STEFANIA SAPORA

       COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO

 

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 Sarno 5 maggio ‘98

“Era martedì”

Concerto tragico a 5 voci e 137 Personaggi

Scritto e diretto da Domenico M. Corrado

Il cuore nella ragione. Dentro e fuori.

Critica di Stefania Sàpora

   

Uno spettacolo bellissimo: avvincente, denso, diretto, complesso, ricchissimo nella sua essenzialità, d’avanguardia, come poteva essere solo alla Galleria Toledo: uno spettacolo per pochi eletti, in un teatro off che fa politica anche nella sua stessa collocazione toponomastica, anche nella sua stessa struttura, con la strada di lastrici di piperno che arriva fin dentro la platea, volutamente circolare e nera come nel teatro greco, cui lo spettacolo su Sarno rimanda in pieno già nel titolo, oltre che nella struttura: un  Teatro, Galleria Toledo, di spessore e trasparente, come le sue grandi vetrate al tempo stesso dentro e fuori dal Teatro stesso, a stabilire una continuità coui Quartieri Spagnoli.

Lo spettacolo invece non è immediatamente trasparente, e bisogna decodificarlo nella sua complessità, nelle citazioni, nei rimandi, nella apparentemente fuori luogo ripetitività di immagini drammatiche dei documentari Rai che poste lì a significare la realtà  - che stiamo vedendo uno spettacolo reale, non una realtà spettacolarizzata - arrivano insieme a tutto il detto, il sentito, il visto della piece nel suo complesso dritte all’uomo intero, non al solo cuore o alla sola ragione, ma al cuore dotato di ragione, o meglio alla ragione dotata di cuore, ossia alla ragione vera, che tiene conto anche dell’irrazionale, dei sentimenti, delle emozioni, quei sentimenti e quelle emozioni che, così rese sul palcoscenico, rendono la ripetitività e scontatezza delle immagini della tragedia di Sarno, già viste nei documentari Rai decine di volte, dotati di un’emozione nuova, di una nuova verità. Una verità finalmente vera. Uno spettacolo politico, se si vuole, ma il discorso è molto più complesso e ricco. E che la chiave sia nella ragione dotata di cuore risulta chiaro nella scena, centrale anche fisicamente, in cui l’attrice seduta a gambe aperte monologa appunto in questa chiave.

L’uomo intero. Filosoficamente i rimandi si sprecano, e scientificamente si sta lavorando in questo senso. Capire, comprendere l’irrazionale. Quello che a noi appare irrazionale, di fronte a cui le colpe degli uomini che potevano evitare la tragedia, le responsabilità, la faciloneria, di sindaci e troppo tardivi assessori responsabili della Protezione civile diventano grottesche, irrisorie, se non si trattasse di verità, di morti  vere, di vite spezzate, appunto di 137 Personaggi, che sulla scena si alternano nelle 5 voci a seconda dei momenti, a seconda delle situazioni, creando un effetto straniante rispetto alla persona-attore, che impediscono l’identificazione, l’adesione a questo o quell’attore, a quel personaggio, e quest’effetto straniante, surreale, che ci crea con la divisione di 137 Personaggi in soli cinque attori è una  cosa molto importante perché molto coraggiosa, si potrebbe citare il cinema d’essai di grandi nomi.

L’irrazionale è sulla scena. L’irrazionale del cosmo fisico, rappresentato dalla montagna che crolla a valle gettando fango, e l’irrazionalità dei comportamenti, dai comportamenti quotidiani, che vogliono, vogliono!, attaccarsi alla quotidianità dei piccoli gesti, della vita di sempre, che scorre senza intoppi, che minimizzano, sottovalutano, si attaccano con tenacia al sempre uguale, a quel quotidiano che rassicura, che non vede e non sente, non vuole, la tragedia che incombe, l’irrazionale fisico che esplode e fa esplodere la quotidianità. Era Kant che parlava del sublime della natura, dell’immensa forza delle emozioni causate dall’immensa forza della natura che irrompe, con la sua enormità incontrollabile, ed era sempre Kant che si meravigliava del cielo stellato. Ma qui cielo stellato non ce n’è, c’è il sublime – da sub-limen – della natura che irrompe selvaggia, irrazionale solo per noi, direbbe Hegel. Ma non solo Hegel: anche l’ebraismo si piega di fronte al Fiat Lux, alla creazione del cosmo fisico che con un comando crea anche ciò che per l’uomo è l’irrazionale.

Si diceva delle abitudini: le abitudini, la morte dell’uomo vero. Dell’uomo che non sa far fronte all’emergenza, che è vero di vitalità nel suo profondo ma ciò non toglie che anche quando la capisce, la tragedia, anche quando ne è cosciente, ci sono Ragioni che la ragione attualmente non spiega. E allora si inginocchia e prega. C’è anche questo nello spettacolo, una soprano che canta “Ave Maria Gratia Plena”, nel Duomo di Sarno, la società che si fa comunità di uguali di fronte al pericolo, una comunità di oranti, perché di fronte all’inspiegabile, di fronte all’irrazionale della natura, quando tutto, ogni sforzo,  sembra inutile, quando si è rotto il muro della quotidianità e della faciloneria, della sottovalutazione e dell’incoscienza, non resta che pregare. Pregare quel Dio che è dentro la ragione di tutti noi, anche degli atei che negandolo lo affermano, non tanto di fronte alla morte, ma di fronte all’inspiegabile, al fuori controllo. La religione nei limiti della semplice ragione, scrive Kant. Un Dio che sulla scena è cattolico, ma potrebbe essere anche altro. Un Dio che aiuta a sopravvivere, che tiene alta la speranza, che è poi l’energia vitale, l’energheia aristotelica: non un ma il Dio, il Dio di tutti noi, il Dio dell’Uomo. E se un appunto si può fare a uno spettacolo sicuramente di grande avanguardia e colto è proprio nell’immettere la figura della Madre, invece che direttamente quella di Dio: un Credo ci sarebbe stato meglio, avrebbe dato più respiro universale e meno meridionalistico, l’allusione mi sembra chiara, a uno spettacolo  che di respiri ne ha molti, e non solo dal quel punto di vista contenutistico del quale per ora ci stiamo occupando.

L’incalzare della tragedia, raccontata dall’unico personaggio abbigliato in modo “normale”, il giornalista, capitato lì per caso per occuparsi di un caso, appunto, ma certo non del caso Sarno, in cui resta coinvolto e fino alla fine distante e “razionale”, ma comunque vittima. Un giornalista che vuole essere la voce oggettivante, e qui vi è una singolare e interessante ambiguità, perché vuole essere al tempo stesso l’attore principale della tragedia greca, il protagonista di un dramma collettivo, e al tempo medesimo se stesso giornalista, la voce appunto oggettiva, la voce fuori campo: una voce in altri termini dentro  e fuori dal contesto in cui puree è immerso fino a restarne appunto vittima. Diverso nei modi, negli abiti, nel linguaggio, ma nonostante ciò anche lui vittima, perché di fronte alla Ragione di Dio nessun uomo è salvo – si potrebbe dire in queesto senso che è uno spettacolo teologico, oltre che politico. Salva invece l’Amore, la forza vitale della mela che si ricompone, la famosa mela platonica della cui altra metà combaciante tutti sono in cerca, che sfida la morte, che la vince anche se apparentemente soccombe: ciò che soccombe è la vita, non l’Amore, che può dare la felicità anche nell’attimo stesso della morte, e che rimanda a quell’essere disposti a dare la vita per l’altro che fa riconoscere il vero amore, e che non è appannaggio solo della coppia, qui rappresentata simbolicamente dalla coppia eterosessuale, ma appannaggio anche di una coppia di sconosciuti – una coppia di eterosessuali che, pur nella sua convenzionalità, si riscatta nel momento in cui non si dice che debbano necessariamente sposarsi, altra nota sicuramente fuori dagli schemi per la sua critica alla formalità della situazione che non bada ai contenuti  come nel caso della coppia formale in cui lei è in abito da sposa e lui soccombe - , e in questo caso il dare la vita per l’altro, che può addirittura configurarsi come il dare la vita per gli altri, contraddistingue l’eroe, quell’eroe anche quotidiano che molti di noi sono nell’uscire da se e dal proprio egoismo per dare: il solipsismo non esiste, è un’invenzione dei cinici, o dei vinti, o dei morti viventi. Non è la speranza la vera vittoria insomma, per quanto comunitariamente intesa come Chiesa invisibile di uguali, ancora per citare Kant – e si potrebbe disquisire sulla scelta dei costumi, tutte tuniche tra il  domenicano (qui si potrebbe fare della facile ironia, se lo permettesse,  sul nome dell’autore) e francescano, tutti di lino bianco dal colore originale - , ma l’Amore: il coraggio di sfidare la fine, il coraggio di guardare in faccia il pericolo, il coraggio di uscire da se per restare uniti all’altro, agli altri: in una parola il coraggio della comunità, non della società, e qui si potrebbero citare ancora libri e libri di filosofia, se non avessimo tutti i giorni sotto gli occhi esempi di piccoli e grandi uomini che lottano per una visione comunitaria in una società che viceversa ha forti spinte particolaristiche: che non guarda l’Altro – sul guardare l’Altro, il distinto ma uguale, si potrebbe fare un lungo discorso.

Lo Stato. Nello spettacolo lo Stato è responsabile, è inadempiente, è irresponsabile, è ritardatario. Ma quale Stato? Lo Stato paternalistico. Lo Stato attuale, non lo Stato reale. Siamo ancora allo Stato ottocentesco, che noi meridionali ci portiamo dietro come una condanna, alla quale facciamo fronte con mezzi spesse volte illeciti, prima fra tutti l’omertà, che, si badi, non è – troppo facile… - quella mafiosa o camorristica, ma quella che appartiene a tutti noi nella vita quotidiana, in altre parole il compromesso, prima di tutto con se stessi: si potrebbe citare il “Fanciullino” di Pascoli, o l’Utopia, e ancora  addentrarsi nella psicoanalisi. Anche qui riandare alle ragioni del meridionalismo occuperebbe troppo tempo, oltre a esulare dagli  scopi di questo scritto. Qui vediamo nello spettacolo la rappresentazione veritiera della piccineria dello Stato meridionale, e anche italiano, ancora legato al paternalismo calmante, aggiustante, e poi alla solennizzazione della morte, dell’evento, con le autorità e tutto il resto mentre la gente piange e si dispera – uno iato insopportabile - , e vediamo solennizzazione e disperazione – un binomio inscindibile nel paternalismo ottocentesco dello Stato italiano ancora nel Terzo Millennio, per non risalire più indietro -   anche e proprio attraverso le immagini reiterate dei telegiornali, che non raccontano la verità che si poteva evitare, ma la verità che non si è voluto evitare, o almeno contenere. Dunque anche  uno spettacolo di denuncia, ma una denuncia forte, essenziale, che concede poco alla spettacolarizzazione, che non strizza l’occhio al grande pubblico, che non cede a facili coinvolgimenti, se per facile coinvolgimento  - mai cosa più complessa non solo da rappresentare ma anche da vivere e da studiare - può mai intendersi la continua reiterazione del binomio che poi binomio non è ragione-cuore. Certo non uno spettacolo indecente, rivoltante nella sua caricatura simpatica della mafia, come Tano da morire: uno spettacolo forte e dignitoso, più che dignitoso, se non si vuol dare a questa parola il suo valore latino legato alla res publica. Uno spettacolo che inoltre pur emozionando molto, a volte sfiorando le lacrime, non lascia lo spettatore “coinvolto”: uno spettacolo freddo, frigido nella sua scarna e ridondante “semplicità”: uno spettacolo vero, più che “bello”.

La struttura greca dello spettacolo, coltissima, è già nel titolo, ma non solo. E’ un coro quello dei cinque attori in tunica bianca, un coro che si aggira lentissimamente sulla scena, trascinando sacchi come cadaveri, trascinando la tragedia. Al limite del mimo, nella mimesi dei 137 Personaggi che si alternano, che si creano come dal nulla, ognuno con la sua storia personale, ognuno con le sue reazioni emotive, ognuno mai col suo ruolo soltanto: sono Persone, non Personaggi. Ci sono le istituzioni, c’è la restituzione di ogni età e condizione sociale, di ogni possibile combinazione di vita, anche di quella dell’emigrante.

Qualche notazione sulla struttura della scena, delle luci, sempre coniche, sempre drammaticamente penetranti, e del suono, che, nella chiave di violoncello classico e straziante nella sua originalità, dovrebbe a nostro parere concludere come linguaggio universale lo spettacolo e non essere soltanto di accompagnamento. Dei costumi si è già detto, così come dell’avvicendarsi da tragedia greca dei personaggi e del loro quasi strisciare sulla scena nei gesti quasi da danzatori nella loro fissa mobilità studiatissima, vittime della loro stessa storia, figure impercettibili eppure tremendamente pregnanti, cui i canti del soprano danno se fosse possibile ancor maggiore risalto drammatico.

Uno spettacolo da vedere, uno spettacolo per pochi eletti.

 

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