[373]. Intelletto, volontà e sentimento non sono dunque  scissi tra loro, ma si richiedono a vicenda in un rapporto  che esclude  la preminenza di uno sugli altri.  Tra  essere, fare  e  sapere  si stabilisce un  circolo  che  esclude l'intellettualismo e conduce al coscienzialismo[374]

Se  dunque l'oggetto si pone come norma  del  conoscere, del  fare  e del sentire, significa che esso  è  valore. Discutendo le tesi di Masci contrarie alla filosofia dei valori come filosofia insufficiente a dar ragione  della realtà concreta, e pensiero esposto alle critiche del positivismo e del materialismo, Carabellese definisce che cosa è per lui valore: il concetto universale che la parola riferi­ta alla cosa significa. "La cosa che noi abbiamo presen­te è sempre la cosa pensata."[375] Quindi l'oggetto non vale in sé nella sua individualità, ma in quanto  espressione di un'idea, il concetto di quella cosa appunto. E' questo il suo  valo­re,  tanto  maggiore  quanto più  esprime  pienamente  e soddisfacentemente l'idea di cui è espressione, o meglio realizzazione  concreta, concretezza  d'essere: "[...] il valore di una cosa  sta nell'oggettività  sua, e la sua valutazione non è  altro che  la  sua oggettivazione."[376] E ancora,  valore  e concetto sono equivalenti, per cui si parla di valore di una cosa quando si dimentica che è in rapporto a me  che la  conosco,  si parla di concetto invece quando  la  si guarda nella sua oggettività conoscibile. Ciò significa che Carabellese vuole affermare  l'assolu­tezza del valore: il valore è assoluto e non soltanto in rapporto al soggetto pratico che valuta. Il valore di un oggetto è ciò che è l'idea, il concetto di quell'oggetto nella  sua oggettività, senza alcun riferimento al  sog­getto pratico-empirico nella sua individualità. Carabel­lese  combatte la riduzione del valore a sentimento,  ad assenso: una cosa non ha valore perché noi glielo attri­buiamo con l'assenso del nostro sentimento: sono vane  tutte  le distinzioni  tra valore come sentimento e giudizio valutativo. Il punto fondamentale della questione è come è possi­bile  un  ordine dei valori, ossia una gerarchia  che  è essa stessa certamente anche un valore. "Quello che deve essere, è.": questa per Carabellese  la posizione  fondamentale  ma  irta  di  difficoltà  della filosofia  dei  valori. Dire che ciò che deve  essere  è significa dire che "il valore consiste nel dover essere, ossia  nell'essere necessario e universale,  nell'essere in quanto idea. I valori sono le idee."[377] Ma allora, si chiede Carabellese, che cosa è l'idea?  E' riducibile tutto l'essere ad essa? E' l'antico  problema del  realismo  e  dell'idealismo, che  si ripropone  nell'indeterminatezza  dei concetti  e  delle parole,  ma  che è appunto ciò che  fa  antichissima  la filosofia dei valori nei suoi motivi fondamentali. Riguardo al rapporto tra valore e conoscenza, la distin­zione  che viene fatta tra giudizi valutativi e  giudizi conoscitivi  è  possibile soltanto se  la  verità  non viene vista come valore, perché se la consideriamo tale, e come il supremo dei valori, allora la distinzione tra giudizi di valore e giudizi di  cono­scenza non può essere valida, e si deve considerare ogni giudizio  valutativo  anche  conoscitivo  e   viceversa. Infatti,  afferma Carabellese, dire che la verità è  un valore,  e un valore tra altri,  significa dire  che  "è funzione  della valutazione" e ad essa  subordinata:  un assurdo.  E'  per  questo che i più  conseguenti  tra  i filosofi  del valore escludono dal campo dei  valori  la verità,  e il relativo giudizio lo tengono ben  distinto da  quello valutativo. Dire che la verità è il  supremo dei valori significa dire che è origine e fonte di tutti gli altri, ad essa subordinati, e che è essa che  subor­dina a sé la valutazione e non il contrario. "Questa  equivoca  concezione del valore" -  quella  che considera la verità un valore e dunque subordina ad essa la valutazione - rende meno limpidi i rapporti tra  filoso­fia e religione.

Per Masci la religione si giustifica in quanto la filosofia è una concezione unitaria ma finita e  non assoluta dell'esperienza poiché questa non è  mai né assoluta né infinita, cosicché il limite della  filo­sofia  diviene  lo spazio della  religione.  Carabellese  obietta che bisogna intendersi sul concetto di esperien­za:  è  necessario dire che l'esperienza del  singolo  è finita  e limitata solo in termini di  temporaneità:  la filosofia  oltrepassa con la ragione il limite  naturale dell'uomo. Inoltre  e soprattutto bisogna intendersi  sul concetto  di filosofia e di ragione che  questa  corrente di pensiero ha: "Può l'esperienza porre limiti alla ragione,  quando la ragione è la necessaria forma dell'esperienza? E  può la filosofia essere altra cosa che scienza della  ragio­ne? Della ragione, si intende, vissuta nella esperienza, della ragione che diremo kantiana [...]. Io non so se in questa  illimitatezza la filosofia troverà l'assoluto  o il  relativo,  il  noumeno o l'idea, la  sostanza  o  il fenomeno;  so  soltanto che essa  non  può  riconoscersi limiti [...] La filosofia non può essere continuata  che da se medesima, quand'anche debba, con questa  continua­zione  pervenire  al  mistero,  raggiungere  la  propria negazione. [...] il Masci [...] forse ritiene che  [...] oggetto  della filosofia son proprio le verità e  non  i misteri. A me pare invece che contraddizione ci sia;  il  mistero è verità [...] questa religione con tutta la sua parola misteriosa rientra nella filosofia."[378]

 Secondo  Carabellese filosofia  dei  valori  e  positivismo,  commettendo  lo stesso  errore  umanistico di vedere il valore  o  nella forma  del  trascendentismo  come  assolutamente   fuori dell'uomo o nella forma dell'immanentismo come  relativo all'uomo,   rifiutano  la  vera indagine  che  è  quella metafisica  intorno all'essere. Essere che non  è  altro che  il valore e la stessa coscienza: il  "[...]  valore (cioè coscienza, cioè essere) presuppone come  principio l'incondizionato  Assoluto [...] La coscienza è tale,  e quindi  vale,  non perché umana,  ma  perché  attingente l'assoluto Principio dell'essere, cioè la stessa inseità dell'essere."[379] Tutto  il  problema  del  valore  riceve dunque  una  soluzione  concretistica  alla  luce  della reimpostazione  che riceve  dall'argomento  dell'inseità dell'Oggetto puro di coscienza.

Ne L'Essere e il problema religioso, a cui queste pagine di  Che  cos'è la filosofia? rimandano,  commentando  la sezione  dedicata  al valore dell'opera  di  Varisco   I  Massimi Problemi, Carabellese nega che il valore sia  un sentimento,  ossia qualcosa di semplicemente  soggettivo che  dal  soggetto  si riflette sulle  cose,  e  afferma invece che il  valore è  nelle cose stesse, è  oggettivo, ed  è un attributo dell'oggetto  determinante  affinché quell'oggetto  si costituisca come tale:  "[...]  valore dell'oggetto sarà ciò che costituisce oggetto  l'oggetto [...]."[380], ossia l'essenza,  considerata come il concetto universale e necessario della cosa stessa. Valore di  un oggetto è  allora  più  precisamente  la   rispondenza dell'oggetto  concreto  al  suo  concetto  universale  e necessario,  di  cui essa è  determinazione.  Il  valore "[...]  riguarda  il  rapporto tra la cosa  reale  e  la ideale oggettività sua, esso è nient'altro che la stessa oggettivazione [...] E il vero problema del valore non è che [...] il problema della realizzazione dell'Essere."[381] Carabellese  nega  che  il  valore  possa   rinchiudersi nell'orizzonte della soggettività, del valere "per  me", ossia che il valore necessiti di un soggetto che lo crea come termine della soddisfazione di un bisogno,  termine oggettivo di un atto soggettivo. E' vero che nel  valore è sempre  implicito  un rapporto col  soggetto  che  lo riconosce  come  tale,  ma questo  rapporto  non  toglie l'oggettività  del  valore,  che si  pone  come  l'idea: "Perciò  il  valore delle cose sta nella  loro  concreta essenza,  che le costituisce, sta nella loro  idea.  Non nella statica idea platonica estranea alle cose reali  e modello  che queste imperfettamente mostrano  (e  quindi falsificano)  realizzandolo; ma nella idea dinamica  del loro essere fenomenico e quindi nella continua realizza­zione  di  questa.  Delle cose ciascuna  ha  il  proprio inalienabile valore; [...] la fonte del loro valore,  il loro  primo valore, è l'Essere."[382] E ancora:  "[...]  non c'è  valore  se  non [...]  nell'attuarsi  dei  soggetti nell'oggettività,  e nell'esistere degli  oggetti  nella soggettività  [...]."[383]:  ciò significa  che  soggetti  e oggetti,  presi separatamente, non sono  che  astrazioni dell'Essere.

24. Alcune note conclusive sul rapporto teoretico tra Carabellese e Kant. 

Oltre Kant: Carabellese pro e contro Kant

 

 Il   rapporto  tra Carabellese e Kant può  pertanto  dirsi complesso e sfaccettato: a colui il quale il Carabellese maturo  considera  uno  dei suoi  due  maestri,  l'altro essendo  Rosmini,  egli guarda con occhio  critico,  nel senso  non dispregiativo ma letterale del termine,  met­tendone in rilievo con sereno distacco quelle che secon­do lui sono le luci e le ombre.

Secondo  Carabellese,  dunque, il problema  centrale  in Kant è il problema metafisico: la fondazione dei giudizi sintetici  a  priori metafisici, che  egli  imposta  sin dalla Dissertazione del 1770 e risolve, seppure in  modo incompleto,  con la simbolizzazione analogica de I  pro­gressi della metafisica degli anni 1793-95, che  darebbe la sintesi a priori non più naturalistica della Critica, ma metafisica.

Nonostante questa insufficienza di Kant in campo metafisico, Carabellese  intravede  nel  Kant critico  colui  il  quale ha  innanzitutto  operato  una rivalutazione  del senso e della sensibilità,  che,  non più confusi, e nel concorso con l'intelletto,  costitui­scono  la ragione. Il concetto di sintesi,  inteso  come riferimento  di  un'entità logica  all'esistenza  reale, rappresenta  un  concetto centrale di grande  valore  in Kant  perché  in  essa si ha  l'immanenza  del  pensiero logico  nella realtà, ossia nell'essere, con un  supera­mento  del "più" precritico esistenziale  che  risultava ancora staccato dal pensiero e pertanto da esso inattin­gibile:  ed è appunto il senso a fungere da tramite  tra pensiero  e  realtà,  essere e conoscere,  e  in  questa funzione  rivalutata  fornisce dunque  oggettività  alla conoscenza.

Nel  concetto  di noumeno Carabellese  ritrova  uno  dei contributi  più  rilevanti del Kant critico,  poiché  in esso  vede  la  possibilità  di  un'apertura  metafisica consistente nel collegamento tra l'essere e la  coscien­za: nella noumenicità della cosa in sé è insita l'appar­tenenza  dell'essere  alla coscienza  come  idea.  Resta in Kant l'inconoscibilità della cosa in sé, ma essa,  proprio per il concetto di noumeno come  apparte­nenza  dell'essere alla coscienza, non è vista da  Cara­bellese  come separazione dell'essere dal conoscere,  ma come irriducibilità dell'esperienza della cosa in sé nei limiti e nei termini delle scienze particolari. Il rapporto teoretico di Carabellese con Kant, che  egli come detto considera  suo maestro e al quale ha  dedicato  numerosi studi lungo tutto l'arco della sua riflessione filosofi­ca  sino  agli ultimi corsi  universitari  postumi,  può dirsi quindi ambivalente: per un verso egli ne mette  in luce l'importanza in campo criticista, alla quale  vuole ritornare come punto di partenza per una riapertura  del problema metafisico che reimposti il problema dell'esse­re  e in termini concretistici e in  termini  teologici, per l'altro verso ne rileva i limiti sia in campo criti­cista sia in campo metafisico.

Infatti,  riguardo al primo punto, Carabellese imputa  a Kant di aver impostato il problema della possibilità ma non  quello dell'essenza della  filosofia,  fondamentale per lui a partire dalla concezione della filosofia  come metafisica,  che avrebbe evitato la degenerazione  post-kantiana del criticismo metafisico come elevazione della Critica  a  metafisica e avrebbe collegato  il  problema interno della filosofia, il problema non solo della  sua possibilità  ma anche del suo oggetto e del suo  metodo come filosofia prima in senso aristotelico, con il problema esterno della filosofia stessa, ossia il problema dell'essere. Qui si spiega il continuo  ritorno carabellesiano sul problema di "che cos'è la filosofia?" come impostazione della filosofia come scienza, in ciò completamente interno all’orizzonte Otto-Novecentesco mitteleuropeo.

Inoltre,  sul piano gnoseologico, nel permanere  critico di  un  dualismo tra soggetto e  oggetto  del  conoscere Carabellese rintraccia i residui di un  intellettualismo che separa l'essere dal conoscere, al di là del  ricono­scimento che tale separazione è superata nel concetto di noumeno.  E  questo intellettualismo  è  da  Carabellese considerato un portato del realismo empirico kantiano per cui  da un  lato la realtà non è coscienza e la coscienza non  è la realtà, dall'altro si ha una distinzione tra Objekt e Gegenstand  che  Carabellese  contesta  come   ulteriore dualismo di oggetti, e che conduce Kant a una distinzio­ne tra mondo mentale e mondo extramentale: qui si  inse­risce il livello gnoseologico del concreto carabellesia­no come "concrescenza materiale/formale" delle condizio­ni della conoscenza. A  questo collegato, anche se non apparentemente  perché posto  sul piano metafisico, è il problema  che  permane nel Kant non solo critico dell'inconoscibilità  dell'es­sere  in  sé, che è  indice  di  una separazione  tra l'essere e il conoscere  che  coinvolge non soltanto il piano gnoseologico del dualismo  sogget­to-oggetto, ma anche il piano metafisico del pensiero  e della realtà.

Infatti  il  non  avvenuto innalzamento  in  Kant  della coscienza dal piano umano o anche dell'Io trascendentale al  piano metafisico del coscienzialismo assoluto  cara­bellesiano, per cui la coscienza è coscienza assoluta  o Concreto, fa sì che la separazione tra essere e conosce­re che Carabellese rintraccia come residuo  intellettua­listico  sul piano gnoseologico si riproponga sul  piano metafisico  della separazione tra pensiero e  realtà,  e non  giunga a quella sintesi, che è distinzione  ma  non separazione, costituita dal Concreto.

Ma due sono i punti più critici del rapporto di Carabel­lese  con Kant. L'uno è costituito dalla  considerazione che  Kant ha lasciata inevasa la questione  scettica  di Hume, ossia la quaestio facti della conoscenza  empirica concreta  nella sua fattualità: Kant ha rivolto  la  sua attenzione  solo  alla  fondazione della possibilità della conoscenza attraverso le forme a priori  della sensibilità e dell'intelletto, ma  non  ha risposto  alla domanda su come il soggetto empirico  può dirsi  certo dell'esperienza nella sua oggettività  con­creta, e così facendo Kant ha lasciato aperta la  strada allo scetticismo.

L'altro  punto,  se è possibile ancor più  fendente,  si condensa nell'affermazione carabellesiana che la  fonda­zione  della metafisica come scienza era impossibile  al  Kant critico a partire dagli a priori fisici, che  pote­vano  fornire  una sintesi a  priori  naturalistica,  ma giammai una sintesi a priori metafisica. A questo punto si collega il problema della  simbolizza­zione analogica nei Progressi: il simbolo di cui  l'ana­logia  si serve per estendere la conoscenza  sembrerebbe costituire l'apriori che consente il giudizio  sintetico a priori metafisico. Ma, come fa rilevare Carabellese  e come abbiamo direttamente potuto accennare nel paragrafo relativo  ai Progressi, anche attraverso lo  schematismo della  simbolizzazione  analogica  il  soprasensibile  è conoscibile non in sé ma per noi, ossia "come se"  fosse la cosa in sé, in altre parole manca una vera oggettivi­tà che fonderebbe la metafisica come scienza, manca, in altre parole, il rapporto tra verità e certezza. Carabelle­se  ritiene  che ad esso soprasensibile  manchi  il  più esistenziale  necessario  alla sintesi,  e  che  inoltre esso, in quanto per noi e non in sé, presenti un  limite negativo  avvalorato dall'essere un per noi  finalizzato al Sommo Bene, e, seppure appartenente in ciò come  idea alla  ragione, da essa separato appunto  dall'essere  un per noi che lascia fuori di sé l'in sé. Giunti a questo punto possiamo individuare i compiti che Carabellese sente aperti dopo Kant. Un primo problema lasciato aperto da Kant Carabellese lo vede  risolto da Rosmini, che anche per  questo  ritiene suo  maestro  assieme  a Kant:  la  dimostrazione  della quaestio facti dell'esperienza concreta. Problema questo di importanza gnoseologica, ma che l'interesse prevalen­te di Carabellese per il livello metafisico della  cono­scenza induce a ritenere non primario nel suo pensiero. E'  piuttosto  perciò il passaggio dalla  critica  della conoscenza  alla  critica del  concreto,  dalla  Critica della Ragion pura alla Critica del concreto, che impegna Carabellese,  ossia  il  porre la  questione  sul  piano ontologico  dell'essere concreto, per cui  la  coscienza assume  il valore dell'essere nella sua  concretezza,  e diviene  così attività spirituale non solo umana.  Cara­bellese chiama la coscienza "l'ambiente  omnicomprensivo non soltanto umano ma ontico". La concretezza  significa "immanenza  dell'essere in sé come puro oggetto in  ogni atto  che  la coscienza del soggetto realizza".  In  tal modo il piano della coscienza trapassa dal livello umano al  livello assoluto, per cui si è parlato  di  onto-co­scienzialismo carabellesiano. Il problema kantiano della scienza intesa come scienza pura in ambito  scientifico-naturale  diviene e deve divenire  secondo  Carabellese, dopo  Kant e oltre Kant, problema della coscienza, ed  è per  lui questione ancora aperta, che egli si pone  come telos,  e  che è propedeutica al problema  stesso  della fondazione  della metafisica come scienza e alla  fonda­zione del sistema della metafisica.

Il  compito  che pertanto  nel  riguardare  l'itinerario carabellesiano nel suo complesso più sembra costantemen­te presente a partire dalla rilettura metafisica di Kant è  quello di una fondazione della metafisica non soltanto come  esigenza  della  ragione ma come  vera  e  propria scienza del soprasensibile. In questa chiave i giudizi a priori  metafisici  sono da fondare per  Carabellese  su un'esperienza diversa da quella delle scienze particola­ri, un'esperienza dunque non empirica e nemmeno pura nel senso  della  matematica  e della fisica  a  priori,  ma concreta, ossia superante il dualismo soggetto-oggetto e facente pertanto appello alla coscienza nella sua  inte­rezza, che, sebbene Carabellese la lasci come lacuna più sottintesa che negata, implica la fede.

In questo progetto carabellesiano di un  oltrepassamento di Kant nella direzione di una fondazione della  metafi­sica   come  scienza,  si  inserisce  la   trasposizione dell'oggetto come universale in cui i molti convengono e che tutti costituisce dal piano gnoseologico kantiano al piano metafisico della cosa in sé. Ma questa cosa in sé che in Kant aveva ancora il carattere di un quid  appar­tenente ad ogni cosa, come il suo più proprio se  stessa a  prescindere dalla conoscenza, diviene in  Carabellese il quid che come essenza sostanzia tutte le cose, unifi­candole nella sua assolutezza: Dio come l'Essere unico e assoluto.

Concludendo, e perciò guardando all’itinerario carabellesiano nel suo complesso, se il ciclo critico di Carabellese può dirsi apparentemente risolto nel suo inizio e nel suo arrivo inconcluso all’Essere, non altrettanto può dirsi del suo periodo precritico: l’Essere è il punto di partenza del percorso critico come il punto centrale non tematizzato in un’opera specifica della metafisica critica, è l’idea di confine a un tempo positiva in quanto generatrice, e negativa in quanto la morte di Carabellese, pur riempendo lo spazio speculativo dall’Essere diremmo verso il basso – e neppure tutto -, pure ha lasciato vuoto in termini speculativi (ossia non sistematizzato) non solo l’Essere stesso in sé, ma anche il percorso inverso (ciò che precede l’Essere come sua origine), e la coppia Essere-Non Essere. Questo risalire a monte dell’Essere è il percorso che si apre dopo Carabellese. Egli è giunto all’Essere con l’intuito che lo ha guidato lungo tutto l’arco della sua ricerca (l’intuito come potenza, affrontato in diversi articoli tra il 1907 e il 1912, a partire dalla Tesi di Laurea in Filosofia, La teoria della percezione intellettiva in Antonio Rosmini[384]), testimoniato dal suo pensiero  e appunto dal continuo ricorso a Rosmini come suo maestro. In questo senso si può dire che il periodo precritico di Carabellese è irrisolto, e dunque che il patrimonio da lui lasciato non è concluso, poiché si pone il compito di investigare in termini sia gnoseologici sia trascendentali sia metafisici sia teologici il percorso dall’intuito dell’idea dell’Essere all’Essere in sé, e in una metafisica veramente positiva, di dire e cosa precede logicamente l’Essere come sua origine assoluta e in che  rapporto è l’Essere col Non Essere – che solo in un livello molto più basso è se si vuole il Nulla inteso come Male – come presenza positiva. Un lascito carabellesiano che deve investigare il binomio Intuito Essere,  ossia tornare sul problema dal quale aveva preso l’avvio il suo percorso filosofico: l’intuito – sintesi di “ratio e inventio” -, importante principio generatore della storia del suo pensiero. Pertanto una riflessione sul valore dell’intuito in Carabellese, punto di partenza e strumento di indagine del suo pensiero su quell’Essere che è arrivo da sviluppare della sua metafisica critica, e che Carabellese sceglie di considerare punto di origine del suo percorso critico, è ancora tutta da scrivere.

Consideriamo valide queste nostre riflessioni tendenti ad abbracciare con un unico sguardo tutto il pensiero filosofico di Carabellese, anche nel c.d. periodo metafisico, nonché negli sviluppi possibili che a partire dalla sua metafisica si aprono dopo di lui: si è preso in considerazione qui soltanto il c.d. “periodo critico” di Carabellese. Pertanto i confini all’interno dei quali ci si è situati dal punto di vista storiografico sono quelli interni delimitati dal “periodo precritico” da un lato, e dal “periodo metafisico” dall’altro, che sono esclusi, se non per brevi cenni e incursioni, dalla trattazione – è chiaro che tali delimitazioni, per quanto suffragate da Carabellese stesso, sono da considerarsi se non arbitrarie, quanto meno interne alla continuità e unitarietà   di un pensiero che si è però visto in progressione dinamica, e che consente anche nuovi sviluppi. In più di un caso perciò vi sono, come si è visto, delle trasgressioni a tali confini storici, resesi necessarie per una migliore comprensione del pensiero carabellesiano.

I confini teoretici, invece, si situano a cavallo tra gnoseologia, ontologia, filosofia trascendentale, metafisica e soprattutto teologia, il cui senso è da intendere, e non soltanto si muovono nella direzione di trasformare in fisica la metafisica, spostando di quest’ultima in avanti i confini – il limite della ragione kantiana che trasforma il possibile in reale -, lasciandole nuovi più profondi quesiti da risolvere, ma pure, tali confini teoretici sono da considerarsi in connessione, se è vero  che a rigore a un determinato livello dell’Essere è impossibile scindere (come Carabellese stesso testimonia con la sua concezione della Coscienza), se non a posteriori, gnoseologia e metafisica. In particolare già nel primo Carabellese l'indagine sulle condizioni  di possibilità  della conoscenza costituisce il punto di apertura del  discorso metafisico, e in ogni caso il livello gnoseologico è uno dei possibili livelli di lettura, il primo, anche della sua metafisica critica, laddove è da sottolineare nuovamente che per lui essere e apparire sono unum et idem, e che appunto la battaglia del suo periodo ontologico consiste nel superamento della scissione tra essere e conoscere, e tra essere e fenomeno, in una impostazione che lo condurrà a un realismo metafisico distinto da quello neoscolastico, ma che lo ri-comprenda nella direzione del realismo posthegeliano. D’altro canto, l’importanza della connessione tra gnoseologia e metafisica è sottolineata da un critico  dell'epoca di Carabellese, Devizzi: la gnoseologia costi­tuiva  in  generale già prima di Carabellese il terreno di scontro apparente tra diverse scuole filosofiche in vista di più profonde lacerazioni che riguardavano la concezione metafisica della realtà, e che dunque essa gnoseologia,  implicando  il problema  dell'oggettività  della conoscenza e quello del rapporto tra verità e  certezza, sottintendeva diverse concezioni di Dio[385].

Se dunque l’Essere è il livello pregenetico e poi postgenetico sia in senso metafisico che teologico che spirituale tout court, anche se il Vecchio Testamento lo pone come postgenetico perché vi antepone Dio come Persona e la Genesi stessa, esso è in Carabellese, che appunto nelle dispense non tematizza il Nulla né positivo né negativo, il primo dei livelli in cui si attua il sistema della Ragione Assoluta. Perciò è possibile dare alla teologia metafisica carabellesiana nuovi sviluppi, perché essa non si pone soltanto come punto di arrivo dell’ontologismo critico, ma come nuovo punto di partenza per la costruzione di una nuova metafisica critica oltre kantismo e hegelismo, si è detto nella direzione di un neorazionalismo assoluto: una nuova metafisica della Ragione Assoluta che trasformi l’infinitum finito potenziale di cui parla Carabellese in infinitum finito in atto – pena la non realizzazione della Sostanza -, è possibile se si includono nel sistema della Ragione Assoluta anche elementi apparentemente irrazionali quali, per Carabellese, al livello spirituale umano, l’arte, il sentire e il sentimento, e siamo certi che un prosieguo della sua ricerca avrebbe riguardato anche la fede e l’intuito, così come ha riguardato al livello metafisico il caso, il destino, il fato, su cui Carabellese ha scritto bellissime e densissime pagine ne La Dialettica. L ’inclusione dell’irrazionale nel razionale, o meglio l’allargamento del concetto di razionalità in direzione posthegeliana significa concludere da un lato il ciclo che va dal Nous anassagoreo alla sua manifestazione nel Concreto passando per l’Illuminismo – ma si è già notato che il Disegno inizia da radici orientali e non greche o ebraiche -, dall’altro il ciclo illuministico stesso come fede nel progresso della Ragione.

In tal modo, quello di una razionalizzazione dell’irrazionale, la Storia diviene  Storia della Ragione Assoluta ab e in infinitum, ossia nello spaziotempo, da distinguere da ab ed in aeternum, che richiedono e presuppongono il solo tempo. Ciò, nello spirito di Carabellese, per giungere al Regno dei puri spiriti o Regno dei Fini, in cui la Storia – uscendo dal processo - diviene Metafisica, e la Metafisica si identifica con la Teologia[386]. Il ricchissimo lascito carabellesiano consiste allora nel radicalizzare e oltrepassare l’esperienza sensibile e quella intellettuale nel loro diritto e nel loro fatto per aprire con la speculazione il campo dell’esperienza razionale e dei suoi tre oggetti: qui si saldano neokantismo e neohegelismo carabellesiani nel neorazionalismo che noi oggi dobbiamo continuare. Definire Carabellese neokantiano è possibile solo se si comprende che la ripresa della questione kantiana della possibilità dell’esperienza implica un diverso concetto di esperienza e un suo diverso e più largo campo.  Perciò inscrivere il percorso di Carabellese – il quale non a caso si pone il problema della scienza concreta né a posteriori né a priori, ma dimostrativa – in tale sviluppo della scienza è possibile se retroattivamente si rompono i confini del suo neokantismo e se ne allarga il concetto facendo interagire Kant e Hegel, dal momento che la sua meta finale è una teologia metafisica e critica, per non dire, a nostro parere, un teismo, che nel periodo critico si interroga sulla possibilità teoretica, e cerca una risposta relativa al contenuto reale, delle tre domande kantiane su Dio, Io e Mondo, ciò non è possibile se non tenendo conto dell’importante cammino compiuto dalla filosofia con l’hegelismo, al di là della polemica che pure ci fu tra Carabellese e il neoidealismo italiano, in particolare di Gentile, che semmai fornisce elementi di comprensione del suo pensiero.


[1] Carabellese parla, in singolare consonanza col Dilthey delle Idee per una psicologia descrittiva e analitica, del 1894, di uomo intero che sente, vuole, conosce, ma se allarga a tutte le sfere dell’esistenza dell’uomo il concetto di soggetto, pure lo devìa in direzione decisamente metafisica.

[2] In questa nostra stessa direzione sembra andare Marco Sgarbi, La logica dell’irrazionale. Studio sul significato e sui problemi della Kritik der Urteilskraft, Mimesis, coll. Morphé, Milano-Udine, 2010.

[3] Ma in  Carabellese ritroviamo una particolare impostazione di quest’importante elevazione a strumento euristico del rapporto tra ratio inventio come intuito dell’essere ideale: afferma infatti egli a p. 88 del suo L’essere e la sua manifestazione, riferendosi a Rosmini: “Finché questo essere ideale non si fa intrinseco e costitutivo anche di chi lo ricerca, finché si ammette questo ricercante come avente una sua propria costituzione reale, cui viene ad aggiungersi dal di fuori, per intuito, l’essere ideale, l’attività spirituale di questo ricercante sarà inficiata alla sua base reale, mancante proprio di quell’essere che deve costituire la sua ricerca.” Cfr. P. Carabellese, L’essere e la sua manifestazione, Parte Prima La dialettica delle forme, con Saggio introduttivo di Furia Valori, ESI, Napoli, 2003. 

[4] E’ da approfondire il concetto di essere come flusso, dal momento che si può pensare sia che il flusso in cui il soggetto si trova si “distende” muovendosi insieme al soggetto – e in questo caso come negli altri è da stabilire direzione e forma del moto del flusso -, sia che il flusso stesso -  ma allora sarebbe flusso solo se lo si considerasse in moto in uno spazio fisso all’interno del quale tale flusso dell’essere si muove -,  si muova con all’interno un soggetto che esso stesso si muove a suo volta avanzando nel flusso, come nella teoria dei moti sommati della relatività einsteiniana. In altre parole c’è da chiedersi se i moti sono due – quello del flusso e quello del soggetto al suo interno -, il che significa che non c’è coincidenza, o corrispondenza, almeno attuale tra moto del flusso e moto del soggetto, oppure se tra i due moti esiste corrispondenza coincidente, al punto da poter radicalmente essere considerati un moto solo, come corrispondenza assoluta dei due moti, il che non appare se non nel senso dell’Io. Nel penultimo caso, in cui il moto del flusso è fisso rispetto al soggetto al suo interno ma non in sé, a meno di sconfessare il concetto stesso di flusso è necessario considerare evidentemente un terzo livello dell’essere, quello in cui il flusso stesso si muove, e per potersi muovere deve farlo in uno “spazio” , o meglio uno spazio-tempo, a sua volta fisso, a meno di non moltiplicare il problema all’infinito. Qui è necessario  porre il problema che se c’è uno spaziotempo fisso, e fisso rispetto, o relativamente, al moto del flusso e del soggetto, tale spaziotempo dovrebbe essere anche fisso in sé, o anche rispetto ad un eventuale Soggetto che lo osservi, il che potrebbe anche significare l’identificazione tra tale spaziotempo e tale “Soggetto”. E’ chiaro che il discorso non ha semplici implicazioni fisico-geometriche – a meno da non intendere come qui si fa la Geometria in senso reale – ma teo-logico-metafisiche, dal  momento che qui per flusso si intende il divenire o Storia, per soggetto il pensante, vivente o no, e per  “Soggetto”  l’Assoluto. Tutto questo discorso si inserisce sempre nel progetto della decodificazione della Ragione Assoluta.

[5] Devo a Gerschom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino, 1982, III ed. 1993, p. 17, questa importante definizione di Tommaso, nonché la possibilità di collocare e definire l’esperienza vissuta in termini mistici di ascesi della coscienza, nello spirito, prima ancora che di Carabellese e poi di Moretti-Costanzi, del pensiero teologico ebraico, che rinviene il significato della reincarnazione in molteplici vite, il cui arco di tempo può anche essere lunghissimo, nel tentativo non necessariamente riuscito in ogni vita, di elevarsi attraverso cinque livelli di ascesi sino all’annullamento in Dio. Ringrazio a questo proposito il già maestro di culto della Comunità ebraica di Napoli, Pierpaolo Punturello, per le interessanti conversazioni teologiche, e vorrei citare, dello studio di Emilia D’Antuono, Ebraismo e filosofia. Saggio su Franz Rosenzweig, Judaica, Guida Editori, Napoli, 1999, la felice espressione di “tirannide del logo”, con cui titola il par. Dal primato del conoscere alla tirannide del logo del cap. I Dalla morte. L’esodo della filosofia, p. 26 sgg. In questo senso qui si interpreta la tirannide del logos come uscita  e toglimento del logos occidentale, che significa suo allargamento e elevazione in vista, ci permettiamo di ambire con l’immaginazione, di una sua dimensione cosmica.

[6] Non sembri peregrina questa nostra incursione nel Brahmanesimo: lo stesso Carabellese fa iniziare la sua originale reinterpretazione di storia della filosofia, il Disegno storico della filosofia come oggettiva riflessione pura, dal Brahmanesimo, e precisamente dal rito che mette in comunicazione l’Athman con il Brahman, il Dio Assoluto impersonale. Ciò anche se a nostro parere, nonostante questi ultimi studi carabellesiani di fine anni Quaranta in Italia possano agevolmente essere considerati innovativi nella scia degli studi storico-religiosi rivolti a Oriente, soprattutto per il loro fine filosofico atto ad allargare il quadro del pensiero, essi si mostrano, probabilmente perché in fieri e interrotti dalla morte, soprattutto con un intento ancora molto legato a un’ottica ancora novecentesca di centralità dell’Occidente cristiano cui tutto il volume – che infatti si interrompe nonostante le intenzioni ad Agostino -, così come si potrebbe dire tutto il suo pensiero, resta ispirato, benché Carabellese indichi del cristianesimo con precisione i limiti, di fatto imboccando la strada che ne rende possibile l’uscita con la messa in valore, oltre che dell’ebraismo e della filosofia greca incentrata su Parmenide, appunto del rapporto diretto Io-Dio che si ha nel rito Brahman-Atman, risalente a duemila anni prima di Cristo. E’ cioè chiaramente visibile l’operazione carabellesiana di rinvenire nel Brahmanesimo, come coscienza dell’Assoluto, il primo nucleo di quella storia dell’Assoluto che in Occidente si concreterà in quella che Hegel chiama autocoscienza dell’Assoluto, nucleo primo che si ha nell’osmosi tra religione e filosofia (tra sacro e saggio) che non è che teologia come pensiero dell’Assoluto su se stesso. Cfr. P. Carabellese, Disegno storico della filosofia come oggettiva riflessione pura, raccolta dei corsi universitari 1944-45, 1945-46 e 1946-47, Castellani, Roma, 1947, 2 voll.: vol. I: Filosofia orientale e greca, vol. II: Filosofia del Cristianesi­mo, II ed. postuma in un solo volume a cura di Raniero Sabarini per l'Editoriale  Arte e Storia, Roma, 1953.

[7] Vorremmo qui citare il breve saggio di Walter Belardi, Dal “Non essere” parmenideo all’”alterità” platonica: un caso di paralogismo verbale, in AA. VV., “Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche”, “Rendiconti”, A. CCCXCIV – 1997, Serie IX, Vol. VIII, fasc. 4, Roma, pp. 633- 47, in particolare in riferimento al considerare Platone il Nulla positivo d’essere, e precisamente, in riferimento a Russell, come Nulla “operativo” in cui lo zero è “potenza”. Vorremmo inoltre notare la strana coincidenza che ciò che Russell definisce termine, ossia ciò che è numericamente identico a se stesso e numericamente – ma non qualitativamente - diverso da tutti gli altri, può esser certamente riferito al concetto di io come Termine del Principio in Carabellese.

[8] P. Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione cit.,  p. 379.

[9] L’interpretazione di Kant avviene a partire dal 1923 e fino almeno al 1943, con un prolungato e approfondito studio di tutta l’opera di Kant, dovuto all’esigenza di mettere a fuoco in modo via via sempre più consapevole e articolato l’interpretazione del Kant metafisico.  L’interpretazione di Kant avviene non soltanto attraverso le traduzioni, le note e i commenti agli scritti kantiani: a partire dal 1923, egli cura infatti gli Scritti minori, nel ’23 appunto (I. Kant, Scritti minori, a cura, con Introduzione e note di P. Carabellese, Laterza, Bari, 1923, II ed. riv. e accresc. da Rosario Assunto e Rodolf Hoenemser col titolo Scritti precritici, Laterza, Bari, 1953, che è quella a cui si fa riferimento), i Prolegomeni, nel ’25 (I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, a cura di P. Carabellese, Laterza, Bari, 1925), e la Metafisica dei costumi, nel ’36 (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cura, traduzione e commento di P. Carabellese, Sansoni, Firenze, 1936). Ma la ripresa di Kant avviene anche attraverso lo studio approfondito di tutta l’opera di Kant, studio che ci ha lasciato opere come La filosofia di Kant, unico dei quattro volumi progettati, del 1927 (P. Carabellese, La filosofia di Kant. I. L’idea teologica, Vallecchi, Firenze, 1927), o Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni, del ’28 (P. Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni. I. Kant, Trimarchi, Palermo, 1928), o Il problema della filosofia da Kant a Fichte, del ’29 (P. Carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), Collana Quaderni di Filosofia e Storia diretta da Vito Fazio Allmayer, Trimarchi, Palermo, 1929), o Il problema della filosofia in Kant, del ’38 (P. Carabellese, Il problema della filosofia in Kant, La Scaligera , Verona, 1938), e infine La filosofia dell’esistenza di Kant, cui ha dedicato tre anni di corsi universitari dal 1940 al 1943 (P. Carabellese, La filosofia dell’esistenza in Kant, dispense universitarie dattilografate Soc. An. AA. AA. 1940-41, 1941-42, 1942-43, Castellani, Roma, 3 voll., poi rist. postumo in un unico volume col titolo La filosofia dell’esistenza di Kant, pubblicato dall’Istituto di Filosofia dell’Università degli Studi di Bari, a cura e con una Nota Introduttiva di G. Semerari, Adriatica ed., Bari, 1969). Opere tutte, citate in rigoroso ordine cronologico, che costituiscono un lungo ciclo di studio dovuto all’esigenza di mettere a fuoco il Kant metafisico, che Carabellese considerava il vero Kant. C’è inoltre da notare che alcune delle opere carabellesiane sono rimaste ferme al solo primo volume, quello sul Kant teologico precisamente, essendosi evidentemente esaurito dopo di esse l’interesse precipuo che muoveva Carabellese verso l’opera: si pensi soprattutto a quel La filosofia di Kant. I. L’idea teologica, appunto rimasto fermo, dopo l’iniziale progetto di altri tre volumi, al solo primo sulla teologia, visto come punto di partenza per la fondazione della metafisica critica (il che spiega perché anche altre opere carabellesiane che si presupponeva avessero un seguito si fermavano tutte al solo volume su Kant, come Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni. I. Kant).   

[10] Secondo il Carabellese dell’Introduzione  agli  Scritti precritici, II ediz. Riv. E accresc. da R: Assunto e R. Hoenemser cit., pp. VI-VIII, in prima stampa Idem, Scritti minori, a cura, con Introduzione e note di P.Carabellese cit., tutto il pensiero precritico di Kant, che egli seleziona e raccoglie secondo questa prospettiva nell’opera citata, non è altro che la continua  e varia riproposizione secondo diverse chiavi di lettura dello stesso problema metafisico incentrato nelle tre idee di Dio, del mondo e dell’anima, rispettivamente affrontate nell’Unico argomento, nella Monadologia phisica, nella Dottrina del moto e della quiete, nel Primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, e infine nei Sogni di un visionario. Ne La filosofia dell’esistenza di Kant, cit.,  Carabellese afferma che già nei Sogni di un visionario, del 1766, Kant ribadisce la distinzione tra possibilità concettuale e sperimentabilità a proposito del problema dell’esistenza degli spiriti, nature spirituali non sperimentabili ma non perciò impossibili. Per Carabellese la pluralità dell’esistente singolare implica però che alla singolarità non appartenga la sostanza: l’esistenza non è sostanza proprio perché non è unicità e inseità ma pluralità e relazione. Non si può non vedere qui la vicinanza non soltanto con tesi dell’aristotelismo (per quanto Carabellese sia sempre molto critico nei confronti di Aristotele), ma anche con le concezioni che lo stesso Carabellese svilupperà a proposito della sua teoria dell’io molteplice, e della sua teoria della sostanza, cui dedica una sezione de L’essere e la sua manifestazione.

[11] Ne Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit, pp. 11-29,  già dunque negli anni Venti, Carabellese, ponendosi in consonanza con una consolidata tradizione storiografica che vede la filosofia moderna come filosofia del conoscere, afferma che, come si evince già dalla Dissertazione del 1770: “Kant dunque non si propone di uccidere la metafisica […] ma di farla essere quale deve […] <<scienza apriori del soprasensibile>>”, e che dunque bisogna oltrepassarlo.

[12] Dell’impostazione del Carabellese metafisico, e del passaggio tra periodo critico e periodo metafisico, vorremmo solo sottolineare che il confine, sebbene precisamente rintracciabile in quel 1931 della pubblicazione de Il problema teologico come filosofia, non è tale da poter essere considerato un taglio netto che sposti l’asse da un Carabellese neo o postkantiano a un Carabellese  posthegeliano: in realtà noi vediamo in tale punto preciso dell’itinerario carabellesiano – il 1931, come è stato detto da Edoardo Mirri (Cfr. E. Mirri, Introduzione, a  P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, I ed. pubblicazione della Scuola di Filosofia della Reale Università degli Studi di Roma, Tip. Del Senato G. Bardi, Roma, 1931, rist. anast. post. con lo stesso titolo a cura di E. Mirri, Pubblicazioni dell’Università di Perugia, Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994) - non uno spostamento che chiude il kantismo di Carabellese in direzione hegeliana, bensì la ricomprensione del patrimonio hegeliano nell’ottica postkantiana, che prevede non scissione ma continuità con la fase precedente, per cui Carabellese può essere considerato al tempo stesso postkantiano e posthegeliano. Ciò proprio a partire dal suo esplicito progetto, che però dovrebbe essere storicizzato ai suoi ultimi anni di vita, di costruzione di una metafisica critica, ossia di un sistema che inglobi soluzioni e problemi posti sia da Kant che da Hegel, facendoli interagire in un sistema assolutamente originale, il cui asse è perciò individuabile nell’asse Kant-Hegel-Carabellese.

[13] La prima a parlare di un rapporto circolare Dio Io è Furia Valori, in vari luoghi dei suoi scritti su Carabellese, tra i quali l’ultimo è Furia Valori, Fede e filosofia in Pantaleo Carabellese, in AA.VV., La ricerca di Dio, a cura di Edoardo Mirri e Furia Valori, Quaderni dell’Istituto di Filosofia, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze della Formazione, Edizioni Scientifiche italiane, Napoli, 1999, p. 193, dove Valori rimanda anche al suo L’argomento ontologico: il circolo carabellesiano, in AA.VV., Filosofia in dialogo, a cura di Franco Fanizza e Mario Signore, Roma, Pellicani Ed., 1998, pp. 581-606.

[14] Pantaleo Carabellese, L’Essere e il problema religioso. A proposito del “Conosci te stesso di Bernardino Varisco, Laterza, Bari, 1914.

[15] Sui rapporti tra Essere e Dio, vorremmo ricordare di Giorgio Penzo, Essere e Dio in Karl Jaspers, 1971.

[16] Tutto il nostro studio sottende una considerazione realistica della geometria, e intravede nelle teorie ed elaborazioni concettuali di Carabellese una passibilità di traduzione in termini geometrici. Ci si soffermerà a questo scopo più volte sulla figura della croce, sottesa a nostro parere in molte sue accezioni a molto del pensiero di Carabellese. Qui si fa riferimento al circolo, figura geometrica per eccellenza, e vorremmo in quest’ambito di riflessione, vastissimo e agli inizi, ricordare lo studio di Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna, 1968.  

[17] Pantaleo Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione cit.. Quel Parte I La dialettica delle Forme fa riferimento a L’Essere. Parte II: io, con la minuscola, che va a concludere il sistema, che noi abbiamo ipotizzato quadrangolare, o, se si vuole,  ellittico.

 

[18] La teoria dei distinti, e il concetto di distinto, attraversa tutto il pensiero del Carabellese maturo, ed è molto importante ai fini di una giusta comprensione del suo pensiero. “Distinto” è differente da diverso: implica al contrario non un’assoluta estraneità, ma un rapporto di implicazione, e in alcuni casi di coimplicazione. Così ad esempio, Dio è distinto dall’Io, così come il Vero è distinto dal Bene e dal Bello (facciamo riferimento al Carabellese metafisico), ma pure Bene, Vero e Bello trapassano l’uno nell’altro, sono in rapporto di reciprocità e penetratività (altre categorie fondamentali nel pensiero di Carabellese), così come Dio e Io sono l’uno Oggetto e l’altro Soggetto, anch’essi in rapporto, in questo caso di coimplicazione, perché posti sullo stesso livello dell’Essere. Così ancora, l’io di ciascuno è distinto da quello di ciascun altro, ma non diverso, perché ciò implicherebbe assoluta estraneità, solipsismo,  impossibilità di comunicazione, e di comunione, oltre che di scambio e di crescita. Anche qui il rapporto è sullo stesso livello, e dunque di coimplicazione reciproca. In altre parole la categoria di distinzione implica la possibilità di un rapporto diretto tra i distinti, come quello principe, quello tra Principio e termini. In questo caso però non si può parlare di coimplicazione bensì solo di implicazione, perché se il Principio implica i termini, non i termini (se non nel significato di immanenza) implicano il Principio: il Principio è superiore ai termini, seppure all’interno di un rapporto diretto. A questo proposito vorrei ricordare che nella teologia ebraica Kadosh significa Distinto, ed è uno dei nomi con cui si indica Dio, per cui Dio è distinto dal cosmo e dall’io, ma non il cosmo, né l’io, sono distinti da Dio. In questo caso dunque il rapporto, pur essendo di implicazione, non è di coimplicazione, ossia non è reciproco nel senso dello stesso livello: Dio, il cosmo, l’io sono su livelli diversi, in cui il primo comprende gli altri, ma non viceversa.

[19] Pantaleo Carabellese, La teoria della percezione intellettiva in Antonio Rosmini, con Prefazione di Bernardino Varisco, Edizioni Dante Alighieri, Bari, 1907.

[20] L’itinerario carabellesiano si chiude col sistema dell’Essere, oggettivato nelle dispense da pochi anni edite a cura dell’Università di Perugia, ma che ho già citato nelle primitive edizioni litografate ad uso degli studenti di Carabellese stesso, e che qui ricito perché si comprenda bene sia la successione del loro apparire in stampa sia la differenza fondamentale che io ho rinvenuto sia tra Io e io sia tra Essere e manifestazione. Perciò, ricordo,  L’Essere e la sua manifestazione. Parte I: L’Essere nella dialettica delle forme. Lezioni di filosofia teoretica; vol. II La dialettica. Lezioni di filosofia teoretica; vol. II La realtà e l’attività spirituale umana. Lezioni di filosofia teoretica; dispense universitarie dattilografate, AA.AA. 1943-44; 1944-45, 1945-46, Università degli Studi di Roma, Castellani, Roma, 3 voll.; e L’Essere Parte II  io, dispensa universitaria dattilografata, A.A. 1946-47, Università degli Studi di Roma, Castellani, Roma.

12 Il problema del continuo, da intendere in Carabellese nel senso di manifestazione continua o di rivelazione continua dell’Essere, è sotteso a tutta la sua metafisica, e ci ha guidato come strumento euristico e categoria interpretativa tra altri. Ma il problema del continuo è com’è noto sotteso a tutta la storia della filosofia almeno a partire da Zenone, e riguarda non solo Carabellese, ma anche ad esempio Leibniz. Infatti il Leibniz epistemologo e fisico teorico utilizza la categoria metafisica di continuo, che esprime anche nel fondamentale assunto che “la natura non fa salti”, apriori sintetico tuttora vivo e applicato nell’elaborazione scientifica contemporanea. Perciò il problema del continuo è molto complesso ed estremamente sfaccettato, sia per livello che per ambito, ma soprattutto per l’interazione tra livello euristico e livello ontologico. A partire da questo problema, noi vediamo perciò la possibile connessione tra più ambiti di pensiero ad ora separati, e sarebbe interessante comprendere, in base a questo concetto, il rapporto che lega fisica, metafisica e matematica (pure o teoriche), rapporto nel quale il continuo è da interpretare nel senso di un possibile “ponte” (tutto da costruire) tra questi tre ambiti del pensiero. A nostro parere, uno dei  problemi è quello di individuare il criterio secondo cui è possibile teoreticamente – e non contraddittoria logicamente - la continuità interna a una serie gerarchica di continui a loro volta finiti. Come si vede, la tematica, che è di carattere metafisico, rompe i confini disciplinari della sola metafisica, o meglio comprende nel suo abbraccio più ambiti, e, anche per il suo essere in connessione col concetto di infinito,  riguarda anche, oltre alla matematica, la fisica e in particolare la cosmologia e l’astronomia, giungendo alla teologia. Pur mantenendoci nei limiti dell’epistemologia della scienza esatta, ossia al livello specificatamente teoretico, e non sconfinando nella scienza applicata, si deve perciò guardare il problema del continuo come un problema metafisico che ha livelli crescenti di approccio e di realtà, ed è infatti in questo senso che ci interessa specificamente in Carabellese, dal momento che in lui la cosmologia sconfina, com’è ovvio, nella teologia, oggetto del nostro studio. Nel nostro specifico disciplinare, oltre ai classici dell’epistemologia filosofica Ernst Cassirer, Sostanza e funzione. Sulla teoria della relatività di Einstein, La Nuova Italia , Firenze, 1973, e Idem, Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza, Vol. II Da Bacone a Kant, Tomo primo. Gli inizi dell’empirismo. Continuazione e compimento del razionalismo, Libro quinto. Capitolo II. Leibniz (punto di riferimento essenziale per il dibattito per la sua differenza tra infinito potenziale e in atto e per il calcolo infinitesimale, che sottende appunto il problema del passaggio da un discreto all’altro, passaggio già vivo come questione ai tempi di Zenone), pp. 153-221,  vorremmo appunto prendere le mosse da Aldo Masullo, Il problema del continuo nel pensiero di Zenone di Elea e di Aristotele, Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1956, per poi proseguire con Imre Toth, I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, Bibliopolis, Napoli, 1994, IdemAristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, Vita e Pensiero, I ed. 1994, II ediz. 1998, Idem, De interpretazione. La geometria non-euclidea nel contesto della oratio continua del Commento a Euclide, La Città del Sole, Napoli, 2000.  Per quanto riguarda l’ambito delle scienze esatte, per ora la bibliografia si ferma a Jules-Henri Poincaré, La scienza e l’ipotesi, Introduzione, traduzione e note di Clara Ciapetti Angelini, Classici della filosofia, Signorelli, Roma, 1976 (anche in edizioni Dedalo, Bari, 1989), Idem, Scienza e metodo, Biblioteca Einaudi, Einaudi, Torino, 1997, e ancora Idem, Il valore della scienza, e anche IdemOpere epistemologiche, a cura di Giovanni Boniolo, vol. I, Capitolo Secondo La grandezza matematica e l’esperienza,pp. 71-82, Piovan Editore, Abano terme, 1989, e poi di Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito,  I ed. it. Feltrinelli, Milano, 1970, IV 1981, mentre in ambito matematico troviamo di Hermann Weyl, Il continuo. Indagini critiche sui fondamenti dell’Analisi, Bibliopolis, Napoli, 1977, di Willem Kuyk, Il discreto e il continuo, Boringhieri, Torino, 1982, J. Paul Cohen, La teoria degli insiemi e l’ipotesi del continuo, Feltrinelli, oltre alla Rivista americana “Continua”, che in rete riporta il dibattito in corso e gli interventi a un Convegno di matematica sull’argomento. Ma qualche indicazione – seppure improntata alla tesi del discreto, e relativa soprattutto alla fisiologia e alle scienze naturali -, oltre che una piccola bibliografia straniera e rimandi ad altre voci, si può trovare in Jurij Ivanovic Manin, Continuo/discreto, voce dell’Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino, 1978, 15 voll., vol. 3, pp. 963-86.  Vorremmo segnalare infine, del cibernetico Giuseppe Trautteur, l’inedito Analog Computation and the Coninuum-Discrete Conudrum, Napoli, 2000. Al  problema del continuo è ispirata la mia traduzione qui sul web edita dal latino dell’inedito di Leibniz sulla causa e l’effetto. 

[22] Cfr. A. Devizzi, La critica di P. Matteo Liberatore all'ontologismo, in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia, tenutosi a Firenze dal 21 al 25 ottobre 1940 e promosso dal Reale Istituto di Studi Filosofici, Secondo Tema: La critica di fronte all'ontologismo, Bocca, Milano, 1941, pp. 331-34.  

[23] A un senso positivo del Nulla, lontano dal nulla esistenziale e negativo dell’esistenzialismo che Carabellese critica come foriero di angoscia e di annullamento del valore e del pensiero, di nichilismo (significato limitato e limitativo), e da intendere viceversa positivamente come Nulla metafisico spirituale e pieno – da cui deriva il Nulla fisico che permette la Creazione -, è vicino il pensiero teologico ebraico, per il quale Dio è Nulla, cosicché tutto parte dal Nulla e ritorna al Nulla. In questo senso dell’inizio e della fine nel Nulla sono da intendersi i cinque livelli dell’ascesi di coscienza a cui si è accennato.  

[24] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., del 1931.

[25] IdemIl rinnovamento della filosofia italiana, in Id., Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico, per il progetto poi abbandonato (fu ristampata ancora soltanto la Critica del Concreto nel 1948, la cui prima edizione era del 1921 per la Libreria Pagnini di Pistoia)  dell'ediz.  delle Opere complete di Pantaleo Carabellese, Serie III: Ricerche storiche, Sansoni, Firenze, 1946, p. 287. Nella prima edizione, del ’21, della Critica del Concreto, è ristampata: “L’attività concreta. Introduzione allo studio del Bene”, 1920. La Critica del Concreto ebbe anche una II  ediz. riv. presso la casa ed. Signorelli, Roma, 1940. La III ed., che è quella cui si fa riferimento nel testo, ossia il progetto mai ultimato delle Opere complete di Pantaleo Carabellese, ebbe una I serie: Primi saggi di ontologismo critico, Sansoni Firenze, 1948, in cui sono ristamp. le voci “Certezza”, 1931, “Concreto”, 1931, “Cosa in sé”, 1931, “Astratto”, 1930, “Errore”, 1932, tutte in Grande Enciclopedia Italiana, Treccani.

[26] Sulla concezione della metafisica come scienza Carabellese aveva un pensiero articolato: basti ricordare che ad alcuni rari e importanti luoghi della sua opera in cui parla di metafisica come dimostrazione, se ne affiancano altri, i più, in cui si sottolinea il carattere di sforzo inconcluso del lavoro filosofico, che torna incessantemente sui medesimi problemi per risolvere i nodi che da essi si dipartono. Evidentemente le due tesi non si escludono a vicenda, dal momento che la scienza è continuo sviluppo, se non vuole essere dogmatica. A questo rovello che caratterizza lo stesso pensare carabellesiano fa riferimento il titolo degli Atti del Convegno tenutosi a Molfetta il 5 e 6 dicembre 1977 per il centenario della nascita di Carabellese (1877-1977), AA. VV., Pantaleo Carabellese, il tarlo del filosofare, Dedalo, Bari, 1979, presentazione di B. Finocchiaro

[27] La natura soggettivo-oggettiva di cui parla Furia Valori a proposito di Dio in Carabellese è lettura che in parte condivido (credo che Dio in Carabellese, come si è già detto, non sia quello di cui si parla nella Dialettica delle forme, e che secondo me fa riferimento non solo e non tanto a Dio quanto alla coppia circolare Dio Io, ma quello che riguarda il livello dell’Essere – e non quello della sua manifestazione -, e sul cui livello assoluto nel senso di sapere l’Assoluto Carabellese non ha scritto, ma coi suoi studi sul bramanesimo stava riflettendo). A partire da questa lettura si può giustamente parlare ancora di un Dio Persona in Carabellese, oltreché di un Dio oggettivato nelle forme in cui l’io lo conosce e lo nomina. In questo senso, quello che vede questo livello di Dio nella coppia circolare Dio Io, si può inoltre a ragione parlare ancora di dualismo soggetto-oggetto con cui si può leggere il rapporto circolare Io Dio non soltanto nell’Essere di Coscienza puro ma anche nella Coscienza qualitativa.

Vedi F. Valori, Saggio introduttivo a P. Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione. Parte Seconda. Io, Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze della Formazione, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998, passim.

[28] I nostri studi ritornano su questo punto più volte, qui nel significato che l’esperienza a priori è innalzata sul piano metafisico come esperienza di Dio, nel senso del genitivo soggettivo: vedi L’Essere nella dialettica delle forme, passim, e anche lo schema grafico finale dell’opera, da leggere tridimensionalmente nello spazio, e niente affatto come superficie apparirebbe.

[29] Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia. L’ontologia critica di Pantaleo Carabellese, p. 12, come per la citazione successiva, e, per tutta l'argomentazione, p. 11 sg. Semerari, ricordando come già nel 1942 Augusto Guzzo esprimeva la stessa esigenza di dar rilievo al pensiero di Carabellese, antepone la sua profondità di pensiero e la sua finezza di analisi a quelle dei filosofi "istituzionali" Croce e Gentile, considerandolo "uno dei pensatori italiani più originali della prima metà del secolo": vedi Ibidem, Nota intro­duttiva, pp. I-III, ed anche cap. 4, pp. 86-87.

[30] Il primo a parlare di un necessario rapporto tra Hegel e Carabellese è Edoardo Mirri in Pantaleo Carabellese, L’attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere, dispensa universitaria A.A. 1947-48, Castellani, Roma, 1948 poi riedito postumo con lo stesso titolo (“senza alcune righe iniziali di collegamento con le parti precedenti”, ossia a nostro parere con il corso su L’Essere e la sua manifestazione e con quello su L’Essere, ma aprenti invece anche, come da titolo, a una nuova riflessione  sulla Logica dell’Essere), in “Giornale critico della filosofia italiana” nn.3-4, pp. 261-78; e ancora, sempre postumo e con lo stesso titolo, a cura e con Introduzione di Edoardo Mirri, Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991, pp. 33-36.

[31] Sui rapporti non solo teoretici che intercorsero tra Carabellese e Gentile potrebbe essere fatta una ricerca, mentre io qui mi limiterò a darne pochi spunti per inquadrare meglio il pensiero di Carabellese ai fini della mia ricerca.

[32] Semerari, ricordando come Gentile considerasse il neokantismo “più schietta filologia che filosofia" e ribadisse che l'ideali­smo era "la sola prosecuzione legittima del criticismo kantiano", riprende dal Gentile della Storia della filosofia italiana, Firenze 1969, vol. II, p. 478, un "discorso perentorio, che si poneva come un “aut-aut" e che  "riguardava Filippo Masci, neokan­tiano e primo maestro di filosofia di Carabellese" : "<<Dopo Kant bisogna risolversi: o l'apriori è tutto, e la materia si dilegua “[...] O assoluto idealismo o assoluto realismo. O gnoseologia o psicologia>>.". Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., p. 13, laddove è da notare che in un suo intervento, Fulvio Tessitore ha posto un analogo aut-aut tra ontologia e antropologia. A mio parere, confortato da Carabellese, si tratta di livelli distinti e compresenti sia di lettura che di articolazione dell’essere.

[33] P. Carabellese, Il soggetto universale, in Id., Critica del Concreto, I ed. Libreria Pagnini, Pistoia, 1921, II ed. riv., Signorelli, Roma, 1940, III ed. riv. e ampl. per il progetto dell'ediz. delle Opere complete di Pantaleo Carabellese, Serie I: Primi saggi di ontologismo critico (oltre quest'opera uscì sol­tanto Da Cartesio a Rosmini, 1946), Sansoni, Firenze, 1948, cap. VII, pp. 145- 77, in partc. p. 150, p. 162-63, p. 168, citaz. pp. 148-49, che è quella a cui faremo riferimento. (Nell'ultima di copertina della Critica del Concreto è stampato il piano completo delle opere, di cui alcune inedite).

[34] P. Carabellese, Il neohegelismo italiano contemporaneo, in Id., L'idealismo italiano. Saggio storico-critico, I ed. Loffre­do, Napoli, 1938, II ed. con aggiunte, Edizioni Italiane, Roma, 1946 (che è quella a cui faremo riferimento), cap. VII, n. 1 di p. 135.

[35] E' Carabellese stesso a chiarire nella n. 1 di p. 221 dell'Appendice III La pedagogia nell'attualismo al suo L'idealismo italiano cit., pp. 221-39, quali sono i luoghi del suo incontro col pensiero di Gentile: l'opera La teoria della  percezione intellettiva di A. Rosmini cit., dalla tesi di laurea in Filosofia, con Prefazione di B. Varisco, 1907, e poi i due articoli polemici Intuito e sintesi primitiva in A. Rosmini, in "Rivista di Filosofia", a. III, fasc. I, Formiggini, Modena, 1911, pp. 78-96, e La potenza e l'intuito come potenza nell'ideologia rosminiana, in "Rivista di Filosofia", a. IV, fasc. I, Formiggini, Modena, 1912, pp. 1-36.  Ne L'idealismo italiano invece, dedica all'analisi dell'attualismo il cap. VII Il neohegelismo italiano contemporaneo, pp. 105-136 e l'Appendice III La pedagogia nell'attualismo, costituita da I La pedagogia come filosofia, recensione al I vol. di G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. I: Pedagogia generale, Laterza, Bari, 1913, recensione già pubblicata in "Logos", vol. I, fasc. I, Perugia, 1914, e da II La didattica, recensione al II vol. della medesima opera gentiliana: La didattica, recensione già pubblicata in "Il Conciliatore", a. II, fasc. II,  Torino, 1915. Per i luoghi carabellesiani del rapporto con Rosmini riman­diamo invece al par. su I maestri di Carabellese di questo lavoro.

[36] L'interpretazione carabellesiana di Rosmini è  proprio uno dei motivi più importanti di dissenso e di polemica con Gentile: la polemica Carabellese-Gentile, che risale alle rispettive Tesi di Laurea, riguarda in primo luogo  l'interpretazione carabellesiana di Kant mediata dalla concezione

rosminiana dell'essere e dalla prospettiva masciana di Kant come colui il  quale fonda, come dice Semerari, la formazione coeva del dato e della forma della conoscenza. Per Rosmini bisogna uscire dallo gnoseologismo ed entrare nella metafisica, laddove la formazione coeva del dato e della forma della conoscenza messa in luce da Masci (il quale rappresenta perciò secondo Semerari il primo e più remoto stimolo per il concretismo di Carabellese) veniva interpretata sul piano ontologico dell'essere concreto. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., pp. 13- 17, in partc. p. 14 sg., e p. 24.

[37] G. Gentile, Rosmini e Gioberti, Pisa, 1899.

[38] Per i rapporti teoretici che legano Carabellese a Rosmini, e per un approfondimento del significato dei temi dello scontro Carabellese-Gentile, si rimanda al par. I maestri di Carabellese.

[39] P. Carabellese, Intuito e sintesi primitiva in A. Rosmini cit., p. 79

[40] Carabellese cita per Gentile la Recensione alla sua propria Tesi di Laurea in Filosofia La teoria della percezione intellet­tiva in A. Rosmini, in " La Critica ", Anno VII, fasc. IV, lugl. 1909.

[41] Ibidem, pp. 81-84

[42] P. Carabellese, La potenza e l'intuito come potenza nell'ideologia rosminiana, in "Rivista di Filosofia", a. IV, fasc. I, genn.-febbr. 1912, pp. 1-39.

[43] A questo proposito vorremmo ricordare di G. C. Atzei, S. Babolin, A. Boccanegra, L. Bugliolo, G. Contadini, G. L. Brena, G. Cenacchi, B. D’Amore, C. Fabro, J. B. Lotz, U. Pellegrino, A. Rosso, Il problema del fondamento, Atti del IV Convegno dei docenti italiani di filosofia nelle Facoltà, Seminari e Studentati religiosi d’Italia, Sapienza, Rivista internazionale di Filosofia e di Teologia, Anno XXVI, nn. 3-4, Luglio-Dicembre 1973.

[44] P. Carabellese, Intuito e sintesi primitiva in A. Rosmini cit., p. 89-93, vedi anche n.2 di p. 95, in cui si ribadisce che l’idea dell’ente è fondamento, ed è fondamento del sistema rosminiano.

[45] Cfr. IdemLa pedagogia nell'attualismo, in Id., L'idealismo italiano cit., pp. 222-24

[46] IdemIl neohegelismo italiano contemporaneo cit., p. 109.

[47] Ibidem, p. 110.

[48] Ibidem, pp. 112-15.

[49] Ibidem, p. 116.

[50] Ibidem, p. 123.

[51] Ibidem, p. 125 sg.

[52] Ibidem, p. 127.

[53] Ibidem, n. 1, p. 135.

[54] Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., Nota introdutti­va cit., pp. II sgg.

[55] Ciononostante questo allineamento con gli impulsi più vitali che dentro e fuori d'Italia animavano il passaggio tra Ottocento e Novecento e più ancora il Novecento filosofico europeo non deve far pensare a una figura di pensatore piattamente inserita nell'orizzonte sia pur vivo del suo tempo. Ché anzi i suoi rap­porti teoretici con le linee di tendenza del panorama filosofico italiano dell'epoca furono anche improntati alla presa di distan­za piuttosto che alla ricerca di un terreno comune, quando non piuttosto alla polemica. Sicché può dirsi che, nonostante come si vedrà si possa parlare di un lascito carabellesiano tuttora vivo nei suoi allievi più diretti, nondimeno egli si staglia rispetto alle correnti filosofiche della sua epoca in una posizione di controcanto che ne ha fatto per molti versi un pensatore solitario convinto portatore di una nuova scuola, e che perciò si rispec­chiava con difficoltà in qualsivoglia corrente di pensiero della sua epoca, pur non negando, ma anzi riconoscendo, il suo debito verso quei maestri che identificò come propri.

[56] Cfr. P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., p. 21, conti­nuaz. di n. 1 di p. 20.

[57] Per l'affermazione del vero idealismo come idealismo concreto, si fa riferimento a IdemDa Cartesio a Rosmini cit., p. 249, dove dice "[...] il mio ontologismo critico o idealismo concreto [...]", e p. 254, dove afferma che l'Enciclopedia hege­liana non è "[...] concretamente idealistica [...]."

[58] E' proprio il problema del rapporto tra verità oggettiva e certezza soggettiva, ossia su come sia possibile dal punto di vista soggettivo essere certi della verità oggettiva, quello che secondo Carabellese connota il pensiero moderno  e la cui solu­zione segna la scissione della riflessione filosofica in due distinte linee fondamentali: la linea oggettivistica propria della filosofia dell'essere e la linea soggettivistica propria della filosofia del conoscere, alla quale Carabellese ascrive Cartesio, Kant e Fichte, e nella quale mostra come la linea oggettivistica sia rispuntata qua e là con intuizioni e scoperte poi abbandonate. Ad esempio, in Cartesio è fondamentale la sco­perta del cogito Deum, scoperta metafisica in quanto pone la spiritualità divina nella coscienza soggettiva, ossia la sostan­zialità spirituale in me pensante. Questa deviazione dalla filo­sofia del conoscere dovrebbe spingere Cartesio ad abbandonare l'idea della sostanzialità della materia (la res extensa), che è idea ingenuamente realistica di derivazione scolastica (esse in mente esse in re) e che lo conduce al dualismo. Cfr. M. Anna Rocchi, Pantaleo Carabellese storico della filosofia, Schena, Fasano, 1988, cap. VI, passim.

[59]  Alla concezione carabellesiana della Coscienza abbiamo dedicato un saggio, al quale rimandiamo. Qui ci sembra opportuno anticipare, per la comprensione del nostro discorso, che a proposito dell'identificazione carabellesiana di Essere e Coscienza, Semerari nota acutamente che l'essere non è il realistico essere fuori della coscienza, ma esigenza primor­diale della stessa coscienza, si potrebbe dire esigenza dell'og­gettivarsi dell'Idea. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., Nota introduttiva cit., passim. In questa concezione, e qui più che altrove secondo il nostro punto di vista, si attua la salda­tura del pensiero carabellesiano col pensiero hegeliano che stiamo sperando di mettere in luce, a partire dal concetto di Idea come "Dio prima della creazione", a finire all’io come Quanto dell’Essere passando per il concetto di realtà nel superamento della separazione tra essere e apparire. Ma soprattutto, tornando alla coincidenza-identificazione di un determinato livello dell’Essere con la Coscienza , si dovrebbe intendersi e non confondersi sulla latitudine e il campo semantico da attribuire al termine coscienza in Carabellese, che talvolta è usato in riferimento al soggetto come coscienza soggettiva, talaltra, il più, in ambito prettamente metafisico, come più pregnantemente era nelle inten­zioni di Carabellese: la Coscienza è l'Uno-Tutto, dunque gli uomini appartengono alla Coscienza, e non la Coscienza , ma la coscienza, agli uomini. Il piano trascendentale è sempre risolvi­bile per Carabellese nel piano metafisico.

[60]  Per tutta questa argomentazione si rimanda a P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., passim, poi alle già cit. Prefazione Introduzione, al cap. I, e in partc. alle pp. 38-45 e 50-51.

[61] Mentre secondo la conoscenza comune Bernardino Varisco incen­trò il suo Scienza e opinioni, del 1901, sulla sua prima conce­zione positivistica del problema dell'atto conoscitivo in senso psico-fisico,  Carabellese invece  vede quest'opera come la prima autocritica del Positivismo in Italia, considerando quindi come suo maestro il Varisco spiritualista e antineoidealista espressosi a partire  da La Conoscenza , 1905, ma abbandonandolo poi dichiaratamente nel 1936 soprattutto per il varischiano rigetto, dovuto al raggiunto teismo (con il Sommario di filosofia, 1928, e il postumo Dall'uomo a Dio, 1939) del precedente immanentismo e pluralismo coscienzialistico, che pur salvava l'individualità del soggetto con l'autolimitazione del soggetto assoluto.

[62] Carlini attribuì come maestri a Carabellese Varisco e Gentile, Carabellese rispose che egli si sentiva debitore nei confronti di Rosmini e Kant. Cfr. Armando Carlini, Orientamenti e problemi speculativi del pensiero filosofico nell'età presente, in "Gior­nale critico della filosofia italiana", fasc. 1-2, 1936, pp. 44-45, e P. Carabellese, Risposta a Carlini, in "Giornale critico della filosofia italiana", fasc. 6, 1936, poi rist. come app. VI in Id., L'idealismo italiano cit., II ed., 1946, pp. 275-84.

[63] Si laureò nel 1900 con una tesi in Storia: il relatore era Giuseppe De Blasiis, "patriota e combattente nella guerra di Crimea, Segretario della Società Napoletana di Storia Patria, amico di B. Croce", l'argomento era il papato in età medievale, la tesi fu successivamente pubblicata con il titolo Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti, intuizioni, Sandron, Milano-Palermo-Napoli, 1910. Cfr. M. A. Rocchi, Pantaleo Carabellese storico della filosofia cit., pp. 1-3.

[64] Le virgolette riportano espressioni di G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., in partc. p. 14. Per il rapporto Masci-Carabellese, cfr. Edmondo De Liguori, Il problema interno della filosofia in Pantaleo Carabellese, Bulzoni, Roma, 1988, pp. 25- 29, in cui De Liguori approfondisce il discorso partendo da Semerari.

[65] G. Semerari, “L'ontologismo critico di P. Carabellese. Genesi e significato”, in AA.VV., Pantaleo Carabellese, il <<tarlo del filosofare>> cit., pp. 22 sgg.

[66] Sul pensiero del maestro Carabellese scrisse, come ricorda nella n. 1 p. 241 del suo L'idealismo italiano cit., oltre al già cit. L'Essere e il problema religioso, 1914, anche Il pensiero filosofico di Bernardino Varisco, già discorso pronunciato all'Università di Roma nel 1926 in occasione del Giubi­leo in onore di Bernardino Varisco  a cui partecipò anche Giovanni Gentile, stampato in "Giornale critico della filosofia italia­na", fasc. IV, a. VII, 1926, poi rist. in App. IV a P. Carabelle­se, L'idealismo italiano cit., II ed. 1946, Il pensiero pedagogi­co di Bernardino Varisco, recensione a B. Varisco, La scuola per la vita. Scritti pedagogici, II ed. Venezia, 1927, in "Giornale critico della filosofia italiana", fasc. VI, a. VIII, 1927, poi rist. in Ibidem, Bernardino Varisco, in Annuario della Reale Università degli Studi di Roma, A.A. 1933-34, poi rist. col titolo La personalità speculativa di B. Varisco in Ibidem (i tre saggi, I, II, III, che compongono l'App. IV sono alle pp. 241-63), e infine Bernardino Varisco, voce in Grande Enciclopedia Italiana, Treccani, 1937. Per tutta l'argomentazione da qui svolta sui rapporti tra Carabellese e Varisco si fa riferimento a questi saggi. Per le lettere al maestro, Cfr. F. Bonatelli, R. Ardigò, G. Vailati, F. Juvalta, G. Gentile, F. De Sarlo, P. Carabellese, P. Martinetti, Lettere a Bernardino Varisco (1867-1931). Materiali per lo studio della cultura filosofica italiana tra Ottocento e Novecento, a cura di Massimo Ferrari, Firenze, 1982. Per un’analisi de L’Essere e il problema religioso si rimanda a Furia Valori, Saggio introduttivo a Pantaleo Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione. Parte Seconda. Io, (a cura di Furia Valori),  Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze della Formazione, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998.

. Parte II: Io, pp. 16-28, che inoltre riteniamo molto utile ai fini del sostegno della nostra tesi che Carabellese voglia radicalizzare l’Io penso Kantiano.

[67] R. Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese, in Id., Criticismo e metafisica, Editoriale Arte e Storia, Roma, 1953, pp. 89-90. Ringrazio vivamente la Signora Elena Ottolenghi per aver voluto donarmi copia di questo volume di Raniero Sabarini, che considero ricco di stimoli.

[68] Cfr. P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., App. IV La filosofia di B. VariscoI. Il pensiero filosofico, p. 244.

[69] Cfr. Pantaleo Carabellese, L’attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere, a cura e con Introduzione di Edoardo Mirri, Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugina, Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991, p. 138. E’ la ristampa delle dispense universitarie del corso di Filosofia Teoretica tenuto da Carabellese nell’A.A. 1947-48 all’Università degli Studi di Roma, I ed. e I rist. postuma 1948.  Su tutta la tematica dell’”uomo pensante che vive”, della soggettività  plurale e dell’attività spirituale umana si sono infatti mossi a partire dagli anni ’90 i lavori sia di pubblicazione degli inediti metafisici carabellesiani sia di riflessione teorica di Edoardo Mirri nel cit. L’attività spirituale umana; e Furia Valori, L’uomo pensante che vive, Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Magistero, “Quaderni dell’Istituto di Filosofia”, n. 12, s.d. (1996); Idem, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese, Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1996; Idem (a cura di), Pantaleo Carabellese, L’essere e la sua manifestazione. Parte Seconda. Io cit.

[70] Cfr. Pantaleo Carabellese, L’idealismo italiano cit., App. IV La filosofia di B. Varisco,  III. La personalità speculativa, pp. 260-63.

[71] Il pensiero di Varisco, secondo Carabellese, mira alla giusti­ficazione della religione. Questo avviene in tre momenti distinti che sono in correlazione: l'opposizione tra sentimento religioso e ragione, l'espressione di tale sentimento in termini razionali per cui Dio diviene assoluto Pensiero come assoluto Essere (dot­trina varischiana del valore) e la dimostrazione razionale di Dio nella sua oggettiva necessità, che comporta il superamento completo dell'iniziale opposizione tra ragione e sentimento e l'as­sorbimento di questo nella ragione, che così ne dimostra l'ogget­to.

Quest'accordo Carabellese, seppure in tutte le sue lacerazioni, non lo ha mai cercato, portando avanti un pensiero prettamen­te filosofico libero dall'osservanza ai dogmi, e lo ritrova, oltre che in Varisco, anche in Gentile, il cui attualismo vede come una trasposizione in termini filosofici del dogma cristiano. Ma ci è sembrato di poter suggerire che pur nella ricchezza delle ascendenze mistico-orientali del pensiero filosofico-religioso occidentale di cui Carabellese va in cerca operando di fatto uno spostamento a Oriente della teologia nelle sue radici sempre più da approfondire, lo sguardo carabellesiano resti nonostante tutto ancorato a una visione  ancora troppo occidentalocentrica – in ciò storica -, in cui il Cristianesimo si pone come perno e punto di arrivo anche nella filosofia contemporanea e nella sua propria filosofia, ricca di riferimenti ai suoi dogmi anche nella sua non istituzionalità.

[73] Cfr. Pantaleo Carabellese, L’idealismo italiano cit., App. VI Risposta a Carlini cit., p. 276 sg.

[74] Cfr. Ibidem, L’idealismo italiano cit.,  II. Il pensiero pedagogico, p. 252.

[75] Sul pensiero di Spinoza Carabellese scrive Il concetto spinoziano dell'errore, in Septimana spinoziana, The Hague-Martinus Nijhoff, 1932, poi rist. in Id., Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico, Sansoni, Firenze, 1946. Ma il riferimento a Spinoza, seppur raro, è presente anche in altri saggi, mentre Giuseppe Pinto, in Pantaleo Carabellese, in "Giornale critico della filosofia italiana", a. XXVIII, Terza Serie, vol. III, fasc. I, genn.-mar. 1949, p. 10, parla di quattro corsi inediti su Spinoza che Carabellese tenne all'Università di Roma sulla Cattedra di Storia della Filosofia che Carabellese ricoprì dal 1929 alla sua morte.

[76] La riflessione carabellesiana sul pensiero di Cartesio ci ha lasciato: Il circolo vizioso di Cartesio. Nota di Pantaleo Cara­bellese, estratto da Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche della Reale Accademia Nazionale dei Lin­cei, Bardi, Roma, 1938, Sez. VI, vol. XIII, fasc. 11-12, pp. 471-532, poi rist. come cap. II in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 31-101; Cartesio e Vico, in Problemi e discussioni della Reale Accademia Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche,  Bardi, Roma, 1938, fasc. II, poi rist. come App. I Essenza del vichismo in Id., L'idealismo italiano cit., II ed. 1946, pp. 207-212; La riconquista del cartesianesi­mo, conferenza inclusa nel ciclo organizzato dalla Sezione Pie­montese dell'Istituto di Studi Filosofici, tenutosi nel 1942 presso l'Istituto di Filosofia dell'Università di Torino e poi raccolto nei 2 voll. AA.VV., L'attualità dei filosofi classici. I: Filosofia antica e medievale, II: Età moderna, a cura di A. Guzzo, Bocca, Milano, 1943, pp. 1-20, poi rist. come cap. I in P. Carabellese, Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 1-29; Le obbiezioni al Cartesianesimo, Casa ed. D'Anna, Messina-Città di Castello, 1946, 3 voll.: I: L'idea, II: La dualità, III: Il metodo.

[77] P. Carabellese, La riconquista del cartesianesimo cit., p. 11.

[78] Allo studio del pensiero di Rosmini, oltre alla tesi e ai già ricordati a proposito della polemica con Gentile Intuito e sinte­si primitiva in Antonio Rosmini, 1911,  e  La potenza e l'intuito come potenza nell'ideologia rosminiana, 1912, sono dedicati: L'elemento categorico kantiano nell'ideologia rosminiana, in AA.VV., Atti del IV Congresso internazionale di filosofia tenutosi a Bologna nel 1911, Formiggini, Modena, 1912-16;  Originalità storica e attualità speculativa del pensiero filosofico rosminia­no, Bocca, Milano, 1940, rist. anche, nello stesso anno, in AA.VV., Studi rosminiani, sempre Bocca, e poi, col titolo Origi­nalità e attualità di Rosmini, in P. Carabellese, Da Cartesio a Rosmini cit., cap. VIII, pp. 227-257; Il problema filosofico di Rosmini, Signorelli, Roma, 1941.

[79] Sul Tema La critica di fronte all'ontologismo si svolse un'intera sezione del Congresso, la seconda, di cui ora si parlerà nel testo. Cfr. il già cit. AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di FilosofiaSecondo Tema: La critica di fronte all'ontologismo, pp. 249-428.

[80] A. Beccari, Tentativi di metafisica critica: l'ontologismo del Carabellese, in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit., pp. 263-270.

[81] G. Bontadini, Osservazioni sull'ontologismo di P. Carabellese, in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit., pp. 283-304.

[82] L’essere Rosmini interno o meno a questa corrente di pensiero è tra l'altro oggetto delle relazioni di Gianfranco Bianchi e di Paolo Dezza. Cfr. G. Bianchi, La critica di fronte all'ontologi­smo in P. Galluppi, A. Rosmini, V. Gioberti e in Giovanni Maria Bertini, e P. Dezza, L'ontologismo di A. Rosmini e la critica di S. Sordi, ambedue in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit., rispettivamente alle pp. 271-82 e 335-40.

[83] Anche Carabellese dunque partecipò al Congresso. Cfr. P. Carabellese, Dalla critica all'ontologismo critico, in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit., pp. 309-318.

[84] A. Devizzi, La critica di P. Matteo Liberatore all'ontologismo cit., in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit., pp. 331-334.

[85] Non si può non intravvedere in ciò la vicinanza con l'intuizione immediata dell'Assoluto che Hegel attribuisce come compito all'intuizione trascendentale, che si libera dalla restrizione kantiana all'ambito gnoseologico e alle forme dello spazio e del tempo per assumere un ruolo euristico nella metafisica.

 

[86] P. Carabellese, Originalità e attualità di Rosmini cit., in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 227-257.

[87] Ibidem, pp. 232-33.

[88] Ibidem, p. 234-36, p. 242.

[89] Si aprirebbe qui una bellissima direzione di ricerca tesa a dimostrare la coincidenza possibile in infinitum tra, nell’ordine, essere pensabile, essere possibile, essere oggettivo, essere necessario, essere reale, coincidenza possibile nel momento in cui si consideri da un lato lo spostamento in avanti del limite del pensabile, e di conseguenza del limite del possibile e del reale, dall’altro l’allargamento del campo di ciascuno di questi ambiti.

[90] Ibidem, p. 255.

[91] Cfr. B. Varisco, Tra Kant e Rosmini. A proposito del libro di P. Carabellese: La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini, in "Rivista di filosofia", n. 1, Formiggini, Modena, 1909.

[92] P. Carabellese, Originalità e attualità di Rosmini cit., in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., p. 244.

[93] G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., pp. 14-15.

[94] P. Carabellese, Originalità e attualità di Rosmini cit., in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 250-51.

[95] Ibidem, pp. 250-52.

[96] Ibidem, p. 247

[97] Questa felice espressione di Raniero Sabarini è in Criticismo e metafisica cit., passim.

[98] P. Carabellese, Originalità e attualità di Rosmini, in Id. Da Cartesio a Rosmini cit.,  p. 252.

[99] IdemChe cos'è la filosofia? cit., p. 242.

[100] IdemCritica del concreto cit., Prefazione alla II edizione, p. XVII.

[101] Ancora IdemChe cos’è la filosofia? cit., p. 242.

[102] Ibidem, p. 183.

[103] A Dio come Uno-Tutto fa riferimento la teologia ebraica, per la quale inoltre tutto è in Dio e non solo Dio è in tutto: “Dio è il luogo del mondo, e non il mondo è il luogo di Dio”, dal Midrash Rabbà: Genesi, 69, e Esodo, 45, ossia da Il Grande Commento, scritto dai Grandi Dottori tra il I e l’VIII sec. d. C. In Carabellese è presente questa tesi nella concezione dell’immanenza-trascendenza di Dio. Ma il senso dell’essere Dio il luogo del mondo è molto profondo.

[104] Ornella Nobile Ventura ricorda come Carabellese fosse stato profondamente influenzato nei suoi interessi religiosi, prima ancora che dalla formazione ricevuta al liceo nel Pontificio Seminario Vescovile di Molfetta, dall'educazione estremamente pia ricevuta dalla madre. All'origine della successiva interruzione degli studi seminariali in vista dell'abito talare, che si espresse in una vera e propria crisi religiosa, ci fu sicuramente la maturata consapevolezza della distanza che intercorreva tra il suo pensiero e quello rigorosamente dottrinale, distanza che si espresse all'epoca dell'Università in posizioni fortemente pole­miche e accesamente anticlericali, influenzate anche dall'atmo­sfera culturale universitaria in cui era immerso in quegli anni prima a Napoli (con lo storico Giuseppe De Blasiis) e poi a Roma (con Bernardino Varisco). Probabilmente è anche facendo riferi­mento alle tesi sostenute da Carabellese in questo periodo giova­nile del suo pensiero che si è potuto tacciarlo di ateismo: non crede alla Rivelazione, critica l'ingerenza della Chiesa nella vita dei singoli e dello Stato, auspica uno Stato laico, stigma­tizza l'intolleranza religiosa come matrice di guerre e persecu­zioni verso i singoli e verso i popoli, ma soprattutto considera il Cristianesimo nietzscheianamente come una dottrina che, oltre a controllare la vita, vuole  toglierle ogni valore in vista di una vita ultraterrena, santificando il dolore e aprendo nel contempo la strada all'intolleranza. Cfr. O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un metafisico laico: P. Carabellese, Bocca, Milano, 1951, pp. 12-19 e 26-31.

[105] Carabellese fece parte anche del modernismo, movimento di riforma religiosa contro il potere temporale della Chiesa e per un suo ritorno alla purezza delle origini. Già dalla gioventù gli scritti di Carabellese sulla religione sono numerosi: Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti, intuizioni cit., dalla Tesi di Laurea in Lettere del 1900; Stato e Chiesa (a proposito di formule), in "La riforma laica", n. 8, 1910; Sul concetto di religione, in "La riforma laica", marzo 1911, ottobre 1911, dicembre 1911 e gennaio 1912; Religione e libertà, in "Rivista di filosofia", n. 2-3, 1913;  La coscienza religiosa in Italia. Risposte di Pantaleo Carabellese, Firenze, 1916; Religione e filosofia, Prolusione all'insegnamento sulla Cattedra di Filosofia teoretica a Palermo, in Biblioteca filosofica di Palermo. Annuario, Palermo, 1923, vol. VI, fasc. I, pp. 1-18, e in "Logos", Napoli, 1923, poi rist. in Id., Che cos'è la filosofia?, II ed. con postille e altri saggi, Signorelli, Roma, 1942; Stato etico o teismo politico?, in "Archivio di Filosofia", Quaderno La crisi dei valori, Roma, 1945, pp. 7-14, poi rist. in Id., L'Idea politica d'Italia, Ed. F.V. Nardelli, Roma, 1946.

[106] Ornella Nobile Ventura fa notare come però l'interesse per i temi religiosi non si limitasse per Carabellese, nemmeno in questa prima fase, alla critica sulle questioni riguardanti gli aspetti dottrinari, politici e formali della religione, ma ri­guardasse anche l'essenza stessa della religione, con una rifles­sione che ne mette in luce l'imprescindibilità e si potrebbe dire l'immutabilità per l'animo umano: la religione come fede è la proiezione nel Divino oggettivato di un sentimento soggettivo che si estrinseca sì in contenuti specifici come atti di culto o rituali formalizzati, ma tali che trovano la loro matrice in quest'oggettivazione, necessaria allo spirito umano ma non esclu­siva, tant'è vero che quest'oggettivazione si ritrova positiva­mente nel mondo in forme molteplici e differenti, appunto perché Dio è indefinibile. Direi che la vicinanza con Troeltsch e con tutto il movimento di ricerca dell’essenza della religione è evidente. Vi è dunque in questi anni giovanili una duplice posizione di Carabellese nei confronti della religione, nella distinzione tra gli aspetti esteriori (siano essi rituali, dottrinari, sociali o politici) e gli aspetti interiori (sogget­tivi, di fede, adorazione) della religione: riguardo ai primi egli esercita una critica sferzante ai limiti dell'ateismo, che lo conduce a prevedere e auspicare che il cammino dell'umanità vada verso una trasformazione dei valori religiosi in valori spirituali tout court, ossia laici, da realizzare in uno "Stato ateo", mentre rispetto ai secondi egli inizia qui quella rifles­sione che lo accompagnerà per tutto il suo percorso speculativo sull'ineludibilità della religione come rapporto con la trascen­denza che rende possibile l'incontro con la filosofia intesa anch'essa come pensiero della trascendenza. In questa seconda chiave di lettura del fenomeno religioso, il superamento della religione auspicato si colora di un accento nuovo, che più che una negazione di tale forma di coscienza diviene un ulteriore sviluppo in una forma superiore della religione, quasi una sua purificazione dagli aspetti mondani e perciò profani presenti nella religione positiva. Cfr. O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un metafisico laico: P. Carabellese cit., pp. 32-38 e 40-46.

[107] Per i rapporti di potere tra Stato e Chiesa rimandiamo al cap. 2 Religione ed etica indipendente del cit. La sabbia e la roccia di G. Semerari, ove si fa anche il punto sull'itinerario carabel­lesiano in materia di filosofia della religione, lo si mette in rapporto con Husserl per la distinzione tra religione positiva e religione come idea (v. p. 41 sgg.) e in contrasto con la kantia­na religione nei limiti della sola ragione (v. p. 49).

 

[108] Anche qui, come nella tesi fondamentale dell'ontologismo che comporta un'immediata intuizione dell'Assoluto che può tradursi sul piano speculativo hegeliano nell'intuizione trascendentale, troviamo, se non un'influenza, almeno una vicinanza, al di là del proclamato antihegelismo carabellesiano, al pensiero di Hegel: si pensi solo, tra gli altri, alla tesi fondamentale sottesa al saggio jenese del 1802 Glauben und Wissen dello Hegel giovane, pubblicato sul "Kritisches Journal der Philosophie" fondato assieme a Schelling. Cfr. Glauben und Wissen, oder die Reflexionsphilosophie der Subjektivitat in der Vollstandigkeit ihrer Formen, als Kantische, Jacobische und Fichtesche Philosophie, in "Krithisches Journal der Philosophie“, Zweiten Bandes erstes Stuck, Tubingen, 1802, pp. 3-188, tr. it. Fede e Sapere o Filosofia della riflessione della soggettività nell'integralità delle sue forme come filosofia di Kant, di Jacobi e di Fichte, in Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Primi scritti critici, Introduzione, Traduzione e note a cura di Remo Bodei, Collana Biblioteca di Filosofia diretta da Luigi Pareyson, Mursia, Milano, 1971-81, pp. 121-253.

[109] A nostro parere il concetto di fede travalica i limiti della meditazione teologica per porsi come necessario fondamento dell’agire dell’uomo, del pensante che vive, in tutti i campi: solo nel senso della fede è infatti ad esempio, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi, comprensibile la realizzazione della ricerca in campo scientifico. Essa implica infatti la fede in un ordine razionale, o almeno razionalmente leggibile, anche in quelle teorie, come le teorie del caos, apparentemente riconducibili all’irrazionale.

[110] Primo motivo della polemica carabellesiana contro il neotomismo fu di essere una filosofia istituzionale, funzionale alla Chiesa cattolica. Sul piano più strettamente teoretico, per Carabellese il neotomismo si fondava sulla separazione implicita tra essere e coscienza, da una prospettiva realistica. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., p. 10, n. 19 di p. 153 sg., e p. 44.

[111] Ci si riferisce alla famosa polemica con Padre R. Lombardi, P. Carabellese. L'uomo e l'idea, in "Civiltà cattolica", a. 91, vol. IV, n. 2171, 7 dicembre 1940, pp. 332-44; P. R. Lombardi, Nella <<coscienza>> di Carabellese, in "Civiltà cattolica", a. 92, vol. I, n. 2173, 4 gennaio 1941, pp. 49-62; P. R. Lombardi, Primo bilancio dell'opera di Pantaleo Carabellese, in "Civiltà Cattolica", a. 92, vol. I, n. 2175, 1 febbraio 1941, pp. 202-14; P. R. Lombardi, Discussione con Carabellese, in "Civiltà Cattolica", a. 92, vol. I, n. 2177, I marzo 1941, pp. 369-82, e n. 2178, 15 marzo 1941, pp. 429-40. Ma anche agli sferzanti giudizi (su cui tra poco torneremo nel testo), sebbene affiancati da analisi lucidissime, di Michele Federico Sciacca, L'ontologismo critico di P. Carabellese, in Id., La filosofia oggi,  I ed. Fratelli Bocca Editori, Roma-Milano, 1945, 2 voll., vol. II, II ed. agg. Bocca, Roma-Milano, 1954, (che è quella a cui si fa riferimento), 2 voll., vol. II, cap. VI: L'idealismo italiano nei suoi svilup­pi, par. 2b, pp. 32- 41, in partc. 37-40, e M. F. Sciacca, P. Carabellese, in Id., Il Secolo XX,  Bocca, Milano, 1942, 2 voll., Parte I Dal Pragmatismo allo Spiritualismo cristiano, cap. VI L'idealismo critico, par. 4, pp. 299- 335 in partc. pp. 325-35.

[112] La polemica sull'ateismo di Carabellese, iniziata nel 1940 da Padre R. Lombardi, si protrasse fino al 1948 (anno della morte), quando finalmente Carabellese, amareggiato, scrisse un piccolo articolo in risposta ai suoi detrattori: Tra arcaismo e ateismo, estratto dal "Giornale critico della filosofia italiana", fasc. I-II, Firenze, genn.-giu. 1948, su cui torneremo.

[113] L'accusa di ateismo era un'accusa pesantissima nell'Italia di allora, ma soprattutto ingiustificata, poiché Carabellese, sebbe­ne laico come fu detto - Cfr. O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un metafisico laico: P. Carabellese cit. - pur era animato da una fede profondamente religiosa, che determinò tutto il suo percorso filosofico. Il laicismo carabellesiano allora deve essere inteso nel senso più proprio e letterale, da abbinare semmai a termini come credente aconfessionale (ma Carabellese non lo fu, perché è profondamente cristiano), e non, come fu fatto e come talvolta si fa ancor oggi, nel senso dispregiativo di indicare una distanza dai temi del pensiero religioso.

[114] Ma in Carabellese, nonostante questa tesi apparentemente “risolta” nel senso di chiara e lineare, vi è un rovello non risolto sul concetto di esistenza, non più soltanto in riferimento all’esistenza del pensante,ma in generale dell’ente, come “più” inspiegabile dal concetto, che Carabellese spera di risolvere a partire da Kant, sul cui concetto di esistenza si soffermerà infatti nei due ponderosi volumi che compongono il già cit. Il problema dell’esistenza in Kant, dalle dispense degli AA.AA. 1940-43, poi ripubblicato a cura di Semerari. Inoltre occorre dire che il concetto di esistenza dell’io in Carabellese, sebbene tale radicalizzazione assoluta sia implicita, non giunge fino al punto radicale di tematizzazione dell’esistenza dell’Individuum metafisico – come noi vorremmo -, nonostante la tematizzazione, anch’essa radicale, e di radicalizzazione dell’Io penso kantiano, dell’Io. E’ da stabilire se tale radicalizzazione assoluta – di rapporto tra Io, io, esistenza intesa in senso nuovo e tempo -, che appunto noi vediamo implicita nella sua concezione del soggetto e del Soggetto, sia esclusa, ci si scusi la ripetizione del solo termine, per tempo – visto anche il suo continuo ritorno a Vico e le sue incursioni nel pensiero teologico estremo-orientale - o per radicale formazione cristiana, almeno coeva.

[115] Si veda per questo, il paragrafo di questo mio studio sulla polemica con l'attualismo gentiliano come traduzione filosofica di concetti religiosi del cattolicesimo.

[116] M. F. Sciacca, P. Carabellese cit., in Id., Il secolo XX cit., pp. 333-35.

[117] Idem, L'idealismo italiano nei suoi sviluppi: b) L'ontologismo critico di P. Carabellese cit., in Id., La filoso­fia oggi cit., più in generale pp. 32-41, citaz. pp. 39-40. Come sull'accusa di ateismo, non concordiamo nemmeno sull'ac­cusa di panteismo, che meriterebbe uno spazio apposito di discus­sione e che invece nel corso del nostro lavoro si è solo potuto sfiorare, soprattutto in relazione al concetto di Concreto come Essere-Sapere. Nello sviluppo che la sua filosofia avrà nell'ultimo periodo, al concetto di Concreto egli affian­cherà, o meglio anteporrà l'Essere. Inoltre occorre dire che retroattivamente è possibile interpretare in un senso più profondo, di cui mettere eventualmente in discussione, e analizzare, la causa, l’affermazione di Sciacca che Dio non esiste in sé: nel senso di una necessità di Dio (genitivo soggettivo) di un rapporto con l’io.

[118] Anche se poi Sciacca dirà che "[...] al Carabellese resta il merito di aver indicato la possibilità di rinnovare la metafisica tradizionale negata dall'idealismo trascendentale, al lume dell'esigenza critica. L'esigenza resta ed è fondamentale per la filosofia contemporanea." Cfr. Idem, P. Carabellese, in Id., Il secolo XX cit., p. 335.

[119] A proposito dell’intuizione come potenza razionale, occorre dire che Carabellese, che la studia a partire da Rosmini per la sua Tesi di Laurea in Filosofia, come si è detto, dunque proprio all’inizio del suo percorso filosofico, pur servendosene lungo tutto il suo arco di pensiero, non le trova un posto nel suo discorso metafisico finale, nemmeno quando tratta del livello della manifestazione dell’Essere riferito alla triade penetrativa Intendere-Sentire-Volere. La cosa appare strana, se si pensa che egli certamente considera l’Idea come un uno-tutto in cui è conchiuso tutto l’essere che poi si manifesterà. Ciò fa pensare a un’ulteriore possibile direzione di ricerca in cui, più che identificare Idea e intuizione a livello metafisico, si potesse dar spazio alla loro distinzione come ulteriore livello dell’Essere.

[120] A questo proposito Carabellese scrive: "[...] ogni fede in Dio, ogni dimostrazione di Dio, ogni pensiero, direi, richiede Dio principio di quella fede, di questa dimostrazione, di questo pensiero, cioè richiede Dio come Oggetto puro di coscienza dei soggetti. [...] la diversità delle chiese non esclude ma richiede l'unicità di Dio; e l'unicità di Dio non richiede ma esclude la soggettività di Lui." Carabellese pensava a una Chiesa universale? Cfr. P. Carabellese, Critica del concreto cit., continuaz. p. 175 di n. 1 di p. 174.

 

[121] Per un’analisi dettagliata delle aporie insite nella concezione carabellesiana della Coscienza qualitativa al livello del circolo Dio Io, che pure non sono quelle a cui nello specifico qui si alludeva, si fa riferimento a Furia Valori (a cura di), L’Essere e la sua manifestazione, Parte II, Io cit. , passim. Vorrei aggiungere che Valori, nell’analizzare dettagliatamente con acuta ermeneusi il problema dell’Essere in Carabellese a partire dalla sua prima pubblicazione critica, L’Essere e il problema religioso (a proposito del “Conosci te stesso” di Bernardino Varisco) cit. consente di avvalorare l’ipotesi della presenza in Carabellese di un Soggetto Universale immanente nei soggetti (e con essi in quel rapporto che abbiamo chiamato di reciproca ma non biunivoca penetratività, o appartenenza immanente trascendente) – si fa riferimento alle pp. 16-28. Tale Soggetto Universale, o Io, è leggibile in termini religiosi umani come Cristo, ossia incarnazione di Dio, identico per tutti e in quanto tale unico, fondante il dialogo tra diversi omogenei io, se lo si guarda dal punto di vista, dal livello, dei pensanti-che-vivono e non dei pensanti in generale. In termini filosofici tale Soggetto Universale, universale in quanto a livello dell’io fa riferimento ai pensanti in generale presenti nell’universo, o a un possibile futuro prossimo dei pensanti-che-vivono (Carabellese pensava a un cristianesimo mondiale?), è leggibile a livello della coppia circolare Dio Io kantianamente come Io penso – si fa riferimento alle pp.12, 19, 24, 25 -, per cui  dal punto di vista teologico-mitologico la coppia si sintetizza nel concetto di Dio Persona, dal punto di vista teologico-filosofico stretto, ponendosi la coppia sul medesimo livello dell’Essere, è possibile pensarla in termini di distinzione-correlazione dell’Io che pensa se stesso come Oggetto e di Oggetto che si specchia nella sua immanenza nell ‘Io, o anche di Essere-Sapere, secondo le stesse indicazioni carabellesiane che vede questo livello di Dio come Soggetto-Oggetto o Essere-Sapere. Si dice ciò – ossia che è presente in Carabellese il Soggetto Universale da intendere come Io penso kantiano – consapevoli non solo delle diverse indicazioni della critica anche più attenta, ma anche dello stesso Carabellese, che ha sempre criticato il Soggetto Universale unico: l’operazione ermeneutica fatta va però nella direzione di intendere in senso letterale la lettera carabellesiana. Per Carabellese il Soggetto Universale, e anche il Soggetto tout court, non è Dio – non è l’Assoluto, che Carabellese tendeva a vedere come impersonale sulla scia del Brahmanesimo, o almeno lì si è fermato. La chiave è nei ripetuti ritorni di Carabellese che il concetto di soggetto si richiama quello di oggetto, a lui speculare, sia sul piano metafisico di Soggetto-Oggetto, sia sul piano gnoeseologico del chi e del che cosa della rappresentazione. Il Disegno della storia della filosofia, e ci scusiamo per il continuo ricorso che vi facciamo, inizia proprio con l’inserire il brahmanesimo nella filosofia della soggettività come soggettività indistinta che poi il giudaismo renderà distinta nell’Io e nel concetto di Dio-Persona come Yhwh . Dio, l’Assoluto, per Carabellese non è Soggetto, Carabellese ha ripetutamente contestato che Dio sia Soggetto: qui la vera noce della polemica con l’idealismo tedesco e il neoidealismo italiano. Si dice ciò credendo nell’oggettività di questa analisi fondata sulle fonti e sulla loro interpretazione profonda, sul loro senso oltre che sulla loro lettera, al di là delle convinzioni personali in campo teologico. Afferma infatti Carabellese, come abbiamo ricordato a proposito della polemica contro il soggettivismo di Varisco e Gentile, che pensare Dio in termini di Soggetto “è solo un’astrazione vuota”. E’ necessario in altre parole, per quanto possibile, oggettivare criticamente Carabellese tralasciando di farsi fuorviare dal proprio credo personale, e riconoscere che il livello della soggettività di Dio è in correlazione a quello della sua oggettività e solo a quello, e che in questo senso della reciproca correlazione è leggibile anche il livello di Dio del rapporto Essere-Sapere, secondo il quale il Sapere afferma (sa) l’Essere e l’Essere dà l’essere (è) il Sapere. E’ questo il fondamento che Carabellese dà al realismo che supera il fenomenismo nell’unum et idem di essere e apparire, superando anche la scissione essere e conoscere, così come è questo il vero fondamento della prova ontologica e della possibilità del rapporto tra Dio e l’io, laddove l’Essere-Sapere è interpretabile, sul piano metafisico dell’io come pensante, appunto proprio come io, come essere che sa e sapere che è, e questo sapere e questo essere che è l’io, questo sapere-essere=io sa, intuitivamente come razionalmente, immediatamente come mediatamente, implicitamente come esplicitamente, Dio nella sua in-finita rivelazione. Infatti se di fenomenismo si può parlare in Carabellese, e di deviazione dal realismo di cui si parlava, esso fenomenismo è nel concetto di manifestazione, se in esso, oltre che un’intenzionalità divina riportabile al concetto di volontà (speculare a quello di involontario), si scinde, pur rapportandoli tramite la congiunzione, come fa Carabellese titolando le sue dispense L’Essere e la sua manifestazione, la manifestazione dall’Essere, e non si interpreta viceversa l’Essere e la sua manifestazione come correlazione-distinzione-identità di Essere e mnanifestazione, in senso appunto rigidamente realistico con ascendenze kantiane.

[122] A questo proposito, che sottende la risposta carabellesiana alle tre domande metafisiche kantiane (su cui torneremo), vorrei dire che è in atto un avvicinamento a velocità esponenziale tra Dio, io e cosmo, leggibile non solo nella storia, molto lenta anche se ineluttabile, ma anche, se la si intende come storia dell’Idea, nella virtualità. Voglio dire che se lo scambio fisico (dove per fisico si intende anche geografico, storico, culturale, religioso, scientifico, antropologico, politico, economico, ecc.) è molto evidente e via via più veloce nella direzione di un “villaggio globale” o concetto di Mondo probabile presupposto dello scambio con altri mondi, e che in tale villaggio globale il confronto, e la relazione, io-tu, o io-io, si fa più stretta nella direzione dell’emergere della Verità, pure tale Mondo, in cui e con cui l’io entra direttamente in confronto e relazione, è già virtualmente, e quindi idealmente, realizzato nel Web. In questo senso il passo successivo, ma il cinema di fanta-scienza lo ha già compiuto, e ancor prima la letteratura (penso ad Alice) è l’ingresso dell’io nel mondo delle idee, e quello successivo ancora, anch’esso ipotesi fanta-scientifica già comunicata, che il tutto sia un mondo delle idee, in evoluzione anche genetica, come la scienza genetica prova. In questa direzione ritornerebbe il bergsoniano concetto di evoluzione creatrice, cui Carabellese si rifà nel concetto di durata intensiva, e Bergson si incontrerebbe col concetto scientifico-cosmologico della creazione continua, cui Carabellese, con la sua ferma opposizione al vetero-testamentario concetto di creazione e rivelazione come unicum – nonostante abbiamo visto e vedremo tale concetto è da lui assunto, ma anche tolto - , darebbe sicuramente la sua adesione, visibile nel concetto di Coscienza. A proposito della creazione continua in ambito filosofico-scientifico, vorrei citare, come inizio di una possibile direzione di ricerca, oltre ai classici Jacques Monod,  Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, EST Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, Milano, I ed. 1970, II ed. 1971, e F. L. Boschke, La creazione non è finita. La ricostruzione scientifica dei “sette giorni” della Genesi,Garzanti, Milano 1963,  I ed. “I Garzanti” 1970, II ed. 1973, Willem Kuyk, Il discreto e il continuo. Complementarietà in matematica, Boringhieri, Torino, 1982.

[123] Vorrei dire qui sul valore sacrale della parola. Inoltre, in questo senso radicale di intendere il rapporto Dio io come rapporto che c’è in ogni istante  – dove io è il vivente in quanto organismo non solo umano, si potrebbe dire la creatura, e l’io pensante è carabellesianamente lo spirito, ma dove anche io è riferito in senso molto largo all’ente, che comprende l’oggetto, per cui Dio è l’Uno-Tutto laddove tutto è in rapporto con Dio – la responsabilità dell’io nei confronti del Male cresce a dismisura, e richiede uno sforzo costante di vigilanza non sempre sostenibile, se è vero che ogni pensiero, parola, atto, oggetto, ha una valenza sacra e una giustizia (un senso) che spesso travalica la consapevolezza dell’istante, ma a cui pure non solo è necessario tendere, ma di cui pure è necessario farsi coscienti. Si intende dire che sebbene la razionalità del Tutto oltrepassi la stessa intenzionalità dell’ente (e si vuole qui carabellesianamente superare la distinzione tra enti-io e enti-cose), ciò non diminuisce semmai aumenta la responsabilità stessa, dal momento che la funzionalità dell’ente nel Tutto, si potrebbe dire il suo scopo intrinseco e la ragione dell’ente (ragione oggettiva, non soggettiva), è quella di coincidere – non semplicemente ritornare, stadio precedente in cui l’ente non si dissolve – col Tutto. In questo senso radicale della coincidenza dell’uno col tutto si può intendere l’Uno-Tutto, liddove esso appare allora, seppure panteisticamente inteso nel suo senso più profondo,  come ancora dualisticamente separato in due, potremmo chiamarle, entità che seppure in circolo e relazione biunivoca posta sullo stesso livello dell’essere, sono ancora distinte, come un livello inferiore, e uno stadio da superare, del e nell’Assoluto.  Tutte queste riflessioni trovano la loro radice nell’interpretazione profonda di concetti presenti in Carabellese, e a questi concetti (distinto, dualismo, ecc., cui aggiungere concetti ermeneutici come circolo, livello, biunivoco, ecc.), pur oltrepassandoli nella radicalizzazione del loro senso – radicalizzazione che conduce o almeno è in relazione a una diversa disposizione logico-metafisica -, si rifanno.

[124] In realtà crediamo di poter dire che per Carabellese la religione in quanto rito (ci riferiamo al rito Brahman-Athman, col quale inizia il suo Disegno), codificato o sperimentale nel senso di procedente per prove ed errori, è momento successivo e umano, di ricostruzione, di un rapporto immediato e diretto con l’Assoluto che lo fonda, che lo precede e che lo segue. In questo senso Gerschom Scholem parla della mistica come momento successivo, il terzo, del rapporto Dio-io, quello della volontà della ricostruzione, attraverso tentativi successivamente codificati o da codificare, dell’unità primordiale in cui non vi era separazione, e trascendenza, tra Dio e io, e tutto il mondo era divino, in unità di Dio, io, cosmo. Scholem vede il momento dell’unità, il mondo divino, identificabile in termini mitici con l’Eden prima della caduta, in termini filosofici col mondo delle idee come forme pure, come momento iniziale del Tutto. Noi abbiamo qualche dubbio che questo sia l’inizio, poiché ci sembra anch’esso separativo nella distinzione tra Dio, io, cosmo, oltre che, nel caso di Scholem come della storia delle religioni come della religione, post-genetico oltre che  fisico. Il problema è risalire (e oltrepassare) al di là della Genesi, anche delle forme pure. Ma il problema non è solo risalire dalle idee all’Idea: è comprendere la distinzione tra Assoluto e Idea, la ragione della sua procreatio. Qui il termine emanazione non ci sembra appropriato, poiché fa riferimento a un’attività che trova in una necessità superiore all’atto, in una legge, il suo senso, mentre invece intendiamo far riferimento a una distinzione dell’Assoluto dall’Idea in cui, come anche Carabellese suggerisce nella penetratività di libertà, necessità e dovere – vedi grafico finale della dispensa su L’Essere e la sua manifestazione. L’Essere nella dialettica delle forme -  le tre categorie che rendono possibile l’atto coincidano nella potenza. Resta, oltre al perché di una distinzione nell’Assoluto tra atto e potenza, che sottende il perché dell’atto, riferibile anche ad ogni livello successivo  dell’Essere – e qui la coincidenza delle tre categorie, come spiegazione di questo stesso perché, risulterebbe superiore alla distinzione tra atto e potenza, configurando anche l’Assoluto come Io – resta la domanda, impertinente e forse blasfema ma non atea, bensì semmai razionale nel suo costituirsi, in quanto domanda risposta, come l’obiezione risolutiva nella dissoluzione dell’ateismo in termini di ragione intesa come sapere esplicito (e non solo di fede), resta dicevo la domanda sul perché l’Assoluto. E’ necessaria però qui una riflessione, con gli stessi strumenti che ci fornisce Carabellese, non tanto sui rapporti tra ragione e fede, che noi vediamo in termini inclusivi, per cui, partendo dall’assunto razionalistico carabellesiano che chi pensa pensa Dio (il cogito primo e integrale è il cogito Deum), chi ragiona crede, quanto, sulla scia di Carabellese che afferma che chi sa, sa Dio, per cui fede e sapere non sono scissi ma l’uno comprende l’altra, una riflessione dicevo sui rapporti tra ragione come sapere esplicito o in fieri, essoterico potremmo dire, e ragione come sapere implicito, per cui, come afferma Carabellese sulla scia di Rosmini,  “appena l’uomo è, è ragione”.  E’ da intendersi questo, come si diceva in altra nota, che qualunque atto dell’io ha, è, ragione, inserita sacralmente nella Ragione assoluta? Ma allora in che senso bisogna pensare  la ragione come rapporto tra sapere implicito e sapere esplicito? Carabellese non lo dice, non nell’io: egli allarga il discorso alla molteplicità degli io omogenei nel sapere implicito e diversi nel sapere esplicito, ma non si sofferma né sul cammino per renderli omogenei anche di fatto e non solo di diritto (tema non solo storico-politico), né sul cammino per rendere in ciascun io esplicito il sapere implicito (Moretti-Costanzi proseguirà nel concetto di ascesi di coscienza questa scintilla carabellesiana), né sulla differenza tra ragione e sapere. Se in altre parole chi sa, sa Dio anche solo come Oggetto implicito della coscienza, per cui tutti sanno Dio e sono omogenei anche se non tutti pensano e perciò sono diversi (chi pensa pensa Dio), e se appena l’uomo è, è ragione, e aggiungiamo noi, chi ragiona crede, allora o si accetta, contro la lettera carabellesiana, che non tutti gli uomini sono ragione (né di diritto – omogeneità virtuale - né di fatto – omogeneità storica -), inficiando il suo stesso assunto, oppure, per salvarlo, bisogna porre al suo interno la distinzione tra sapere implicito come origine omogenea dell’esistenza ed esplicito come fine diversa della vita, in modo tale che solo quando sapere implicito ed esplicito coincidono e si risolvono l’esistenza finisce, dopo un cammino di ascesi variabilmente lungo. In questo senso il sapere è distinto dalla ragione, che lo include, e solo nel senso metafisico di un ruolo attivo, ma pure hegelianamente funzionale, della ragione nella Ragione è comprensibile e da comprendere il senso non solo della vita, ma anche dell’esistenza. In questo senso non esistenzialistico ma metafisico dell’esistenza come ciò che ha Principio e termine oltrefisico è leggibile in altra chiave l’essere per la morte heideggeriano, laddove la morte non è il limite della vita, come Carabellese infatti sapeva, ma il limite dell’esistenza, che inizia e finisce nel Nulla (ebraico). E in questo senso ancora l’esistenza è dell’io – o meglio dell’io divenuto al termine dell’esistenza Io -, non di Dio, in Carabellese: attribuire a Dio l’esistenza significherebbe, in questo quadro, inserire la sua infinità finita, la sua eternità temporalmente limitata. Infinito, Eterno, sono qualificazioni che appartengono ancora a una dimensione spaziotemporale che, oltre che fisica, le geometrie non euclidee e la teoria della relatività hanno dimostrato essere finita (ci riferiamo, oltre che allo spaziotempo curvo, anche al suo derivato, che gli infiniti si incontrano, e che infinito fratto zero dà un infinito più grande, per cui vi è una gerarchia tra infiniti). In questo senso l’Io è infinito ed eterno, non Dio inteso come Assoluto, che sentirei di qualificare soltanto come Sommo.  Per gli stadi in cui compare la mistica nel suo rapporto col divino facciamo riferimento a Gerschom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica cit., pp. 20-21, che consideriamo molto importanti.

[125] Non è un caso che Il problema teologico come filosofia cit. si apra intitolando il cap. primo con la domanda E' possibile una metafisica critica?, che è una domanda solo apparentemente reto­rica poiché nel corso del testo la possibilità di una metafisica critica è dimostrata, e che dunque è, in quanto domanda, progetto di ricerca, interrotto dalla morte: Carabellese pensava già nel 1931 a un passaggio dall'ontologia alla metafisica che non scon­fessasse il suo percorso ma lo integrasse, e che perciò fosse una metafisica critica. Per questo argomento della chiusura di una fase e dell'apertura di un'altra pur nella continuità, relativa­mente alle lettere del 1931 a Benedetto Croce, che da qui infatti si interrompono, si veda il mio saggio di taglio storico sulle lettere a Croce, corredato di documenti.

[126] Si vedano per tutti Michele Federico Sciacca, Linee di uno spiritualismo critico, Perrella, Napoli, 1936; Corrado Dollo, Momenti e problemi dello spiritualismo (Varisco, Carabellese, Carlini, Le Senne), Parte II: L'Assoluto come oggetto in Pantaleo Carabellese, Pubblicazioni dell'Università di Magistero di Cata­nia, Cedam, Padova, 1967, pp. 87-154.

[127] P. Carabellese, Fondazione storica dell'ontologismo critico, in G. Bozzetti, C. Bayer, P. Carabellese, G. Capograssi et alii, Studi rosminiani, a cura dell'Istituto di Studi Filosofici, Bocca, Milano, 1940.

[128] IdemDalla critica all'ontologismo critico cit., in Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit., pp. 309-18.

[129] IdemDisegno storico della filosofia italiana come oggettiva riflessione pura cit., , Cap. I, Lez. III, “La soggettività indistinta”, interna alla sezione sulla “Filosofia religiosa orientale” come  “Filosofia della soggettività”, pp. 23-30.

[130] Tutti questi lavo­ri, insieme ad altri come ad esempio quelli su Kant o ancora L'idealismo italia­no, hanno consentito di estrapo­lare un Carabellese storico della filosofia dalla lettura del suo pensiero secondo una prospettiva di carattere storiografico, come ha fatto una dei suoi numerosi allievi, M. Anna Rocchi. Cfr. M. Anna Rocchi, Pantaleo Carabellese storico della filosofia cit.

[131] Franco Fanizza, Conoscere ed essere: Carabellese e l'esigenza dell'ontologismo integrale, in AA.VV., Pantaleo Carabellese, il <<tarlo del filosofare>> cit., pp. 41-88.

[132] Cfr. Ibidem, p. 54 e anche le pp. 57 sg. e 64 sgg.

[133] Nella critica carabellesiana al, diremmo con espressione troeltschiana, "cattivo storicismo", e nella sua polemica con Calogero sul concetto di filosofia e sulla sua filosofia come concretezza e rivoluzione che parte dall'arcaico, da quell'arcai­co che considera l’Essere ciò che sempre è e non ciò che si crea, perché "[...] questa creazione presuppone a sua volta l'essere che è. Ed è questo ultimo essere che la filosofia guarda.", Carabellese sembra riecheggiare l'Heidegger della polemica contro l'ontologia occidentale che ha obliato l'Essere, quando dice: "Questo aver perduto di vista l'essere che è, è forse il grande errore della filosofia dal Cristianesimo in poi [...]. Il signi­ficato profondo del ritorno all'antico che oggi si tenta, è questo." Cfr. P. Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit., pp. 85-87, citaz. p. 86 e p. 87. Inoltre nella lunga n. 1 di pp. XIX-XXI della Prefazione alla II edizione della Critica del Concreto cit., alla p. XXI. Carabellese ricorda come, oltre al suo studio su La filosofia di Kant del '27, anche l'Heidegger del Kant und das Problem der Metaphysik del '29 voglia dare una lettura metafisica di Kant, sebbene Carabellese aggiunga subito dopo che le due valutazioni di Kant sono per il resto differenti. Cfr. Martin Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik,  I ed. 1929, II ed. 1950, III ed. 1965, IV ed. Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1973, tr. it. Kant e il problema della metafisica, Silva, Milano, 1964, tr. it. di Maria Elena Reina rivista da Valerio Verra Kant e il problema della Metafisica, con Introduzione di Valerio Verra e Prefazioni alle edizioni tedesche di M. Heidegger, Collana "Biblioteca di cultura moderna", I ed. Laterza, Roma-Bari, 1981, I ed. Biblioteca Universale Laterza, Laterza, Bari, 1989.

[134] G. Semerari, Storia e storicismo. Saggio sul problema della storia di P. Carabellese, Vecchi e C., Trani, 1953, II ed. accresc. col titolo Storicismo e ontologismo critico, Lacaita, Manduria-Bari-Perugia, 1960.

[135] P. Carabellese, Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 284-85.

[136] IdemIl rinnovamento della filosofia italiana cit., p. 278.

[137] IdemDa Cartesio a Rosmini cit., pp. 248-49.

[138] Ibidem, pp. 250-51.

[139] IdemIl rinnovamento della filosofia italiana in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 289-91. E' da notare che sul Trattato dei Principi della conoscenza umana di Berkeley Carabel­lese tenne un corso di Filosofia teoretica all'Università di Palermo nell'A.A. 1928-29, la cui dispensa fu edita col titolo Berkeley. Appunti di Filosofia teoretica dalle Arti Grafiche G. Castiglia, Palermo, 1929 e poi riedito a cura di M. Gambino e S. Romano.

[140] Ibidem, p. 292.

[141] Ibidem, p. 298.

[142] IdemCritica del concreto cit., Prefazione alla II ed., p. XXVII.

[143] Ibidem, pp. XXI sg.

[144] Idem, Esistenzialismo o ontologismo critico?, intervento nella discussione su L'esistenzialismo in Italia, in “Primato", fasc. IV, 15 febbr. 1943, poi rist. in AA.VV., L'esistenzialismo. Scritti di K. Jaspers, N. Abbagnano, F. Battaglia, V. A. Bellezza, P. Carabellese, E. Castelli, R. De Rosa, P. Filiasi Carcano, C. Luporini, A. Massolo, C. Mazzantini, Quaderno della Riv. "Archivio di Filosofia", a. XV, n. 1-2, Roma, 1946, pp. 61-72.

[145] Vedi Rocco Donnici, Comunità e valori in Pantaleo Carabellese, Marsilio, Venezia, 1982, pp. 35-41, dove Donnici individua nel pensiero carabellesiano un avanzamento della filosofia italiana del '900 perché esso si inserisce in quel generale movimento filosofico novecentesco, comune anche all'esistenzialismo e alla fenomenologia, di superamento dell'impostazione soggettivistica cartesiana e di apertura dell'io a un mondo che è sempre un mondo intersoggettivo, in cui l'io è sempre in relazione ad altri io. Alterità e relazione sono pertanto categorie comuni sia all'onto­logismo, sia all'esistenzialismo, sia alla fenomenologia. Rispet­to ai rapporti con l'esistenzialismo, vedi anche Enrico M. Forni, Il problema dell'esistenza in Kant, nell'interpretazione di Pantaleo Carabellese, in "Kant Studien", Band 53, I Heft, 1960-61, poi rist. in AA.VV., Giornate di studi carabellesiani, Silva, Milano-Genova, 1964, in partc. pp. 305-309.

[146] P. Carabellese, L'Essere e la sua manifestazione. Parte I L'Essere nella Dialettica delle Forme. Lezioni di Filosofia teoretica, dispensa dattilografata dell'A.A. 1943-44, Castellani, Roma, 1944.

[147] Idem, Il rinnovamento della filosofia italiana cit., in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., p. 288.

[148] Ibidem,  n. 1 di p. 274-75.

[149] E’ possibile, mi chiedo, che dalle riflessioni di Carabellese in questo testo sia da individuare una delle tappe dello sviluppo dello spazio filosofico che ha dato vita alle geometrie non euclidee?

[150] E’ chiaro che qui per scienza si intende la scienza esatta, quella che giunge alla formula della relatività di Einstein (E=mc2) e individua nella formula dell’energia (E) una costante, la velocità della luce, che ha carattere metafisico non solo per come è stata trovata, ma anche perché sinora costituiva un limite invalicabile per l’uomo (si è scoperto che sono possibili viaggi a ritroso nel tempo, per cui un ente che viaggia a un tempo t, giunge a destinazione nel tempo t-x, ossia prima che cominciasse il viaggio stesso, laddove la x è un qualunque preciso valore temporale determinato precedente a t (e dunque minore come misura e maggiore come valore se si considera il vettore temporale come crescente in senso orario secondo il senso comune) e che è possibile sia in rapporto al viaggio. Questo, che si è verificato, è possibile perché si è scoperto – a Princeton Ljiun Wang e al CNR di Firenze Daniela Mugnai, Anedio Ranfagni e Rocco Ruggeri - che la velocità della luce non è di 300.000 Km/sec., ma di più.  Vedi La Repubblica del 31 maggio 2000). La luce è un elemento a un tempo fisico e metafisico, non spiegabile ma misurabile soltanto, attualmente incomprensibile, sebbene il limite della sua velocità si sia spostato nella conoscenza umana. Vedi diagramma di Hermann Minkowski, uno dei maestri di Einstein e il primo a fornirgli elementi per la relatività generale,  sui coni di luce come raffigurazione dello spazio-tempo quadridimensionale, rappresentato da un doppio cono che ricorda una clessidra, e infatti può essere anche capovolto invertendo il sopra e il sotto, o fatto ruotare su un piano orizzontale per trovare le corrispondenze in cui il sopra e il sotto che si corrispondono, divenute destra e sinistra, possono essere tutti i punti del piano orizzontale, o ancora possono essere fatti ruotare all’interno di una sfera in cui i punti che si corrispondono possono essere infiniti come i piani all’interno della sfera stessa: in ambedue i casi, quella della rotazione all’interno di uno spazio bidimensionale e quello della rotazione all’interno di uno spazio sferico quadridimensionale perché al suo interno le linee che definiscono la direzione dello spazio e la direzione del tempo sono bidirezionali a partire dal punto zero che è il centro, questo stesso centro è il qui ed ora, il presente, l’hic dei latini. Qui l’hic ha valore di pronome dimostrativo, e così è usato da Cicerone per indicare l’intero mondo, l’universo, oppure ha valore di avverbio e sta a indicare il qui=ora (vedi Vocabolario Italiano-Latino  Badellino-Calonghi, in 2 Voll., : Calonghi), appunto l’incrocio dello spazio-tempo, nel quale carabellesianamente si concentrano in modo intensivo il passato e il futuro. Ma l’hic dei latini ha anche valore di pronome indicativo, ossia Esso (Badellino).  Ma anche col diagramma di Minkowski siamo sempre all’interno del tempo-spazio cartesiano, anche se i raggi di luce che disegnano il doppio cono lo cròciano doppiamente, e hanno la possibilità di farlo in tutte le direzioni possibili, ossia non c’è un solo spazio-tempo, ma infiniti spazi-tempi. Siamo, al più, al centro di una rappresentazione parmenidea dell’essere. Ma ciò che è veramente costante e unidirezionale all’interno dell’universo tracciato dal diagramma di Minkowski è la direzione della luce, che va sempre, all’interno dell’universo, dal passato al presente al futuro, e ne disegna veramente il senso in relazione al tempo: la luce scomposta nei suoi raggi e la sua direzione, da qualunque parte del fuori-universo giunga (visto che ci troviamo all’interno di una sfera e la luce disegna un doppio cono di luce), come la sua velocità, sono una costante, perciò metafisica. In questo senso bisogna ricostruire il momento del “Fiat lux” non nella materia (il big bang) ma nell’idea, e Carabellese si muove in questa direzione nell’Essere. Ma non solo. Il problema è che se veramente vogliamo uscire dal materialismo (eliminare il dualismo fisico-metafisico insito ancora anche nel concetto di luce) dobbiamo risalire al di là del Dio che dice “Fiat lux”, al di là della genesi e della creazione anche come punto zero, ossia in Carabellese Idea-Principio-Sostanza, e non occuparci più, dopo Carabellese, in termini filosofici nemmeno della sua continua rivelazione, ossia manifestazione. Andare in altre parole al di là di Hegel, oltre Hegel. A proposito della formula einsteiniana E=mc2 c’è inoltre da dire che essa può anche essere interpretata in termini trinitari laddove la c (la costante della velocità della luce) costituisce un elemento che rimanda a un qualcosa – la luce – a un tempo esterno e interno alla formula stessa, e quindi, in quanto esterno, superiore di livello ad essa. E’ possibile dunque interpretare la luce come Padre della formula stessa. Essa, la luce, costituisce il quarto elemento necessario alla formula perché formula ci sia, e interno alla formula come suo costitutivo metafisico espresso in termini numerici o di valore di velocità (trecentomila km/sec.), ma anche esterno, e in ciò quarto, cioè vero elemento genetico della formula stessa, perciò Padre. In questo senso si può dire che è il Padre che afferma “Fiat lux”, il Padre ebraico che dà il comando, e la lux è la c della formula.

[151] P. Carabellese, L'Essere e la sua manifestazione Parte I L'Essere nella dialettica delle Forme. Lezioni di filosofia teoretica cit., Vol. II La dialettica. Lezioni di filosofia teoretica, Vol. III La realtà e l'attività spirituale umana. Lezioni di filosofia teoretica, cit.

[152] Idem, L'Essere, Parte II io, dispensa universitaria dattilografata, A.A. 1946-47, Castellani, Roma, 1947, poi rist. postumo come L'Io, Editoriale Arte e Storia, Roma, 1954. Su questa parte della metafisica carabellesiana che qui si sta delineando non nei suoi contenuti, che meritano uno studio approfondito e specifico, ma nelle sue linee essenziali a partire dalla scansione degli ultimi corsi, è uscito un denso studio, che inoltre per la prima volta parla per Carabellese di storiografia filosofica, dando un quadro sintetico ma significativo dei suoi studi di storia della filosofia, di Furia Valori, Il problema dell'io in Pantaleo Carabellese, Pubblicazioni dell'Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1996, che, pur partendo dall'ipotesi di un Carabellese metafisico degli anni 1943-48, attribuisce (vedi p. 8) il corso sull'Io alla seconda parte de L'Essere e la sua manifestazione  e non a L'Essere, come era originalmente voluto da Carabellese come titolo delle sue dispense, tant’è che è poi uscito (a sua cura e con un suo Saggio Introduttivo) L’Essere e la sua manifestazione, Parte seconda. Io, Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze della Formazione, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998 (dove Valori nell’Avvertenza presenta secondo il suo schema il sistema dell’Essere). Pur suggerendo una distinzione tra ontocoscienzialismo e sistema metafisico, Valori nel volume del 1996 non presenta ancora il sistema nella sua interezza che sola potreb­be restituirne tutti o quasi le implicazioni e i significati - ossia il disegno e il suo senso -, anche e soprattutto, come si è detto, nell'interazione con i contemporanei corsi di storia della filosofia, ma concentra l’attenzione soprattutto sulla parte relativa all'Io, che risul­ta in tal modo dispersa e incompresa nel suo posto e nel suo valore nel sistema dell’Essere, seppure, messa da lei in relazione con il corso del 1946-47 riedito a cura di Edoardo Mirri su L'attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere, mirante a restituire una nuova concezione dell’uomo e della soggettività. In tal modo, in altre parole, pur mettendo in risalto il rilievo che l’ultimo Carabellese intendeva dare nella sua filosofia alla soggettività, da un lato non si centra del tutto, a nostro parere, l’obiettivo carabellesiano di una futura scienza metafisica che abbia ad oggetto, dell’Essere, proprio l’Essere in sé Assoluto, ma ci si ferma all’oggetto della speculazione di Carabellese – l’Essere trino Idea-Principio-Sostanza -, senza individuare il progetto, dall’altro, partendo dalla soggettività, se ne aumenta il valore nel sistema dell'Essere, rischiando, nell’analizzare secondo la prospettiva di un nuovo umanismo metafisico soprattutto il piano pluralistico e quello dell’io singolare, un nuovo antropocentrismo lontano dalle intenzioni di Carabellese.

[153] Ma la numerazione della Biblioteca che raccoglie e conserva tutti questi corsi tra il 1943 e il 1948 è progressiva, dunque nell’eventualità che questa nostra ipotesi sia vera, essa non potrà mai trovare il supporto della scrittura – né quello della voce, anch’essa esplicita -,  a meno di non riferirsi a un eventuale appunto della scrivania di Carabellese, da indagare assieme alla sua biblioteca.

[154] Sul simbolismo della Croce, che è anche acristiano nel senso di molto precedente il Cristianesimo, si sta muovendo in ambito precristiano Boris Ulianich, a sua volta allievo dell’ultimo Carabellese, e che alla storia del Cristianesimo ha dedicato tutto il suo percorso di pensiero, e che ha anche promosso una serie di iniziative, di cui lo si deve ringraziare, tese a rischiarare il simbolismo della croce nell’incrocio interdisciplinare di più saperi. Tale rischiaramento è appena agli inizi e gli studi, molteplici e complessi, in prospettiva numerosi: il tema è enorme. Vogliamo però qui far riferimento al Convegno internazionale tenutosi all’Università “Federico II” di Napoli dal 6 all’11 dicembre 1999, di cui vedere gli Atti editi, su La croce. Iconografia e interpretazione (secoli I – inizio XVI), e alla mostra, inauguratasi  ad aprile 2000 al Castel Nuovo di Napoli, su “ La Croce. Dalle origini agli inizi del secolo XVI”, che per esemplari riporta una storia della Croce in ambito cristiano, con un’interessantissima teca di “cocci” del cristianesimo delle origini ricchi di simboli da interpretare. Nel catalogo omonimo, che riporta tali cocci aggiungendovi anche una moneta col simbolo del Chi-Rho di immenso interesse (nella nota successiva si tenta un’interpretazione del Chi-Rho a partire dall’affresco già prima esposto al British Museum), l’interpretazione è affidata piuttosto alla descrizione dei simboli impressi sui singoli pezzi, mentre di notevole interesse è il saggio introduttivo denso di riferimenti e allusioni di Boris Ulianich, Per un tentativo di lettura della Mostra, in cui si parla, tra l’altro, oltre che di croce in termini di segno e non di simbolo, di “scandalo della croce”, perciò irrappresentata nei primi due secoli del cristianesimo, per la portata rivoluzionaria del concetto di resurrezione, vorremmo aggiungere ancor oggi limitato dalla teologia cristiana almeno essoterica, in questo mondo, a Gesù in quanto Cristo.  Ulianich dà dense indicazioni sui problemi che l’interpretazione del binomio morte-resurrezione – in questo senso è estremamente interessante il simbolo impresso sulla lanterna n. 12 di p. 64 del catalogo, dove l’omega è seguita in ordine cronologico a nostro parere da una campana di risveglio, o ancora la croce di p. 85, l’interpretazione dei circoli della quale, piuttosto discussa, è forse esprimibile in termini di ciclo, appunto, come ciclo chiuso (e ritornante su se stesso) in senso non hegeliano ma vichiano, Vico che ricordiamo Carabellese riconosce (i cicli circolari sulla croce sono nove, più uno centrale ellissoidale – o “ovoidale”, ma i due sensi sono opposti – si ricordi che l’ellissi è figura ricorrente non solo in Carabellese, ma anche nella nuova geometria kepleriana, oltre che nella tradizione esoterica pitagorica. Vedi gli studi essoterici di Giorgio Stabile) - comporta in ambito teologico cristiano sin dai primi secoli, soffermandosi poi sulle feste. A questo proposito è sperimentale il lavoro più che trentennale di lettura delle feste religiose popolari meridionali in termini di triade passione-morte-resurrezione che conduce appunto da tempo con modalità di visual anthropology Raffaello Mazzacane (vedi, per un primo punto,  Lello Mazzacane, Struttura di festa. Forma, struttura e modello delle feste religiose meridionali, Franco Angeli, 1985).  Sarebbe in definitiva denso di stimoli e di conoscenze essoteriche un saggio di Boris Ulianich sul valore reale della croce anche in rapporto, oltre che ai suoi segni grafici, anche ai suoi materiali: in questo senso raccolgo le allusioni all’oro, alla gemmatura, ai cerchi, al Cristo con gli occhi aperti, e ricordo, in mostra, il coccio con la figura umana con la croce nella mano sinistra, quella del passato – o del destino da cui si proviene e da superare (togliere, o a cui ritornare?) -, e, sul catalogo, la figura n. 15 di p. 66, in cui lo scorpione simboleggia il suicidio per rinascere. Vorrei infine dire che credo di interpretare la “morte e resurrezione” (minuscolo) di Ulianich non nel senso dell’unicum della Morte e Resurrezione, ma nel senso dell’exemplum della morte e resurrezione: in questo senso assume valore simbolico enorme la vicenda di Lazzaro, a partire dalla quale si può dire che la morte da una vita e il risveglio a un’altra vita è sulla linea di continuità della stessa esistenza intesa come identità dell’Individuum metafisico. Da qui si potrebbero inserire studi sulla continuità della creazione, cui Carabellese credeva, sia in ambito teologico che in ambito cosmologico e delle “scienze esatte” in genere (mi riferisco anche alla matematica e all’odierna scoperta del genoma umano in termini di lettere).

[155] A noi sembra che Carabellese conoscesse, e abbia utilizzato, il simbolo cristiano del Chi-Rho greco (IV sec. d.C., H-P) – vedi immagine in copertina del volume di Carlo Maria Martini, Vivere i valori del Vangelo, Einaudi, Torino, 1996, VI ristampa 1999, poi anche in mostra a Napoli – da un affresco conservato presso il British Museum di Londra. In quest’ipotesi, la Rho , o “uncino”, indica il rapporto tra Principio e Termini, o meglio tra il Principio e ciascun termine, o io, e l’alfa e l’omega poste sul piano orizzontale la diade o coppia circolare Dio Io (si parla qui di diade e non più solo di coppia coscienziale pura o coppia circolare in riferimento alla diade infinita contenuta nel Politico platonico cui fa riferimento Imre Toth). La Chi indica la ventiduesima lettera dell’alfabeto greco, e, avendo anche valore di misura, come misura (cifra) è uguale a 60, mentre la Rho , che è la diciassettesima lettera dell’alfabeto greco, come misura è uguale a 10. In questo senso, il simbolo nel suo complesso, che raffigura una ruota sul piano, rappresenta il tempo infinito (e ciclico, con un punto iniziale e finale del ciclo rappresentato dalla Rho, e un inizio e una fine dei cicli stessi rappresentati dall’alfa e dall’omega posti sul diametro orizzontale, mentre il rapporto tra Dio e io è rappresentato dalla Rho che è posta sul diametro verticale) dato dagli otto raggi. L’incrocio tra chi e rho, che il simbolo rappresenta, nel punto centrale - oltre a tagliare in croce il cerchio secondo i due diametri verticale e orizzontale -, indica la chiave di volta del tempo tra essere e non essere, e, se si valuta il simbolo secondo il suo valore di misura numerica, la cifra è 5, perché la chi, che vale 60, incrocia la rho, che vale 10, nel suo punto centrale, per cui il rapporto è 10/60, o 1/6. O ancora la cifra è 30, perché la rho divide la chi nel punto centrale (60/2=30): in questo caso il rapporto di incrocio tra chi e rho, che è inizialmente di 10/60, diviene di 5/30 (ossia la metà esatta delle due misure iniziali), e questo 5/30 è uguale a 6, ossia ai sei bracci dati dall’incrocio di chi e rho.  E sempre a proposito di simboli esoterici che Carabellese utilizzava per esporre graficamente le sue teorie metafisiche, è secondo noi indicativo, e molto esemplificativo e chiaro se correttamente interpretato, e perciò importante, il grafico che si trova alla fine del primo volume della Dialettica delle forme.  Esso rappresenta per noi non Dio, ma la coppia coscienziale qualitativa (il centro del grafico è detto “Coscienza qualitativa”) Dio Io. Infatti solo in questo senso – quello che si tratti della coppia coscienziale qualitativa  Dio Io, e non del solo Dio, come una lettura superficiale potrebbe far pensare - è spiegabile che, come  si evince continuamente nel testo stesso cui si fa riferimento, il continuo traslitterare carabellesiano da qualità di Dio (come tempo, valore assoluto, ecc.) e categorie usate dall’Io che rimandano a Kant (come sostanza, ecc.) che vengono però poste sempre sul piano metafisico, nella radicalizzazione dell’Io kantiano, e in questo senso vanno lette. Il simbolo esoterico che ci sembra di poter individuare nel grafico è in realtà uno strumento scientifico. Se invece di leggere il grafico sul piano lo si pone come volume nello spazio, e si fanno sfalsare i suoi vari cerchi nello spazio stesso, ci si troverà di fronte alla sfera armillare, ossia alla rappresentazione volumetrica dello spazio tolemaico in cui la terra è posta al centro del sistema solare – e nel caso di Carabellese la terra è identificata col centro del grafico, la Coscienza qualitativa -. Così i vari circoli concentrici che ruotano intorno al centro, e che sono, secondo le nette indicazioni di Carabellese,  penetrativi, ossia tali che ciascun elemento delle diverse triadi che compongono i cinque cerchi intorno alla Coscienza qualitativa (ma c’è da dire che nella sfera armillare, oltre alla Terra centrale, gli altri cerchi concentrici sono otto (nove col Sole) trapassa negli altri due, in un moto perpetuo e ciclico, sono da porre nello spazio, come fasce, o linee o circonferenze, incrociatisi le une con le altre. Secondo il vocabolario (Devoto-Oli, 1990), la sfera armillare è un antico strumento astronomico i cui anelli rappresentano i principali circoli della sfera celeste, la cui rotazione solo in alcuni di essi è oraria. In questo senso, Carabellese utilizza per la rappresentazione del rapporto tra Dio e Io ancora una concezione tolemaica, e parmenidea, dello spazio e del rapporto del centro con esso. Ma da qui nascono le geometrie non euclidee, che però a mio avviso fanno riferimento sempre a un fuori e a un dentro della sfera spaziale (lo spazio-tempo curvo), e all’incrocio dei piani cartesiani derivante dagli assi cartesiani stessi come interni alla sfera spazio-temporale, da cui si dovrebbe finalmente uscire per avere una vera rivoluzione in campo matematico-geometrico (Cartesio è fondante nelle matematiche poiché è colui il quale collega algebra, e quindi matematica, e geometria, nelle funzioni), e dunque anche filosofico. In questo senso trovo estremamente interessante da un punto di vista filosofico il rapporto tra infinito e zero, laddove infinito/0 (infinito diviso zero) dà un infinito più grande (ci sono evidentemente vari livelli di infinito, a prescindere dal fatto che il concetto di infinito è sempre in relazione al finito, cosicché è da preferire, come livello superiore, o meglio qualitativamente diverso, il concetto di Assoluto, che comprende il relativo e non ha con-fini, ossia fine), mentre infinito fratto infinito dà come valore un qualsiasi numero, è indeterminato.

[156] Cfr. Ibidem, in partc. l'Indice riassuntivo e l'Indice schema­tico alla fine della dispensa.

[157] P. Carabellese, L'attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell'Essere, dispensa universitaria A.A. 1947-48, Castellani, Roma, 1948, poi riedito con lo stesso titolo a cura e con Introduzione di Edoardo Mirri, Pubblicazioni dell'Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Magistero, Istituto di Filoso­fia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991. C’è da notare la compresenza in quest’ultimo periodo carabellesiano di due corsi incentrati sull’attività spirituale umana, uno relativo alla manifestazione dell’Essere come sua realtà, l’altro alla logica dell’Essere.

[158] In questa nostra ricostruzione a posteriori a partire dalle dispense e dall'ipotesi di un loro "buco", vogliamo sottolineare il silenzio, per ora, della critica.  La testimonianza di un allievo diretto di Carabellese, Giuseppe Pinto, viceversa riporta dalla voce di Carabellese il progetto “a valle”: in Pantaleo Carabellese, in "Giornale critico della filosofia italiana", a. XXVIII, serie III, vol. III, fasc. I, genn.-mar. 1949, pp. 6- 17, a p. 13, Pinto scrive di: "[...] cinque corsi, dal 1943 al 1948. I primi tre corsi (che, col titolo <<Dialettica delle forme>>, trattavano dell'essere qualitativo, come egli ora preferiva denominare quello che una volta diceva essere oggettivo) col quarto (che tratta dell'Io, cioè dell'essere quantitativo), dovevano costituire, secondo un suo piano, la I parte (la <<Metafisica>>) d'un'opera complessiva sistematica, avente per oggetto il <<Concreto>>, mentre il quinto corso che iniziava la trattazione della <<Logica dell'essere>> intesa come attività spirituale umana, doveva trovar posto nella II parte. La III doveva essere costituita dalla <<Fisica>> cioè dal problema della natura e dell'esperienza [...]." Proprio l'essere i corsi cinque, sino alla morte nel 1948, non esclude che nelle intenzio­ni di Carabellese almeno un sesto corso dopo il 1948, forse il più impegnativo e dunque rimandato, riguardasse Dio come Assoluto. Ciò lo si dice ben consapevoli che la storia, in questo caso la scienza, non la si fa con i se, ma nonostante ciò si ipotizza questo corso con una qualche spe­ranza di certezza a partire dalla visione complessiva di questi ultimi corsi integrata con la conoscenza del pensiero carabelle­siano ad essi precedente, e con un'attenta e approfondita rifles­sione sulla suddivisione degli stessi e sulla loro articolazione interna e con il vaglio critico delle notizie bio-bibliografiche riguardanti non soltanto l'ultimo periodo metafisico, ma anche il Disegno storico e i continui riferimenti polemici e teoretici al Dio unico impersonale e non (solo) trino, e all’Assoluto stesso.

[159] Questo periodo è espresso secondo Sabarini in opere come La Coscienza morale, la Critica del ConcretoIl problema teologico come filosofia, Che cos'è la filosofia?, e inoltre nelle opere di carattere storico come La filosofia di Kant, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, Da Cartesio a Rosmini, Le obbiezioni al cartesianesimo, ecc.  Cfr. R. Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese, in Idem, Criticismo e metafisica cit., p. 89 sgg.

[160] Secondo Sabarini, questa tematizzazione della coscienza che ha l'essere soltanto come suo presupposto apre sul piano della concezione della filosofia  una frattura: o la filosofia, intesa come critica, dà "la serie completa delle condizioni che, in quanto apriori, sono già tutte date anche se l'attività coscien­ziale ha davanti a sé uno sviluppo infinito", oppure "la stessa filosofia, intesa come attività trascendentale, partecipa an­ch'essa del processo infinito dell'attività coscienziale, e dunque non può dare l'esplicazione piena dell'Essere." Cfr. ibidem, p. 90. Qui si inserirebbe la spiegazione del doppio significato che Carabellese attribuisce alla filosofia, da un lato come "scoperta dell'eterno essere", dall'altro come "sforzo e non conquista".

[161] Questa suddivisione di Sabarini mi conforta nella mia ipotesi che il periodo metafisico di Carabellese, pur nella continuità con quello critico, sia da esso distinto. A questa suddivisione del pensiero carabellesiano si rifà Furia Valori, nel Saggio Introduttivo L’Essere e la sua manifestazione. Parte seconda. Io cit., n. 3 di p.10, riportando lo stesso pensiero di Sabarini (1953), Tebaldeschi (1956), Moretti-Costanzi (1964). Inoltre Sabarini ci dà noti­zia che i corsi di metafisica, che si concludevano con quello dell'A.A. 1947-48 su L'attività spirituale umana cit., dovevano avere un'edizione ufficiale, per i tipi della Editoriale Arte e Storia, nella stessa Collana dedicata al maestro in cui era il suo Criti­cismo e metafisica. Cfr. R. Sabarini, Criticismo e metafisica cit., n. 1 di p. 92. Il che significa che oltre all'edizione delle Opere complete di Pantaleo Carabel­lese presso la Sansoni di Firenze, c'era un altro progetto, riguardante però soltanto il Carabellese metafisico, poi fortunatamente ripreso da Edoardo Mirri e dalla sua scuola.

[162] Cfr. R. Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabelle­se cit., p. 96.

[163]  Ivi.

[164] Nel continuo ritorno dell’ultimo Carabellese sul tema della morte e del finito è da vedere l’affermazione recisa del concetto di persona, che trova nell'Es­sere-Sapere come sapere relazionale il suo fondamento. In questo senso la morte non è un opposto, ma soltanto una misura insipiente della vita, dal momento che persona ed eterno coincidono: il pensante-che-vive fa riferimento a un soggetto che travalica i limiti umani e che, nella sua eternità, vive di una vita spirituale della quale la vita umana è un incidente di percorso, seppure necessa­rio alla determinazione dell'essere. Cfr. P. Carabellese, Noi e la morte, in Quaderno Il problema dell'immortalità della Riv. "Archivio di filosofia", n. 1064, fasc. III-IV, 1946, pp. 3-17, dove afferma: "Se noi non vogliamo negare del tutto noi stessi nella nostra moltitudine, [...] dobbiamo concepire la pluralità pura non come particolare, limitata, impenetrabile, ma come infinita, singolare, penetrativa; e questo significa spirituali­tà. Se non si ammettono gl'individui spirituali (apriori), sono assurdi anche gl'individui materiali (empirici). [...] Ecco la scoperta di Cristo (mi fermo alla riflessione pura filosofica) [...].", pp. 8-9, e ancora "In questa alterità pura, quando cioè ci facciamo attivi individui, noi attingiamo l'Eterno, siamo gli individui di Dio, siamo spiriti puri, che in questo attingere non cominciamo e non finiamo, non nasciamo e non moriamo.", p. 10, e poi "[...] la morte è il limite che rende il vivere fenomeno dell'essere. Abolito il limite (negata la negazione) è in pieno l'essere dell'ente che non si risolve nel puro fenomeno (vivere), che cioè non sia soltanto un vivente, ma un pensante. [...] il nostro [modo], copernicano, è anche un credere alla morte, ma è superare la vita e credere all'essere spirituale che sottende il vivere (si ricordi: il vivere è fenomeno, l'essere della coscien­za è essere). [...] Sacra, dunque, la morte, non perché ci immet­te in un'altra vita, ma perché con l'eliminarsi del limite che essa è, del vivere, il vivere, nell'ente che sia, che cioè non sia solo vivente, non sia solo fenomeno, cede il posto all'esse­re.", p. 13, e infine "Vivere dunque devo nella piena coscienza del non essere della mia morte, vivere come se (non è pura ipote­si) la mia morte non ci fosse; vivere ‘essendo’ è ignorare, non temere la morte mia.",  p. 16. Cfr. anche P. Carabellese, L'uomo, estratto dal "Giornale critico della filosofia italiana", a. XXVIII, Serie III, vol. III, fasc. III, lug.-sett. 1949, pp. 261- 78, in partc. pp. 272-78.

[165] Ibidem, p. 102. Non è un limite del Carabellese metafisico (come Sabarini vorrebbe), ma un rimanere ancorato a un’impostazione di tipo critico che evidenzia la continuità tra i due periodi carabellesiani, il continuare a conservare, accanto all'esperienza delle cose in sé, un concetto kantiano di esperienza come esperienza di cose finite e un concetto di essere come apriori della coscienza. A noi sembra che i due tipi di esperienza si pongano lungo una stessa linea di continuità come livelli progressivi di avvicinamento all’Essere.

[166] Ibidem, pp. 95-96.

[167] Qui Sabarini fa una digressione sul sapiente come colui che sa l'essere, e sul fatto che tale sapiente, in quanto umanamente è limitato, non può avere una piena totalità della sua persona, e dunque dell'essere che sa comunque in modo valido. Ciononostante la sua è una chiamata, che proviene dall'essere stesso dall'eter­nità prima ancora che egli ne abbia chiara consapevolezza. Cfr. Ibidem, pp. 97-98 e anche, per la sua concezione della persona, che rimanda alla metafisica ascetica di Moretti-Costanzi di cui anche Sabarini fu allievo, il cap. successivo e conclusivo dell'opera L'esperienza metafisica, in Id., Criticismo e metafi­sica cit., cap. VII, passim e in partc. pp. 122 sgg., dove Saba­rini in realtà spiega il rapporto Carabellese-Moretti-Costanzi, e l'ascesi di coscienza,  come una traduzione metafisica (di Moret­ti Costanzi) in termini personalistici dell'esperienza dell'Esse­re-Sapere di Carabellese. Cfr. ibidem, p. 126.

[168] Ibidem, p. 99. Da qui in poi Sabarini si addentra nella metafisica carabellesiana analizzando "La dialettica", "L'alternativa della qualità", "L'Io infinito e plurimo", ecc., ossia la metafisica carabellesiana così come presentata nelle dispense universitarie degli ultimi anni 1943- 48. In realtà questa è operazione che Sabarini ha condotto espli­citamente in tutto il suo saggio.

[169] Georg Wilhelm Friederich Hegel, Fenomenologia dello spirito, traduz. di E. De Negri, La Nuova Italia , Firenze, I ediz. 1960, 7° rist. anast. 1993, 2 voll., II vol., cap. VIII, Il sapere assoluto, pp. 287-309, qui in partc. da p. 287 a p. 291, citaz. p. 291.

[170] Ibidem, p. 293.

[171] P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., p. 25, ed anche passim, pp. 22-29.

[172] Ibidem, p. 27.

[173] Idem,  Originalità e attualità di Rosmini cit., p. 253.

[174] IdemLa coscienza morale, Tip. Moderna, La Spezia , 1915, cap. I, pp. 3-5 (da questo saggio fino a La storia cit. del 1925 Carabellese li ritiene i suoi primi saggi di ontologismo critico, distinguendo quindi un periodo precritico da uno criti­co).

[175] Un malinteso storicismo, come qui stiamo cercando di dimostrare, se è vero che Carabellese lo vede, nel paragrafo 20 Concretismo e non storicismo del Saggio IX E’ possibile filosofare? (discorso inedito del 1941) di Che cos'è la filosofia?, II ed. con postille e altri saggi, Signorelli, Roma, 1942, pp. 290-97, come la "riduzione di ogni esigenza della coscienza al puro divenire", "riduzione dell'essere all'apparire", "inconfessato fenomenismo" che riduce tutta la coscienza a coscienza empirica e perciò la temporalizza, mentre "la grande novità" del concretismo consiste nella "dimostrazione che non v'ha coscienza, dove non vi siano e pensanti singolari e Assoluto universale, che li sostanzia tutti". Lo storicismo, secondo Carabellese (p. 338 sgg.), risol­ve la spiritualità nella cultura, e in tal modo confonde l'essere realistico con l'essere tout court, mentre l'essere è sì spiritualità immanente alla cultura, ma la spiritualità non si esaurisce nella cultura (che è transeunte e specifica), da cui deriverebbe che il pensante è sintesi e osmosi della cultura da cui proviene. Il valore dell'uomo quindi, lungi dall’esaurirsi nel valore culturale, consiste nel valore etico, inteso da Carabellese come ricerca e attuazione del bello, del bene e del vero: questo valore etico della dignità dell'uomo è eterno, nel senso che nella sua relatività va oltre la vita e attua l'essere in sé, la spiritualità, eterna e universale poiché fonda il rapporto dell'ente con l'essere. Questo essere è l'essere spirituale, che è l'unico essere che ci rende possibile il non negare la coscienza: né l'essere materiale né l'essere realistico l'ammettono infatti senza contraddizione: "Non è dunque possibile che sia ammesso altro essere oltre lo spirituale [...] ‘l'essere indispensabile’ [...] è l'essere spiri­tuale, che puramente e semplicemente è l'essere.", afferma Carabel­lese a p. 340 sg.

[176] Riguardo ai motivi di questa polemica con lo storicismo, Semerari mette in evidenza come è la stessa concezione dell'Esse­re-Coscienza a costituirne i presupposti, dal momento che l'Esse­re-Coscienza si pone come apriori trascendentale del Divenire, sua fondazione e validità. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., Nota introduttiva cit., p. VI.

[177] Ripetiamo P. Carabellese, Critica del Concreto, Libreria Pagnini, Pistoia, 1921.

[178] IdemChe cos'è la filosofia?, in "Rivista di Filo­sofia", a. XIII, n. 3, Bologna, 1921, poi rist. in Id., Che cos'è la filosofia?, II ed. cit., Saggio III, pp. 51-88, e Saggio IV, pp. 89-130.  

[179] IdemL'essenza della filosofia, discorso pronuncia­to alla XXIII Riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze tenutasi a Napoli dall'11 al 17 ottobre 1934, estratto da Atti della Società Italiana per il Progresso delle Scienze, vol. IV, Tip. Fusi, Pavia, 1935, poi rist. in Id., Che cos'è la filosofia? cit., Saggio VIII, pp. 193-204.

[180] Cfr. IdemLa realtà dei fatti storici, in “Il Conciliatore”, a. II, n. 3-4, Torino, 1915.

[181] IdemProblemi filosofici della storia, in N. Abba­gnano, C. Antoni, A. Banfi, F. Battaglia, G. Bruguier Pacini, G. Calogero, P. Carabellese, M. Govi, N. Petruzzellis, A. Carlini, W. Cesarini Sforza, G. Gentile, U. Spirito, L. Stefanini, Il problema della storia, a cura del Reale Istituto di Studi Filoso­fici. Sezione di Pisa, n. 13, Bocca, Milano, 1944, pp. 119-147.

[182] P. Carabellese, La storia, in A. Aliotta, P. Carabellese, A. Carlini, E. Castelli, F. De Sarlo, G. Gentile, G. Lombardo Radice, P. Martinetti, R. Mondolfo, A. Pastore, G. Vidari, Scritti filosofici pubblicati per le onoranze nazionali a Bernardino Varisco nel suo LXXV anno di età, Vallecchi, Firenze, 1925, pp. 21-60, poi rist. come opuscolo Id., La storia, Vallecchi, Firen­ze, 1926.

[183] A questo proposito Raniero Sabarini afferma che la costante preoccupazione di Carabellese fu di "[...] salvare l'essere che apre il processo, e salvare al tempo stesso il processo dalla sua apparente vanificazione. Questo è il tema intimo del suo magistrale Disegno storico della filosofia come oggettiva riflessione pura, che purtroppo la morte ha interrotto ad Agostino [...]". Cfr. R. Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese, in Id., Criticismo e metafisica cit., p. 91.

[184] Eppure ci sembra di aver mostrato che Carabellese crede fermamente nel concetto di progresso e di evoluzione della storia: è proprio questo, da intendere criticamente e da Carabellese criticamente inteso, ciò che guida le sue riletture storico-teoretiche, oltre che molte delle sue teorie speculative. Si potrebbe parlare in questo caso di ottimismo della ragione, anch’esso riecheggiante Hegel.

[185] Cfr. P. Carabellese,  La storia cit., p. 48.

[186] Cfr. Idem, Problemi filosofici della storia cit., pp. 134-139.

[187] Ibidem, p. 125.

[188] Ibidem, p. 132.

[189] Cfr. Idem, La storia, p. 32.

[190] Ibidem, pp. 32-33, 39-41, citaz. p. 40.

[191] Rimandiamo perciò alla nota sul continuo, che ora risulterà più chiara, anche se abbiamo voluto porla in apertura del nostro lavoro poiché il continuo è concetto a un tempo euristico e reale che lo ha attraversato tutto a partire da Carabellese. Ma vogliamo aggiungere che il continuo in Carabellese, come Dio, non si riferisce allo stato in luogo latino, ossia al concetto di spazio (o anche spazio-tempo) e a un soggetto-Dio in esso contenuto (ricordiamo la battaglia carabellesiana sul Dio Soggetto) – come secondo l’espressione comune “io sto-vivo a Napoli” -,  ma esula dalla cosmologia, o almeno da una cosmologia così intesa, e riguarda una concezione impersonale di Dio inteso come Assoluto. Allora ripetiamo l’espressione ebraica del Midrash Rabbà (Genesi, 69; Esodo, 45) secondo cui “Dio è il luogo del mondo e non il mondo il luogo di Dio”: tale espressione, che indica le ascendenze ebraiche della speculazione carabellesiana, è da intendere in senso ancora più radicale di quello cosmologico, anche ideale, poiché a nostro parere, e qui torna il concetto di continuo, nell’inesauribile trascendenza del Principio pur nell’immanenza relativa (dal punto di vista dei termini assoluta, per cui Dio è tutto e tutto è Dio – ancora una volta concezione ebraica) al Concreto, vi è intrinseca la concezione dell’inclusione dell’immanenza nella inesauribilità della trascendenza (l’unica che consente la disposizione gerarchica unidirezionale e non biunivoca secondo cui il Principio è superiore ai termini). Ed è proprio questa disposizione gerarchica, o differenza di livello pur nella relazione diretta, che consente la continuità. Infatti il Principio è continuo nei termini. Ma non solo, poiché a nostro parere la definizione concettuale di Principio è tolta da Carabellese in quella di Assoluto, ad essa superiore. Qui, pur nella continuità, e nella conservazione del rapporto immanenza-trascendenza così come l’abbiamo esplicato, il concetto di Principio, seppur impersonale e non triadico, risulta inadeguato. Siamo veramente all’Assoluto impersonale, e il problema che si pone semmai adesso, successivamente, è quello del passaggio dall’Assoluto al Principio, in termini critici di modi e di perché. La connessione col problema leibniziano, ma ancor prima aristotelico, del passaggio da potenza ad atto, che Carabellese sembra ignorare o togliere nel concetto di manifestazione, è evidente. Sul piano cosmologico vorremmo aggiungere che è a nostro parere riduttiva una Concezione dello spazio ancora come relazione o rapporto tra enti – Concezione di matrice fenomenistica kantiana -, poiché in tal caso si dà un valore gerarchicamente superiore all’ente (sia esso materiale, o reale come l’energia, o anche solo Ideale come la forma) rispetto allo spazio stesso – e per spazio è possibile anche qui intendere ancora una volta lo spaziotempo. Bisogna cioè tornare a una concezione aristotelica e assoluta dello spazio – da distinguere dallo spazio assoluto -, che è, anche se vuoto, entità fisica, per poi poterla togliere, ossia superare, come uno dei livelli dell’Essere. 

[192] Fulvio Tessitore, Storicismo e "historismus" negli anni della formazione di E. de Martino, relazione negli Atti  del Convegno di studio Ernesto de Martino nella cultura europea, organizzato dal 29 novembre al 2 dicembre 1995 dalle Università “ La Sapienza ” di Roma e “Federico II” di Napoli, in coll. con l'Istituto Universitario Orientale e l'Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli.

[193] Ci sarebbe qui da approfondire, oltre che la sua Dialettica delle Forme, anche il suo richiamo a Vico, sia riguardo alla concezione della storia come ritorno ciclico sia riguardo al suo "vitalismo esoterico".

[194] Sul piano del soggetto, Carabellese, che raramente vi fa riferimento riguardo al rapporto tra essere e tempo, istituisce nella sua Critica del concreto cit., alle pp. 26-28 e 31, un particolare rapporto tra essere e tempo quando mette in relazione le tre forme del tempo (passato, presente e futuro) da un lato con le tre facoltà del soggetto (intelletto, sentimento e volon­tà) che qualificano la coscienza umana, e dall'altro con le tre forme che qualificano l'oggetto come valore (vero, bello, bene): "Nella certezza di essere già stati, i soggetti sono stati detti intelletto, l'oggetto è stato detto vero, l'atto concreto conoscenza; perciò la conoscenza è coscienza dell'essere che fu, è coscienza del passato. Nella certezza invece di essere ora, i soggetti sono stati detti senso, l'oggetto bello e l'atto concre­to sentire; questo perciò è coscienza dell'essere che è, è co­scienza del presente. In ultimo, nella certezza di dover essere, i soggetti sono stati detti volontà, l'oggetto buono e l'atto concreto azione. Questa perciò è coscienza dell'essere che sarà, coscienza del futuro. Noi conosciamo ciò che fu, sentiamo ciò che è, vogliamo ciò che sarà." Ibidem, pp. 26-27.

[195] La concezione carabellesiana della storia è analizzata da Tina Manferdini, Coscienza e storia nel pensiero di Pantaleo Carabel­lese, in AA.VV., Giornate di studi carabellesiani, Atti del Convegno tenutosi presso l'Istituto di Filosofia dell'Università di Bologna, 7-9 ottobre 1960, Silva, Milano-Genova, 1964, pp. 247 sgg., che prende in considerazione il saggio carabellesiano Problemi filosofici della storia cit., in AA. VV., Il problema della storia cit. Anche qui Carabellese intende per storia quella particolare forma spirituale in cui l'essere, appartenendo al passato, si afferma come "essere necessario di fatti", irrevocabile e distinto dal "futuro essere doveroso dei diritti" e dal "presente essere libero degli arbitrii". In quanto tale, la storia è oggetto di una delle tre forme dell'attività di coscien­za, l'intendere, e si distingue in modo specifico dalla filosofia perché, mentre questa è riflessione sulle condizioni di possibi­lità del concreto, quella è attuazione del concreto stesso. Manferdini considera però con sospetto l'affermazione carabelle­siana della metafisicità della storia in quanto più che storia meramente umana, in quanto storia spirituale che oltrepassa la storia umana, perché a suo parere rischia di perdere anch'essa il soggetto che fa la storia.

[196] P. Carabellese, La storia cit., in AA.VV., Scritti filosofici pubblicati per le onoranze nazionali a Bernardino Varisco nel suo LXXV anno di età cit., pp. 39-40.

[197] R. Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese cit., in Id., Criticismo e metafisica cit., p. 91. In questa concezione della filosofia e della storia della filosofia in Carabellese Raniero Sabarini si incontra con la medesima conce­zione della filosofia e della storia della filosofia in Hegel espressa da Giuseppe Cantillo a proposito di Hegel, in numerosi luoghi delle sue opere.

[198] P. Carabellese, Critica del Concreto cit., n. 1 di p. 27 sg.

[199] Ripetutamente Carabellese afferma che il suo è un sistema aperto, aperto sia a successivi sviluppi, sia a successivi rima­neggiamenti e aggiustamenti, in grado di colmare le lacune che inevitabilmente il suo pensiero vi ha lasciato.

[200] Carabellese considerava anch’egli la filosofia anche come storia della filosofia, e nel contempo in modo  estremamente attuale la vedeva come coscienza avanzante, coscienza anticipatrice del tempo nel suo sforzo inconcluso. Ciò lo pone, secondo Semerari, di fatto contro lo storicismo di Croce e Gentile, ma allo stesso tempo in consonanza con la concezione della storia critica di Nietzsche. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., p. 7 sg.

[201] P. Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit. p. 144.

[202] Idem, Critica del concreto cit., III ed. riv. e ampliata 1948, pp. 6-7.

[203] Ibidem, p. 19.

[204] IdemIl problema teologico come filosofia cit., p. 11. Più in generale, per l’argomentazione qui svolta, vedi Ibidem, pp. 1-15.

[205] Ci sembra superfluo sottolineare che qui Carabellese per scienza intenda l’ambito della scienza particolare fisico-matematica, come si è più volte ripetuto, e che in genere per conoscenza egli intenda la conoscenza di esperienza di primo livello, ossia quella delle scienze particolari sia fisico-matematiche che storico-sociali, e non l’ambito dell’esperienza metafisica, che egli chiama  sapere, implicito nel sapere comune, e reso esplicito nella filosofia.

[206] Ibidem, p. 116.

[207] IdemIl concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit., pp. 11-29.

208 Ibidem, p. 29

[209] Ibidem, pp. 21-22,  p. 29, pp. 33 sgg., e, per tutta l’argomentazione, anche pp. 37-41, e anche Idem, Il problema teologico come filosofia cit., pp. 1-15.

[210] Kant non ha lasciato soltanto irrisolta la fondazione della metafisica – che dunque assume il ruolo di scienza delle scienze, scienza prima -,  ma pure quella delle scienze sperimentali storico-culturali con la fondazione dei loro giudizi sintetici a priori. Ci si rifà qui all’importante distinzione operata da Heinrich Rickert tra scienze della natura e scienze della cultura che ha attraversato il dibattito filosofico mitteleuropeo a cavallo tra ‘800 e ‘900, e che pure oggi è da inverare in una nuova sintesi che superi tale dualismo delle scienze particolari. Cfr. H. Rickert, Il fondamento delle scienze della cultura, a cura e con Introduzione di Mario Signore, Collana “Pleiadi”, Longo Editore, Ravenna, 1979, ma anche Wilhelm Dilthey, Critica della ragione storica, con Introduzione e Traduzione di Pietro Rossi, I. ed. nella Biblioteca di cultura  filosofica, Einaudi, Torino,  1954, II ed. nella stessa collana, Einaudi Torino, 1969, I ed. Reprints,, Einaudi, Torino, 1982. 

[211] P. Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit., p. 37 e p. 41.

[212]  Tale dialettica intensiva è quella che connota il processo spirituale, che per Carabellese non è soltanto dall’indistinto al distinto o dall’indeterminato al determinato, come in Hegel, ma è anche “il rituffarsi del determinato nell’indeterminato, del distinto nell’indistinto, del singolare nell’unico, dell’esplicito nell’implicito”, poiché altrimenti tale processo spirituale sarebbe un infinito pluralizzarsi che si allontana sempre di più dall’unicità che è il suo Principio. Pertanto la categoria di intensione, o intensività, è quella che connota il flusso dei distinti, quando questi si ritrovano sullo stesso livello dell’Essere: Vedi Idem, Il rinnovamento della filosofia italiana, in Idem, Da Cartesio a Rosmini cit., citaz. nel testo a p. 288, mentre qui in nota si fa riferimento alla n. 1 di pp. 274-75.

[213] Idem, Il problema della filosofia da Kant a Fichte cit., pp. 11-18 e p. 144.

[214] Sul piano del quid facti dell’esperienza, ossia della risposta al quesito di Hume sull’esperienza nella sua fatticità che deve essere lontana dalla soluzione scettica dell’”abitudine soggettiva”, Carabellese, pur  ritenendo Rosmini un caposaldo, però va oltre, e vuol fondare sul piano metafisico l’esperienza concreta.

[215] Idem, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit.,   p. 144.

216 Vedi in questo scritto le pp. relative ai maestri di Carabellese.

[217] Idem, Il problema teologico come filosofia cit.,  pp. 15-17.

[218] Ibidem, pp. 15-19, citaz. liberamente tratta. Ma la posizione e critica e avvalorativa di Kant Carabellese la esplicita anche in molti altri luoghi delle sue opere non necessariamente “kantiane”, come ne L’idealismo italiano. Saggio storico-critico cit., pp. 244-45, pagine molto importanti perché lì si mette a fuoco il rapporto tra sintesi a priori metafisica e conoscibilità della cosa in sé.

[219] IdemLa coscienza morale cit.,passim

[220] Provvisoriamente perché, come si è già suggerito più volte, a nostro parere il nucleo delle sue opere inconcluso dalla morte consiste nel possibile progetto, che potrebbe costituire lo spunto per una continuazione degli studi sul suo pensiero, fuori dalla manifestazione dell’Essere di cui fa parte anche la metafisica dell’io,  della sola metafisica dell’Essere, per una diretta corrispondenza dell’io col Trascendente o Assoluto, solo iniziata in P. Carabellese, La realtà e l’Attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere,  rist. in II ed. a cura e con Introduzione  di Edoardo Mirri, L’attività spirituale umana,  1991,ma dove è scomparsa parte del titolo, e precisamente La realtà. In altre parole, l’Essere del circolo Dio-io, come si è detto così definito per prima da Furia Valori,  è a un tempo dentro e fuori dal circolo stesso come terzo. Ma Valori si riferisce al piano della manifestazione e non a quello secondo noi fondamentale dell’essere reale.   

[221] P. Carabellese, L’essere e la sua manifestazione cit. 

[222] Idem, L’Essere. Parte II: io cit.

[223] Ma anche tutta la sua teoria della coscienza comune, più volte affermata e apparentemente lontana dai suoi scopi metafisici, rientra in questo quadro di impostazione kantiano-hegeliana.

[224] Idem, Il problema teologico come filosofia cit., p. 19.

[225] Ibi­dem, pp. 1-15, e p. 116.

[226] Per conoscenza Carabellese intende in genere la conoscenza di esperienza di primo livello, ossia quella delle scienze particolari sia fisico-matematiche che storico-culturali, e non l'ambito dell'esperienza metafisica, che egli chiama sapere, implicito nel sapere comune, e reso esplicito nella filosofia.

[227] Ibidem, p. 116.

[228] Il continuo rifiuto carabellesiano di antropomorfizzare Dio - che soprattutto mediante l’attributo di esistenza lo renderebbe ente finito tra enti finiti, esistenza di Dio da Carabellese perciò singolarmente negata, che si comprende solo mediante il suo concetto di esistenza di matrice kantiana, e  che lo allontana dalle religioni positive occidentali e in particolare dal cattolicesimo  e dalla coeva filosofia neoscolastica (con cui infatti nel 1936 entra con Armando Carlini, e poi con Padre Lombardi,  nella dura, violenta, e per Carabellese amara polemica sul suo presunto ateismo), questo rifiuto di un Dio antropomomorfo è in qualche modo disatteso anche  proprio ne l’Essere e la sua manifestazione, dove la Coscienza qualitativa come rapporto Soggetto-Oggetto o circolo Dio-Io rende questo livello di Dio Persona, come è stato detto da Furia Valori. La Coscienza qualitativa che, sono parole di Carabellese, fa intendere il senso profondo della Trinità, è personificata nella figura di Gesù, dove l’Io è  Io penso, per esprimersi in termini prettamente trascendentali, per non parlare della possibile traduzione in termini neohegeliani, e precisamente gentiliani, nonostante le mai dismesse critiche di Carabellese al neohegelismo italiano di Gentile, soprattutto riguardo all’Atto e proprio all’Io), e ciò è evidente nel continuo traslitterare non di piano, che è lo stesso e il medesimo, ma di, potremmo dire, ontopoiesi dell’Essere tra Soggetto e Oggetto, che fa di Dio come Coscienza qualitativa nella sua prima emanazione intensiva-espansiva anche la triade Vero Bene Bello di ascendenza greca, ossia Valore assoluto.

[229] Con l’Essere, evidentemente, non si tratta più di manifestazione, ma di vero e proprio realismo strictu sensu, ossia di Ragione e ragione: Carabellese parlerà di Unico, il quale, in quanto apriori-aposteriori (realtà Uno-Tutto) dell’essere degli enti – sì qui anche i viventi e i pensanti – è una particolare configurazione di Dio. In altre parole, gli scritti  sulla manifestazione, da intendere non fenomenisticamente ma in senso reale, a nostro parere, come già detto, sono incompleti e ne prevedevano altri non  sulla manifestazione ma sull’Essere e sul rapporto reale Essere-Io-Dio, oltre che sul rapporto Essere-io, che pure appare per tempo nelle dispense ora edite, ma non è esplicito, essendo l’Essere il terzo che fonda e nello stesso tempo è fuori dal circolo Dio-Io, o Oggetto-Soggetto, da Carabellese chiamato nella fase metafisica Coscienza qualitativa. Carabellese interrompe di forza la sua speculazione filosofica senza aver steso nella sua completezza il sistema non soltanto, potremmo dire, verso il basso, ossia, come è stato detto dall’allievo e  testimone Giuseppe Pinto, nella sua manifestazione nella natura egli intende il problema teologico in termini trinitari cristiani, ossia nel triangolo Essere: Dio Io,  e con questa non esplicitazione ma pure presenza fondante dell’Essere, ma, ci appare, nella sua ovvia continuazione, anche verso l’alto, ossia appunto affrontando l’Essere e il suo rapporto con l’io, di cui infatti riesce a stendere nel 1948, anno della morte,  non solo L’Essere. io, ma anche L’attività spirituale umana. cit., in cui, pur presentando il rapporto tra Essere e io, lo affronta solo appunto dalla parte dell’io, e non anche, pur sottendendola, dalla triade Essere: Dio-Io che ci è sembrato di poter suggerire.

[230] P. Carabellese, Che cos'è la filosofia?, II ed. cit., pp. 200-01.

[231] Il problema del rapporto soggetto-oggetto, centrale nella filosofia kantiana, rimane centrale anche in pieno periodo dell’ontologismo critico e poi nel periodo metafisico, che a nostro parere è segnato ben prima dalla ricerca della metafisica critica: vi è la trasposizione di piano dalla gnoseologia alla filosofia trascendentale all’ontologia alla metafisica. L’Oggetto da condizione di possibilità della conoscenza degli oggetti in generale diviene condizione di possibilità dell’essere degli enti in senso specificatamente ontologico, e poi in senso teologico-metafisico, per cui, in una specifica fase del pensiero carabellesiano, è uno dei nomi, o livelli, di Dio. Infatti l’obiettivo implicito di Carabellese è quello di dare nuova forma al concetto di Dio (problema di contenuto o oggetto della filosofia come filosofia prima, in questo senso problema “esterno” della filosofia), e, dando centralità al problema teologico come problema “unico” della filosofia, di definire con tale centralità unica la filosofia come scienza (problema “interno” della filosofia come problema di metodo e di statuto della filosofia),  in una filosofia intesa anche aristotelicamente come filosofia prima e come sistema nella direzione della scienza teologica, come ha scritto E. Mirri. Ma è necessario distinguere, dopo Hegel, non soltanto la manifestazione dal fenomenismo, ma anche la manifestazione dal realismo – manifestazione in cui è tolta neo platonicamente la distinzione tra essere e apparire e si comincia a delineare il vero realismo carabellesiano.  

[232] Al rapporto soggetto-oggetto Giovanni Cera dedica Sul rapporto oggetto-soggetto nell'ontologismo di Carabelle­se, in AA.VV., Pantaleo Carabellese, il <<tarlo del filosofare>> cit., pp. 143-172, che considera sia gli aspetti gnoseologici che quelli metafisici che Carabellese fa confluire nel rapporto stesso. Cera infatti comprende bene come tale rapporto sia cen­trale nel pensiero di Carabellese, che afferma "l'inerenza orga­nica dell'oggetto al soggetto", per cui l'oggetto è il convenire dei diversi soggetti tra loro, tale che il rapporto gnoseologico non è con l'oggetto, ma tra soggetto e soggetto. "Questa defini­zione dell'oggetto è, però, di natura epistemologica; e  per Carabellese, se tale concetto di oggetto c'è, è perché ce n'è un altro che lo fonda: l'oggettività è  non solo consentire (relazio­ne di consenso) ma realtà vera e propria, ciò che consente il consentire [...].", p. 145. Così la scienza è, kantianamente, fondata perché “[…] è la trascrizione logico-linguistica del mio e dell’altrui essere (oggettivo). L’essere (unico) il suo fondamento. L’essere sa se stesso. L'on­tologia fonda o, addirittura, annulla la gnoseologia.", p. 148. Riguardo al soggetto, per Cera (pp. 155-56) il vero soggetto in Carabellese, che è per lui sia conoscente sia volente che senziente, è l'essere, per cui "[...] hanno torto sia gli intellettualisti perché riducono l'essere a pensiero, dimenticando che esso è anche sentimento e volontà, sia i sensisti o i volontaristi, per l'analoga ragione di esaltare dell'essere una parte a scapito delle altre, sia, infine, coloro che assumono l'essere nella totalità delle sue forme, ma separano queste con confini netti, arrivando a gerar­chizzarle tra loro.", p. 157. Ma Cera centra l’obiettivo quando nella critica al concetto di oggetto in Carabel­lese afferma che egli ha una visione ingenua dell'oggetto come ciò che accomuna: per accomunare, deve essere il "minimum ontologico" che unisce, laddove l'unità dei soggetti  è  per Cera un'esigenza e non un fatto. Vedi Ibidem, pp. 169-72.

[233] P. Carabellese, Che cos’è la filosofia? cit., p. 21.

[234] Ibidem, p. 28

[235] Ibidem, pp. 23 e 28.

[236] IdemCritica del Concreto cit., p. 52. Per tutta l'argomentazione rimandiamo alle pp. 51-62 di quest'opera. A p. 59 Carabellese afferma: “Laddove la conoscenza quale è voluta dall’intimo e vivo pensiero Kantiano, non si intende più, perde ogni suo valore, quando non si ritenga l’intelletto oggettivo insieme con le sue categorie; non si intende più se non si cessa dal dire le categorie produzione di me intelligente. Perciò il nostro Rosmini è stato ben kantiano proprio quando ha messo come oggettivo l’intelletto. “ Ma a Rosmini è dedicato anche un breve paragrafo de L’essere e la sua manifestazione cit., Parte prima, p.130, oltre che il volume Da Cartesio a Rosmini cit.

[237] IdemCritica del concreto, p. 53.

[238] Ibidem, pp. 62-65 e p. 82.

 

[239] Ibidem, p. 55, ma vedi anche pp. 57-61.

[240] Ibidem, pp. 69-71.

[241] Ibidem, p. 82.

[242] Questo tema è ripreso anche ne IdemL'idealismo italiano cit., App. V: L'esigenza dell'oggettività, pp. 266-70, laddove Carabellese afferma che l’oggetto è positiva presenza alla coscienza, ossia interiorità costitutiva della coscienza che solo così è concreta. Anche qui ripete che non è né il realistico fuori né l’idealistico prodotto della coscienza, ma il positivo essere in sé.

[243] Idem,  Che cos'è la filosofia? cit., p. 149.

[244] Idem, Critica del Concreto cit., le citaz. successive sono alle pp. 114-116.

[245] Idem, Il problema teologico come filosofia cit., pp. 110 sg. Per tutta questa argomentazione sull'esperienza vedi però alle pp. 93 sgg., in partc. pp. 105 sgg. dell'opera.

[246] Ibidem, p. 113.

[247] Ibidem, p. 119.

[248] Ibidem, pp. 123-24,  Idem, L’idealismo italiano cit., pp. 244-45. Per una trattazione completa della cosa in sé, bisogna aspettare la metà degli Anni Quaranta con la dispensa dattilografata del periodo metafisico (A.A. 1945-46) Idem, L’Essere e la sua manifestazione cit., Sez. IV del Cap. IV: La cosa, pp. 351-458.

[249] Ma ci permettiamo di dire che, se si guarda all’intenzione scritta di Carabellese di un nuovo Rinascimento della filosofia, se si considera che la Coscienza qualitativa fa parte della manifestazione dell’Essere, e se si guarda all’itinerario carabellesiano che rinviene come suoi maestri Kant e Rosmini, il vero Essere carabellesiano non è questa Coscienza Qualitativa,  o almeno non è quello postcarabellesiano. Il vero Essere che noi oggi vediamo come punto zero della coppia oppositiva e gerarchica Essere-Non Essere, o meglio Non Essere-Essere, coppia che è comunque una determinazione, è la Ragione (con cui infatti Carabellese conclude L’Essere e la sua manifestazione prima dell’estetica, e di Dio come Bellezza), e precisamente la Ragione Assoluta. Noi ipotizziamo una Ragione Assoluta rinvenibile nell’asse Kant-Hegel-Carabellese. Un Essere che, letto biblicamente,  si ponga al di là dell’Essere che dice “Fiat lux”, e quindi dell’Essere della materia e delle sue categorie, e anche al di là dell’Essere che governi giudichi e dia la Legge , la Sua legge ad Essa inferiore, e anche al di là del Nulla inteso come presenza positiva d’essere: almeno i primi due modi dell’Essere sono un Soggetto, un Io, una Persona, concezione che va contro le indicazioni carabellesiane sia riguardo alla soggettività sia riguardo all’antropocentrismo sia riguardo al materialismo. Sappiamo che la Coscienza qualitativa nel suo complesso è interpretabile in tale senso biblico di Persona, e infatti in tal senso la interpretiamo e la analizziamo, ma ci permettiamo pure di cogliere le note di dissenso e le intuizioni, e le anticipazioni, di Carabellese sparse in vari luoghi delle sue opere rispetto agli aspetti citati e anche ad altri. In questo senso noi  interpretiamo i suoi continui ricorsi a Vico, la “gloria dell’Italia”, e alla filosofia italiana come portatrice di germi fecondi da sviluppare, e da sviluppare per un rinnovamento di tutta la filosofia che torni sulla sua strada maestra. Non possiamo non dire che questi ricorsi non possono essere casuali né dettati da motivi men che teoretici, dal momento che sono continui.

[250] A noi sembra che Carabellese, in questa interpretazione dell’Essere a un determinato Suo livello, quello di Principio che è in rapporto diretto con l’io, conoscesse, e abbia utilizzato, il simbolo cristiano esoterico del Chi-Rho greco (IV sec. d. C., H-P – Vedi immagine in copertina dell’opera di Carlo Maria Martini, Vivere i Valori del Vangelo, Einaudi, Torino, 1996, VI ristampa 1999, simbolo anche in mostra a Napoli nel 2000 in un bellissimo e densissimo repertorio studiato e organizzato da Boris Ulianich su “ La Croce ” e il suo simbolismo, (B. Ulianich, La Croce. Dalle origini agli inizi del secolo XVI, Electa Napoli, Napoli, 2000). In questa nostra ipotesi di una conoscenza e di un utilizzo carabellesiani dei simboli cristiani delle origini, il Rho, o “uncino”, indica il rapporto tra Principio e Termini, o meglio tra Principio e ciascun termine, ossia l’io puro  e semplice – che rimanda al rapporto diretto col Dio di Agostino -, mentre l’alfa e l’omega poste sul piano orizzontale stanno a rappresentare la diade o coppia circolare in riferimento alla diade infinita contenuta nel Politico platonico cui fa riferimento il compianto Imre Toth -; e ancora la Chi indica la 22esima lettera dell’alfabeto greco, e, avendo valore di misura, come misura (cifra) è uguale a 60, mentre la Rho , che è la 17esima lettera dell’alfabeto greco, come misura è uguale a 10. In questo senso, il simbolo nel suo complesso, che raffigura la ruota sul piano bidimensionale,  rappresenta il tempo infinito (e ciclico alla maniera vichiana, con un punto iniziale e finale del ciclo rappresentato dalla Rho, e un inizio e una fine dei cicli stessi rappresentati dall’alfa e dall’omega posti sul massimo diametro orizzontale, mentre il rapporto tra Dio come Principio e l’io è rappresentato dalla Rho posta sul massimo diametro verticale), tempo infinito dato dagli otto raggi. L’incrocio tra Chi e Rho, che il simbolo rappresenta, nel punto centrale – oltre a tagliare in croce il cerchio secondo i due massimi diametri orizzontale e verticale -, indica la chiave di volta del tempo tra essere e non essere, che potrebbe essere analizzata matematicamente. E sempre a proposito di simboli esoterici che Carabellese utilizzava per esporre graficamente le sue teorie metafisiche, molto esemplificativo e chiaro, e perciò importante, è il grafico sulla Coscienza qualitativa posto alla fine del primo volume su P. Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione cit.,  La dialettica delle forme, cit. Esso rappresenta non Dio, ma la coppia coscienziale qualitativa Dio Io, e infatti solo in questo senso di coppia Dio Io, e non del solo Dio come una lettura superficiale potrebbe far pensare, è spiegabile. Come si evince da quest’opera di Carabellese, il continuo traslitterare carabellesiano da qualità di Dio (come tempo, valore assoluto, ecc.) e categorie usate dall’Io che rimandano a Kant (come sostanza, ecc.), fa sì che queste vengano però poste sempre sul piano metafisico – nella radicalizzazione dell’Io kantiano -,  e in questo senso vanno lette. Il simbolo esoterico che ci sembra di poter individuare  nel grafico è in realtà uno strumento scientifico:  se invece di leggere il grafico sul piano bidimensionale  lo si pone come volume nello spazio, e si fanno sfalsare i vari cerchi tridimensionalmente, ci si troverà di fronte alla sfera armillare, ossia alla rappresentazione volumetrica dello spazio tolemaico, in cui com’è noto la Terra è posta al centro del sistema solare, per cui la Terra , nel caso di Carabellese, è identificata con la Coscienza Qualitativa posta al centro del suo grafico. Così i vari circoli concentrici che ruotano intorno al centro del cerchio, e che sono, secondo le nette indicazioni di Carabellese, penetrativi, ossia tali che ciascun elemento delle diverse triadi che compongono i cinque cerchi intorno alla Coscienza Qualitativa – ma c’è da sottolineare che nella sfera armillare, oltre alla Terra centrale, gli altri cerchi concentrici sono otto (nove col Sole). – trapassa negli altri due in un moto perpetuo e ciclico, per cui essi sono da porre nello spazio, come fasce o linee o circonferenze incrociantisi le une con le altre. Essendo la sfera armillare un antico strumento astronomico i cui anelli rappresentano i  principali circoli della sfera celeste la cui rotazione  solo in alcuni di essi è oraria, Carabellese a nostro parere utilizza per la rappresentazione del rapporto Dio Io ancora una concezione tolemaica, e parmenidea, dello spazio e del rapporto del centro con esso. Per confrontarsi con i grafici del Carabellese metafisico, rimandiamo alle Tavole edite da Furia Valori (a cura di), in Carabellese, L’essere e la sua manifestazione cit., pp. 305-309 e p. 459.  

[251] Ibidem, p. 114.

[252] Cfr. E. Mirri, Introduzione cit. a P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., pp. V-XX, in partc. VIII-IX.

[253] Cfr. Leo Lugarini, L'idea trascendentale kantiana nel pensiero di P. Carabellese, in AA.VV., Giornate di studi carabelle­siani cit,  pp. 279 sgg., citaz. p. 287.

[254] Giuseppe Semerari, L’antidogmatismo della Critica del Concreto, in AA.VV. Giornate di studi carabellesiani cit, p. 113.

[255] Ibidem, p. 117.

[256] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 16 sg. Qui Carabellese evoca echi troeltschiani, quando Troeltsch, ne Lo storicismo e i suoi problemi, parla di Allbewusstsein come coscienza universale che comprende in sé l’Io mentre l’Io comprende in  sé la coscienza universale. Cfr. Ernst Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, a cura di G. Cantillo e F. Tessitore, 3 voll., Guida, Napoli, I vol. 1985, II vol. 1989, III vol. 1993, vol. I, p. 234.

[257] Giuseppe Semerari, L’antidogmatismo della Critica del concreto cit, p. 128

[258] Ibidem, p.133 e p.143.

[259] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 15.

[260] Ibidem, pp. 123-24.

[261] Ibidem, p. 16.

[262] Vedi Heinrich Rickert, Il fondamento delle scienze della cultura cit., cap. 5 Concetto e realtà, in partc. p. 83.

[263] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 67.

[264] Ibidem, p. 80.

[265] Ibidem, p. 83.

[266] Ibidem, pp. 78-90.

[267] Ne Il mio ontologismo, da un discorso del 3 giugno 1936 alla Biblioteca Filosofica della Società per gli Studi Filosofici di Palermo fondata da Giovanni Gentile e Giuseppe Amato Pojero e diretta dallo stesso Gentile dal 1910, poi stamp. in "Giornale critico della filosofia italiana", a. XVII, Seconda Serie, vol. IV, fasc. VI, dic. 1936, pp. 309-26, poi ristamp. col titolo L'ontologismo critico in Id., L'idealismo italiano cit., cap. X, pp. 169-95, Carabellese afferma, a p. 309, che il filosofare è "sforzo di disvelare l'Assoluto", "sforzo della trascendenza nella e della umana coscienza, sforzo da rinnovare sempre attra­verso la critica, perché  sono consapevole che la mia come ogni altra dottrina va criticamente ripensata, perché sia ulteriormen­te sviluppata nella sua verità".

[268] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 91-92.

[269] Ibidem, pp. 123-24. Ma d'altronde, a p. 128, Carabellese afferma che "[...] nulla [...] si oppone o è assolutamente di là dal concreto, che è spiritualità [...]."

[270] Ibidem, p. 139.

[271] IdemLa filosofia di Kant. I L'idea teologica cit., par. 65, in partc. pp. 384-91.

[272] Edoardo Mirri, nell'Introduzione cit. a P. Carabellese, L'at­tività spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere, a cura di Edoardo Mirri, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991,  a p. 14 afferma che: "La trattazione dunque dell'<<attività spirituale umana>> - che nel disegno incompiuto del Carabellese doveva comprendere la <<logica del sentire>>, quella <<dell'in­tendere>> e quella <<del volere>> [...].", (le ultime due invece non compaiono nell'opera), liddove c'è da aggiungere che già ne L'Essere e la sua manifestazione. Parte I. L'Essere nella dialettica delle Forme cit., sentire, volere e intendere sono comprese come forme della manifestazione dell'Essere: nello schema grafi­co apposto nelle dispense, sentire, intendere e volere sono compresi nel cerchio avente come centro la Coscienza qualitativa, come I livello concentrico denominato delle Facoltà diverse, afferenti alla Parte I: Dia­lettica delle Forme, cap. I: La Qualità come diversità.

[273] Walter Jaeschke, Subjekt und Subjektivitat in Hegelscher Religionsphilosophie, Relazione di apertura alla seconda giornata del Convegno Figure e momenti della filosofia classica tedesca. Fede e Sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, tenutosi nell'Aula "Raffaello Franchini" del Dipartimento di Filosofia "Antonio Aliotta" dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e presso l'Istituto Italiano degli Studi Filosofici di Napoli dal 9 all'11 dicembre 1996.

[274] Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spiri­to cit., vol. 1, Prefazione, pp. 1-61, citaz. pp. 14-15.

[275] Ibidem, p. 19.

[276] L’imprecisione maggiore a cui facciamo riferimento è la mancata comprensione del livello metafisico dell’Io come Io puro di cui si sta discutendo, Io puro che richiede come esigenza della ragione un sesto corso oltre gli anni 1943-48, evidentemente non tenuto, su Dio. Un’altra imprecisione, che deriva dalla prima, è a nostro parere l’attribuzione al corso dell’Io del solo livello quantitativo, imprecisione che è facile criticare con uno studio dell’opera. Ripetiamo la citazione per una maggiore comprensione dell’argomentazione svolta nel testo: “[…] cinque corsi, dal 1943 al 1948, i primi tre corsi (col titolo Dialettica delle Forme) trattavano dell’essere qualitativo […] col quarto (che tratta dell’io, cioè dell’essere quantitativo) dovevano costituire, secondo un suo piano, la I parte (<< La Metafisica >>) d’un’opera complessiva sistematica, avente per oggetto il <<Concreto>>, mentre il quinto corso che iniziava la trattazione della <<Logica dell’essere>> intesa come attività spirituale umana, doveva trovar posto nella II parte. La III doveva [oltre il 1948] essere costituita dalla <<Fisica>> , cioè dal problema della natura e dell’esperienza […]”, dove da notare inoltre che non vi è congruenza nel sistema tra la I parte, la Metafisica , la II , che dovrebbe  essere costituita dalla Logica, e la III , la Fisica , mai attuata da Carabellese, perché posteriore al 1948. Vedi Giuseppe Pinto, Pantaleo Carabellese cit., p. 13.

[277] Walter Jaeschke, Subjekt und Subjektivitat in Hegelscher Religionsphilosophie cit.

[278] Ibidem.

[279] Ibidem

[280]  Edoardo Mirri parla della logica dell’intendere del sentire e del volere in Carabellese nell’Introduzione a P. Carabellese, L’attività spirituale umana . Prime linee di una logica dell’essere cit., p. 14, dove c’è da aggiungere che le tre logiche sono già citate da Carabellese stesso nello schema grafico apposto alla fine dell’opera P. Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione, Parte I. L’Essere nella dialettica delle Forme, cit., nel centro dello schema detto La Coscienza qualitativa, come I livello concentrico detto delle Facoltà diverse, nella Parte I: Dialettica delle Forme, cap. I: La Qualità come diversità.

[281] Walter Jaeschke, Soggettop e Soggettività cit.

[282] M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica cit.

[283] Fabio Ciaramelli, Intuizione intellettuale e nostalgia dell’unità originaria: una nota su alcune pagine kantiane di Hegel e Heidegger,  dal Convegno Figure e momenti della filosofia classica tedesca. Fede e Sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, pubblicato negli Atti Fede e Sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, a cura di R. Bonito Oliva e G. Cantillo, Guerini e Associati, Milano, 1998, pp. 330-352.

[284] Ibidem, p. 330,  p. 333, p. 336, p. 347.

[285] G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., vedi anche Idem, Pantaleo Carabellese, Il “Tarlo del filosofare” cit.

[286] P. Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni. I Kant cit., pp. 53-77.

[287] Qui si rimanda a I. Kant, I progressi della metafisica, a cura, con Introduzione, traduzione e note di Paolo Manganaro, Pubblicazione dell'Istituto di Studi Filosofici, Bibliopolis, Napoli, 1977, p. 67.

[288] Per una storia della vicenda del concorso, della sua nascita, dei suoi vincitori, e dell'interesse kantiano per il tema, vedi Paolo Manganaro, Introduzione cit. a I. Kant, I progressi della metafisica cit., pp. 11- 62, in partc. da p. 19 sgg.

[289] P. Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit., pp. 53-77, citaz. p. 75.

[290] Cfr. Idem, Il concetto della filosofia da Kant a Fichte I Kant cit., p. 63 e p. 77.

[291] I. Kant, I progressi della metafisica cit., p. 67.

[292] Ibidem, p. 106.

[293] P. Carabellese, L’attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere cit., p. 110.

[294] I. Kant, I progressi della metafisica cit., pp. 108-116.

[295] Ibidem, pp. 108-110.

[296] Ibidem, p. 110.

[297] Ivi.

[298] Ibidem, p. 111.

[299] Ibidem, pp. 111-112.

[300] Ibidem, pp. 117-18.

[301] Ibidem, p. 123.

[302] Ibidem, p. 124.

[303] I. Kant, I progressi della metafisica cit., Supplementi, I: L'inizio di questo scritto in base al terzo manoscritto, Sezione prima: Del problema generale della ragione che si sottopone da sé ad una critica, p. 136.

[304] IdemI progressi della metafisica cit., Supplementi, II: Secondo stadio della metafisica. Il suo arrestarsi nello scetti­cismo della ragion pura, pp. 142-43.

[305] IdemI progressi della metafisica cit., Supplementi, III: Note a margine, pp. 147-48.

[306] I. Kant, I progressi della metafisica cit., Fogli sparsi riguardanti i Progressi della metafisica, Tema del concorso, p. 153.

[307]  Idem, I progressi della metafisica cit., Fogli sparsi cit., Sull'incapacità degli uomini a comunicare pienamente tra loro, p. 158. Nella citazione riportata, la parola "differente" è stata interpretata come un errore di stampa: letteralmente nel testo è "indifferente".

[308] Idem, I progressi della metafisica cit., p. 85.

[309] Ivi.

[310] Chaim Perelman definisce l'analogia una forma del ragionamento creativo avente un ruolo euristico nel suggerire l'idea dell'in­conoscibile o dell'inaccessibile all'esperienza e alla verifica attraverso un modello conosciuto che guida l'immaginazione, per cui l'analogia si fonda sulle qualità astrattive dell'uomo ed è elemento essenziale di ogni conoscenza. Cfr. Analogia e Metafora, voce in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino, 1989, vol. 1, pp. 523-34. Vedi anche su quest'argomento  l'importante studio di Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, Il Mulino, Bologna, 1968, in partc., nella Parte Terza Ermeneutica: l'interpretazione analogica,  il cap. XVI: Le analogie dell'esperienza, pp. 775-823, e il cap. XX: La sog­gettività dell'analogia, pp. 1005- 1055. L 'analogia è l'uguaglian­za tra due rapporti qualitativi per cui, dati tre termini, il quarto non è dato ma ha un rapporto con essi tale che serve da regola per ricercarlo nell'esperienza, e così estendere la cono­scenza.

[311] Nella tradizione neoplatonica e agostiniana, il simbolo assume una connotazione metafisica come mezzo per penetrare, attraverso il suo essere "mistica compenetrazione tra mondo visibile e divino invisibile", l'infinita ricchezza del divino nella sua unità. Il  concetto di intellectus fidei, cui stiamo facendo riferimento in Carabellese, è dunque di derivazione agostiniana e si connette all'illuminazione come dono divino. Ma in Carabellese è per noi rintracciabile anche il concetto anselmiano di una razionalità che si connette alla fede, prettamente filosofico. Il simbolo è pertanto da considerare, come nella fenomenologia e nell’ermeneutica, dotato di un "più di senso" irridu­cibile alla razionalità delle regole formali e astratte della logica, Vedi E. Cassirer, Philosophie der symbolische Formen, Oxford, B. Cassirer, 1923, tr. It. di Eraldo Arnaud, Filosofia delle forme simboliche, 3 voll., La Nuova Italia , Scandicci (Firenze), 1961, II ed. anast. da una ed. del 1966 nella collana “Pensatori del nostro tempo”, 1988, in partc. vol. 2, cap. 2, pp. 121-213.

[312] In merito al rapporto tra la Scolastica e Heidegger riguardo al problema del fondamento, vedi AA.VV., Il problema del fonda­mento, Atti del IV Convegno Nazionale dei docenti italiani di filosofia nelle Facoltà, Seminari e Studentati religiosi d'Italia tenutosi ad Assisi dal 27 al 29 dicembre 1972 e promosso dall'As­sociazione Docenti Italiani di Filosofia, numero monografico di "Sapienza. Rivista internazionale di Filosofia e Teologia", a. XXVI, nn. 3-4, lugl.-dic. 1973, in partc. di Johannes B. Lotz, Die Frage nach dem Fundament bei Heidegger und in der Scholastik, tr. it. Il problema del fondamento in Heidegger e nella Scolastica, pp. 281-331, e di Padre Cornelio Fabro, Il ritorno al fondamento. Contributo per un confronto fra l'ontologia di Heidegger e la metafisica di S. Tommaso d'Aquino, pp. 265-78.

[313] Per approfondire in ambito medievistico il concetto di analo­gia, vedi di Etienne Gilson, oltre al celebre L'etre et l'essen­ce, Paris, 1948, e a Le philosophe et la théologie, Paris, 1960, anche Elements of Christian Philosophy, Doubleday & C. Inc. Garden City, New York, 1960, tr. it. di Gianfranco Caletti Ele­menti di filosofia cristiana, Morcelliana, Brescia, 1964, dove,  oltre ad analizzare il concetto di analogia come partecipazione all'essere e base della conoscenza di Dio da parte dell'uomo, Gilson approfondisce il concetto di Atto di essere considerando Dio supremamente Atto in quanto Essere (per cui essere è atto), il concetto di conoscenza in rapporto anche a Dio e ai due ordini di conoscenza nell'uomo, il concetto di creazione anche in rapporto alla Trinità, all'eternità del mondo e all'influenza della Rive­lazione sulla dottrina filosofica, il rapporto tra fede e ragione in filosofia e nella Sacra dottrina, e infine la teologia sacra come fides quaerens intellectum che traspone nel linguaggio della ragione verità che la eccedono. Vedi anche in partc. Parte Seconda: Dio, capp. III: L'esistenza di Dio e V: L'essenza di Dio, e Parte Terza: L'Essere, capp. VI: Dio e i trascendentali e VII: Dio e la creazione. Su Dio e la creazione vedi anche Guido De Ruggiero, Storia della filosofia, Laterza, Bari, 1920, Parte Seconda: La filosofia del Cristianesimo, vol. III: La maturità della Scolastica, cap. XVII: La filosofia Albertino-Tomista, par. 3: Dio e la creazione, pp. 130-36, come anche Ibidem, cap. XVI: Le nuove scuole filosofiche del sec. XIII, par. 4: Tra Agostino e Aristo­tele, pp. 86-106, e ancora Ibidem, cap. XVIII: Le lotte scolasti­che, par. 2: Tomismo e Agostinismo, pp. 166-75.

[314] Riguardo non soltanto al problema dell’analogia come partecipazione in San Tommaso, vedi Padre Cornelio Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, Collana “Studi Superiori”, Società Editrice Internazionale, Torino-Milano-Genova-Parma-Roma-Catania, II ed. riv. e aument. 1950, che in partc., oltrre a concetti come analogia, aristotelismo in rapporto al Cristianesimo e al Tomismo, Atto e Bene in Sant’Agostino e San Tommaso, concreto, essenza ed essere, Platonismo in Aristotele, nella Patristica e in San Tommaso, neoplatonismo e Cristianesimo, sviluppa in particolar modo il concetto metafisico di partecipazione a partire da Platone fino alla piena Scolastica di San Tommaso, con un’analisi  delle diverse forme di partecipazione (predicamentale, trascendentale, intellegibile, formale e virtuale, soprannaturale, del rapporto materia-forma e potenza-atto, ecc.). Vedi anche, riguardo al rapporto metafisico tra Atto ed Essere, il pensiero di Federico Michele Sciacca, Atto ed Essere, Fratelli Bocca Editori, Roma, 1956.

[315] Ambedue le citaz. sono in I. Kant, I progressi della metafisi­ca cit., p. 89; ma vedi pure p. 67.

[316] Ibidem, p. 97.

[317] Ibidem, p. 102.

[318] Ibidem, p. 103, ma vedi pure p. 102.

[319] Ibidem, p. 105.

[320] Ambedue le Citaz.sono in  Ibidem, pp. 106-07

[321] Infatti afferma: "[...]  non  possiamo conoscere proprio  alcunché  della natura  degli  oggetti soprasensibili, della  natura  di Dio, della nostra propria facoltà della libertà, e della natura della nostra anima [...] [ossia] il loro  princi­pio, l'oggetto in sé.” Ibidem, p. 107, ma vedi anche p. 108.

[322] Ibidem, p. 107.

[323] Citiamo: “In questo caso non dovremmo ricercare la cosa sensibile per ciò che essa è in sé, ma soltanto per come dobbiamo pensarla, e dovremmo accettare la sua natura, affinché essa si conformi per noi all’oggetto pratico-dogmatico del puro principio morale, cioè allo scopo finale che è il Sommo Bene. […] cose che costituiamo noi stessi […] solo per il necessario intento pratico, cose che forse non esistono neppure al di fuori della nostra idea […] una totale rinuncia al sapere teoretico (suspensio judici) e il solo nostro interesse, o quasi, è di come definire nel primo [il conoscere pratico-dogmatico] questa modalità del nostro assenso […]”, Ibidem, p. 108.

[324] P. Carabellese, La filosofia dell'esistenza in Kant cit., pp. 221-227, citaz. p. 221-22.

[325] Dell’importanza nel sistema carabellesiano della concrescenza materia/forma come portato del primo maestro di Carabellese Filippo Masci, neokantiano, parla, come abbiamo visto, Giuseppe Semerari, La sabbia e la roccia cit. La concrescenza materia/forma sarebbe allora il primo stimolo che permette a Carabellese il dualismo e la separazione dualistica materia/forma in una visione concretistica dell’essere che si incentra nel concetto di Coscienza omnipervasiva.

[326] P. Carabellese, La filosofia dell'esistenza in Kant cit., pp. 235-46.

[327] A questo proposito Paolo Manganaro rileva come questa esigenza di un "ampliamento della nozione di esperienza" fosse già presen­te in Kant: "Negli anni '93-94 Kant ha ormai chiaramente presente che lo sviluppo del discorso critico può andare avanti solo attraverso una diversificazione degli elementi costitutivi della filosofia trascendentale, spostando di segno contenuti e forme dell'a priori: è la via dell'Opus postumuum." Cfr. P. Manganaro, Introduzione cit. a I. Kant, I progressi della metafisica cit., p. 48.

[328] Ibidem, pp. 427-29.

[329] P. Carabellese, La filosofia dell'esistenza in Kant cit., pp. 235-46.

[330] Ibidem, p. 256.

[331] Ibidem, p. 175, p. 214 e pp. 220-21.

[332] Ibidem, p. 270.

[333] Ibidem, p. 272.

[334] Ibidem, pp. 348-49.

[335] Ibidem, pp. 302 sgg.

[336] Ibidem, pp. 427-29.

[337] IdemL'idealismo italiano cit., p. 58.

[338] Ibidem, p. 92.

[339] Ibidem, p. 93.

[340] Ibidem, p. 181.

[341] Ibidem, pp. 201-02.

[342] IdemChe cos'è la filosofia? cit., p. 216.

[343] Ibidem, p. 217.

[344] Ibidem, p. 218.

[345] Ibidem, p. 222.

[346] Ibidem, nota di p. 222.

[347] Ibidem, p. 223.

[348] Nell'App. V L'esigenza dell'oggettività al suo L'idealismo italiano cit., p. 270, Carabellese ribadisce il concetto della cosa in sé come essere quando afferma che, tolto il residuo realistico, "[...] nello stesso Kant, l'oggettività rimane costi­tuita da quell'ineliminabile ed assoluta universalità della coscienza, che è in Kant, l'idea pura della ragione come noumeno; noumeno, non dobbiamo dimenticare, che è anche la cosa in sé: cosa in sé che, per essere noumeno, è l'essere in sé [...] Essen­ziale al pensiero di Kant non è l'inconoscibilità dell'essere in sé, ma proprio l'essere in sé, che egli, con la riduzione di esso a noumeno, scopre proprio nella coscienza [...]."

[349] Anche Hegel secondo Carabellese è un empirista, "l'ultimo grande empirista", perché, elusa la cosa in sé, "[...] si è trovato quindi nel puro e semplice essere empirico (divenire) con la sua antinomicità, che egli ha sostituito alla cosa in sé scoperta da Kant. [...] bisogna sviluppare quella scoperta in modo da eliminarne la difficoltà: questo il compito che noi abbiamo dato al nostro sforzo filosofico." Cfr. Ibidem, n. 1 di pp. 271-72.

[350] IdemIl problema della filosofia da Kant a Fichte cit., p. 68.

[351] IdemIl problema della filosofia da Kant a Fichte cit., p. 21.

[352] Ibidem, p. 22.

[353] Ibidem, p. 132.

[354] Ibidem, p. 27.

[355] Ibidem, p. 40.

[356] Ibidem, p. 57.

[357] Ivi.

[358] Ivi.

[359] Ibidem, pp. 57-65 e pp. 88-90.

[360] IdemIl problema della filosofia da Kant a Fichte cit., p. 92.

[361] Ibidem, p. 100.

[362] Ibidem, p. 107.

[363] Ibidem, pp. 97-98. E' in Che cos'è la filosofia?, oltre che nella Critica del Concreto,  che Carabellese esplicita cosa intende per trascendentale: il puro atteggiamento filosofico, ossia lo sforzo perenne di cercar-di-sapere-sapendo-di-non-sapere, dunque sforzo e mistero. Questa trascendentalità come "incontrovertibile coscienza pura dell'Oggetto assoluto e dei soggetti che Lo sanno" appartiene alla filosofia come alla reli­gione, che hanno in comune, ciascuna a suo modo, questa ricerca. Così Carabellese risolve il millenario dibattito sul primato della filosofia sulla religione e viceversa: "[...] il primato assoluto e unico (esser Principio) è soltanto dell'Unico, di Dio; e questo primato filosofia e religione non se lo contendono, ma soltanto gareggiano nel professarlo, ciascuna a  modo suo, il quale richiede e non esclude il modo dell'altra." E acutamente osserva che la filosofia non è mai stata ancilla theologiae, poiché ha sempre fornito a quella i suoi "teologismi", riempendo la fede di contenuto. Cfr. P. Carabellese, Che cos'è  la filoso­fia? cit., pp. 352- 54. In Critica del Concreto cit., invece, n. 1 di p. 211 e anche pp. 210 sgg., Carabellese afferma: "Intendiamo per trascendentale uno dei distinti della coscienza (soggetti e oggetto) in quanto riflesso, e quindi in quanto isolato dall'al­tro col quale soltanto esso è concreto. Mutatis mutandis, questo, io credo, intendeva anche Kant per trascendentalità, e perciò diceva critica la filosofia trascendentale: la critica isolava dall'essere, dal quale era invece inseparabile, la conoscenza." La concretezza dunque si dissolve e diviene trascendentalità quando si distinguono in essa i soggetti e l'Oggetto: è questo ciò che fanno su versanti diversi ma complementari, religione e filosofia, che sono perciò per Carabellese le due attività a priori della coscienza, e perciò attività trascendentali, che attraverso la fede e la ragione e rispettivamente "tentano l'Essere nelle sue profondità". La religione parte dalla singolarità soggettiva del me e in essa trova l'Oggetto Unico, Dio, la filosofia viceversa prende le mosse dall'altro distinto della concre­tezza, l'Unico Assoluto, per giungere invece allo sforzo infinito del soggetto che riflette sul tutto.

[364] Ibidem, p. 113.

[365] Vedi Ibidem, pp. 137-39 e pp. 209-23.

[366] Ibidem, p. 256.

[367] Ibidem, p. 270. Ma vedi anche Ibidem, p. 175, p. 214 e pp. 220-21.

[368] Ibidem, p. 272.

[369] Ibidem, pp. 348-49.

[370] Ibidem, pp. 302 sgg., pp. 427-29.

[371] IdemChe cos'è la filosofia? cit., p. 304.

[372] IdemLa filosofia dell'esistenza di Kant cit., p. 135.

[373] Cfr. Ibidem, p. 155 e p. 173.

[374] Ibidem, pp. 490-91.

[375] IdemChe cos'è la filosofia? cit., p. 9. 

[376] Ivi.

[377] Ibidem, pp. 14-15.

[378] Ibidem, pp. 19-20.

[379] Ibidem, pp. 22-23.

[380] IdemL'Essere e il problema religioso cit., p. 137.

[381] Ibidem, p. 138.

[382] Ibidem, p. 148.

[383] Ibidem, p. 149.

[384] Ripetiamo, Pantaleo Carabellese, La teoria della percezione intellettiva in Antonio Rosmini, con Prefazione di Bernardino Varisco, Edizioni Dante Alighieri, Bari, 1907.

[385] Cfr. A. Devizzi, La critica di P. Matteo Liberatore all'ontologismo, in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit, pp. 331-34.  

[386] Vedi Bruno Morabito, Metafisica e teologia in Pantaleo Carabellese, Falzea Editore, Reggio Calabria, 2001.

 

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