STEFANIA SAPORA

                 COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO

 

PAGINA 20 IN COSTRUZIONE

I topoi del pensiero carabellesiano

 

 

I concetti carabellesiani più conosciu­ti - e della cui definizione Carabellese si sentiva portatore originale -, sui quali la critica ha più incentrato l'attenzione ma che in realtà sono di difficile comprensione non tanto per il linguaggio ostico delle sue opere, quanto per il senso implicito che lo pone talvolta in consonanza con coeve riflessioni, talaltra addirittura in anticipo sui tempi come loro prima traccia, sono: il concetto carabellesiano di filosofia nella sua divina inutilità, il rapporto tra "problema interno" e "problema esterno" della filosofia, il rap­porto tra la filosofia e la coscienza comune e l'alter­nativa tra filosofia e religione.

 

a) il concetto carabelle­siano di filosofia: la divina inutilità della filosofia

 

Il primo di questi topoi è senz'altro la considerazione della "divina inutilità della filosofia",  di cui Carabellese si fa quasi un vanto e cui giunge dopo un'approfondita riflessione, non esente da critiche che ne hanno segnato il percorso.

Si ritrova in Carabellese una trattazione specifica del problema di Che cos'è la filosofia?, cui dedica non solo l'omonima opera del 1921, che lascia interdetti per l'importanza da lui attribuita a questo problema se non si tiene a mente che il problema di una definizione della filosofia soprattutto in relazione alle altre scienze, sia quelle storico-sociali che quelle "oggettive" o naturali, era comune a tutto il pensiero filosofico a cavallo tra Otto e Novecento. L'interrogativo cui  Carabellese dedica numerosi scritti, ritornarnando insistentemente col pensiero alla ricerca di una definizione dello statuto della filosofia, è pertanto un residuo dell'opposizione alla crisi di identità che la filosofia subisce dopo il dissolvimento dei sistemi metafisici di inizio Ottocento in cui era posta all'apice della gerar­chia delle scienze. Egli, per il modo stesso di interrogarsi e per le soluzioni che dà a questo interrogativo, si pone nell'ambito di pensiero che combatte contro la divisione delle scienze stesse operata dal Positivismo, divisione in cui la filosofia veniva ad avere un ruolo ambiguo determinato dall'esaltazione della scienza naturale che lo stesso Positivismo faceva. Carabellese, in ciò uomo dell'Ottocento (sebbene come abbiamo visto in molti aspetti del suo pensiero fosse addirittura in anticipo sui tempi  e anticipasse problemi del Novecento ancora dibattuti e in fase di definizione), in questo interrogarsi sul concetto di filosofia mostra di eredi­tare un problema interno al campo filosofico dell'epoca tardo-positivistica e tardo-idealistica, il problema cioè della definizione critica della filosofia. Ma egli dà a questo problema soluzioni sue proprie che lo pongono lateralmente rispetto al dibatti­to in corso nella sua epoca ad esempio in Germania, perché il suo problema è quello della definizione della filosofia non nel confronto-scontro con le altre scienze - siano esse storico-sociali e naturali o più specifica­tamente storiche o storico-giuridiche -, ma nel confron­to, dialettico perché mai risolto in Carabellese, con la religione, e in rapporto alla coscienza comune. In altre parole la stessa impostazione metafisica di Carabellese lo esponeva piuttosto che al pericolo di una confusione della filosofia con le altre scienze (che la riflessione tedesca di quegli anni andava combattendo), al pericolo di una confusione con una concezione di tipo reli­gioso, ed è anche alla definizione  dei rapporti della filosofia con la religione  che egli indirizza i propri sforzi: si potrebbe infatti dire che il suo pensiero, poiché si situa al confine tra filosofia e teologia, in un nuovo territorio fuori dagli schemi codificati di ambedue, si attiri gli strali della cultu­ra neoscolastica.

Può sembrare allora oziosa, dopo più di duemila anni di storia, la domanda carabellesiana circa lo statuto della filosofia, il perché della sua esistenza e ineliminabi­lità, il bisogno di una sua riaffermazione, la defini­zione del suo contenuto e del suo metodo. Ma la questio­ne appare subito meno oscura se la si inserisce non soltanto all'interno di una problematica condivisa da Carabellese con un intero orizzonte di pensiero a lui coevo, ma anche all'interno dell'itinerario di pensiero carabellesiano, chiarendola alla luce della sua inter­pretazione del percorso della filosofia dopo Kant da lui tracciata lungo tutta l'opera Il problema della filoso­fia da Kant a Fichte (1781-1801). Chiedersi che cos'è la filosofia, porsi il problema della sua possibilità, è per Carabellese risalire e ricollegarsi a Kant, che del problema nella Critica si è occupato reimpostandolo in modo nuovo: la Critica come ricerca delle condizioni di possibilità della conoscenza, e dunque anche della filosofia come forma di conoscenza di cui ricercare la scientificità. Il continuo ritornare allora di Carabellese sulle condi­zioni di possibilità della filosofia trova la propria radice nello sforzo attualissimo di dare alla filosofia uno statuto scientifico, nella convinzione carabellesia­na, poche volte espressa e sempre di sfuggita, che la filosofia sia dimostrazione. Ciò non significa che la filosofia non sia anche sforzo, perché è anzi su que­st'aspetto del lavoro filosofico che Carabellese mette continuamente l'accento. Ma la filosofia è sforzo perché continuo sviluppo dei medesimi problemi, e di quelli che da quei medesimi, reimpostati, si generano, in una catena che attraversa tutto l'arco della meditazione filosofica attraverso la sua storia e attraverso il suo futuro. In questo senso, l’obiettivo carabellesiano rispetto alla sua riflessione sulla filosofia diviene esplicito progetto nella domanda che apre Il problema teologico come filosofia, del 1931: “E’ possibile una metafisica critica?” Nell’intero capitolo ad essa dedicato, Carabellese reimposta il concetto di filosofia come metafisica, non soltanto inserendosi attivamente e forse tracciando una nuova linea del neokantismo nella critica della ragione, ma anche collegandosi forse inconsapevolmente  al Dilthey di Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft[1] nella definizione del metodo delle scienze. Infatti da un lato afferma che lo sviluppo del criticismo consiste nella metafisica critica come “l’erede legittima del rinnovamento speculativo posto dal criticismo”, dall’altro ritiene che la metafisica critica è scienza ma in modo diverso dalle altre. In questo Carabellese dà il suo originale contributo alla definizione della filosofia come scienza. Infatti mentre tutte le scienze astraggono “dalla relazione in cui vive” il loro oggetto, che è sempre correlativo - e in ciò la filosofia non si distingue dalle altre scienze perché non raggiungerà mai l’in sé, e in questo consiste il suo sforzo inconcluso, il suo non essere dogmatica ma critica -, la filosofia, pur posta l’irriducibilità dell’Essere in sé a scienza – intesa questa come astrazione dall’Essere concreto – pure ha a oggetto questo stesso Essere in sé, che “è il vero, unico e assoluto essere concretizzato da tutto ciò che è”. La filosofia come metafisica critica è pertanto continuo sforzo, inconcluso perché l’Essere in sé è inesauribile sia in sé che nella sua manifestazione,  di “conquistare” l’Essere in sé, che è distinto dall’Essere concreto in cui pure si realizza. In questo sforzo di conquista dell’Essere in sé, la filosofia non è da Carabellese considerata scienza solo perché egli dà alla scienza un significato restrittivo di scienza astraente e generalizzante e non anche, come in lui stesso è implicito, allargato di scienza concreta che astrae dal Concreto stesso l’in sé: essa è per Carabellese attività teorica. Ma questa apparente limitazione del valore della filosofia ne è in realtà esaltazione, poiché la filosofia come metafisica critica non è una tra le scienze, ma è “l’attività teorica della trascendenza, nella immanenza dell’Assoluto”: il suo valore non è solo quello di conoscenza del soggetto, ma anche dell’Assoluto stesso, è l’attività immanente di conoscenza dell’Assoluto (inteso come genitivo soggettivo). In questo senso non solo il soggetto conosce l’Assoluto, sebbene mai in sé, ma anche l’Assoluto conosce se stesso specchiandosi nella sua immanenza: concetto hegeliano. E conoscenza assoluta potrà esservi solo alla fine della realizzazione.  

In questo senso è da intendere ancor più profondamente la definizione di Sabarini del concetto carabellesiano della filosofia come "scoperta dell'eterno essere". In quanto scoperta dell'eterno essere, la filosofia è positività, non dissolvimento né crisi: il suo sforzo non è destinato a rimanere vano, altrimenti la filosofia non giustificherebbe se stessa e si dissolverebbe. Ma nel voler essere questa scoperta completa esplicazione di tutte le determinazioni dell'essere essa è senz'altro sforzo e non conquista, perché altrimenti la filosofia, nella persona del filosofo,  coinciderebbe con Dio stesso, e il suo sistema sarebbe il sistema assoluto dell'essere. Nello stesso tempo la filosofia è svi­luppo del fondamento, perché, in quanto metafisica, è costru­zione sistematica nella quale il processo stesso trova la sua giustificazione intrinseca a partire dall'affermazione fondamentale che caratteriz­za ab initio la costruzione stessa: in questo senso “la filosofia, in quanto affermazione assoluta, è effettiva conquista, o raggiungimento, del fondamento, ed è sforzo in quanto sviluppo di esso."[2]: in altre parole la filosofia come scoperta dell’eterno essere è da intendere come scoperta che l’Essere fa di se stesso nello sviluppo che – come processo – inizia con l’affermazione fondamentale: Io sono Colui che sono, l’Essere è. E questa scoperta che come attività teorica che la Trascendenza fa su se stessa nella filosofia come metafisica critica è sforzo in quanto sviluppo, ma nello stesso tempo è – sarà - effettivo raggiungimento e conquista nella affermazione assoluta. In questo senso del raggiungimento e della conquista del fondamento si può dire che ab aeterno e in aeternum coincidono.

Se allora Kant ha impostato correttamente il problema della scientificità della filosofia, secondo Carabelle­se, ciò  non lo ha però allontanato dall'averlo risolto ambiguamente. E quest'ambiguità rintracciabile nella Critica kantiana è quella che conduce dopo Kant ad una duplicità di posizioni rispetto al problema della meta­fisica come disciplina che si occupa del sovrasensibile. Da un lato infatti la metafisica come scienza dell'esse­re è stata negata, dall'altro, dice Carabellese, la si è identificata non con la scienza dell'essere, ma con lo stesso problema della filosofia nella sua possibilità: con la critica stessa, dando origine a quello che Cara­bellese definisce il criticismo metafisico, ossia il criticismo che pone se stesso, in quanto conoscenza basata su giudizi sintetici a priori, come metafisica. Qui Carabellese tocca uno dei nodi nevralgici del kanti­smo, quello che rischia di far avvolgere la critica in un circolo vizioso tra premesse e conclusioni, tra ipotesi e tesi. Carabellese non accetta l'identificazione tra metafisica e soluzione del problema della filosofia nella sua possibilità, ché per lui la metafisica, seppure dopo Kant fattasi critica, resta quella che, solo in ciò tradizionale, si pone il problema dell'Essere, e quindi non può proporsi il criticismo metafisico che riduce la metafisica a critica della ragione. Una cosa è la meta­fisica, un'altra la critica: è qui la radice della sua tesi del rapporto tra problema interno e problema ester­no, su cui torneremo.

Ma proprio il  porsi della filosofia come scienza meta­fisica non soltanto a cavallo tra filosofia e teologia ma anche fuori dal ripensamento critico ortodosso della filosofia operato dal pensiero filosofico dopo Kant gli attira la scarsa considerazione della sua filosofia da parte della criti­ca a lui coeva più illustre. Sto pensando a Croce, della cui accusa famosissima e feroce di un'"inconcludenza sublime"  della filosofia carabellesiana Carabellese, come si è accennato, si fa addirittura una bandiera, rovesciandola di segno: la filosofia deve essere inuti­le, nel senso che nessuna utilità, pratica o morale, politica o sociale, e meno che mai personale, deve assoggettarla. Nemmeno scientifica, secondo Carabellese: la filosofia è scienza ma è anche sforzo inconcluso che procede sì progressivamente e sistematicamente, ma non accetta presupposti intesi universalmente, ossia apriori immutabili, e  non può dirsi conoscenza ma sapere che da implicito si fa esplicito che coinvolge oltre al cono­scere anche il volere e il sentire, in altre parole l'esistenza tutta dell'individuo che la pratica come ricerca. Ciò significa che la filosofia come scienza è esperienza. Questa concezione carabellesiana della filosofia è vicina  al concetto jaspersiano del filosofare come immanente alla vita, come pensiero che si fa, in pro­gress, e al concetto diltheyano di un coinvolgimento dell'uomo intero nella filosofia intesa come sapere e non come scienza rigorosa e dimostrabile universalmente nel senso della duplicabilità. Il rigore e la dimostra­bilità della metafisica come scienza sono nell'aderenza esperienziale all'atto che travalica il soggetto, nella fede nel sapere.

Ma soprattutto, questa concezione che Carabellese ha della filosofia riconferma la sua interpretazione estre­mamente moderna di Kant perché allontana Carabellese da quelle concezioni che mettono in luce di  Kant gli aspetti ancora vicini al nucleo più dogmatico del pensiero illuministico, ossia a una concezione della filosofia come scienza rigorosa avente categorie appunto valide universalmente nel senso di non passibili di  mutamento storico-temporale: Carabellese è ancora una volta lontanissimo dalle interpretazioni più ortodosse del kantismo, e avvicinabile invece, con le dovute cautele, a quel ripensamento che del concetto kantiano di ragione pura come non immutabile nelle sue categorie, ma pur sempre universale – e forse universale in senso non solo soggettivo e gnoseologico, ma più profondamente oggettivo e metafisico nel suo oggettivizzarsi -, viene  oggi fatta esigen­za da più parti, e che noi consideriamo frutto dell’incontro tra Kant e Hegel. Inoltre questa concezione di un muta­mento di cui è passibile la ragione non più universal­mente necessaria e valida, e dunque anche la filosofia, spiega l'apertura che Carabellese reputa necessaria per ogni sistema filosofico e il suo risentire dell'atmosfe­ra culturale comune evidentemente a tutto il pensiero filosofico otto-novecentesco dopo l'avvenuto "ritorno a Kant", ossia a una concezione critica  che di Kant fa risaltare non gli aspetti più tardamente illuministici ma gli aspetti più proficuamente critici appunto, in un'accezione del sistema non più inteso sia idealistica­mente sia  positivisticamente, ossia come sistema chiuso e definitivo, ma, in rigoroso spirito scientifico, aperto a nuovi sviluppi e a nuovi rivolgimenti che possono anche essere rivoluzioni scientifiche alla maniera di Kuhn, ossia come rivolgimenti degli apriori stessi di tutto il sistema scientifico stesso, in una nuova visione scientifica che mantenga rileggendoli gli apriori conformi al nuovo sistema che è in grado di risolvere problemi che il precedente lasciava insoluti o non vedeva, e che tralasci come obsoleti quelli che in questa nuova visione non trovano giustificazione. Di una di queste rivoluzioni Carabellese era forse consapevole portatore: nel combattere il realistico dualismo soggetto-oggetto e la dualistica separazione tra essere e conoscere, nel ricercare oltre l'Io puro, sempre all'interno dell'idealismo, quell'Assoluto di cui l'Io puro e l'Atto puro non sono che manifesta­zione e processo, nel trasfondere la gnoseologia nell'ontologia, nel coniugare l'essere con il divenire, e nel porre l'Essere come prius rispetto al Concreto, Essere di cui l'Idea costituisce, nel ritorno all'idea­lismo più puro e più vero, che è quello assoluto, il cuore e il motore.

Allora per Carabellese la filosofia, dichiarata nella sua divina inutilità e assunta nella sua inconcludenza sublime, ma anche ribadita nella sua scientificità dimostrativa che è apertura che non può che essere perenne – ossia fino alla fine dei tempi -, è sottolineata, in consonanza con una lunga tradizione di pensiero, nella sua indispensa­bilità, e ciò perché la filosofia tematizza quello che le altre scienze tralasciano ma pure presuppongono, ossia l'Essere: in questo la filosofia si caratterizza nel pensiero carabellesiano come metafisica, aristotelicamente filosofia prima che tiene però conto di tutto il percorso della filosofia sin lì oggettivato, rileggendolo attivamente in una reale, potremmo dire, attività spirituale umana.

Allora in conclusione l’espressione di “divina inutilità della filosofia” è passibile di essere letta in un senso più profondo di quello della lontananza della filosofia dagli scopi del vivere umano: proprio come “divinità” della filosofia in quanto pensato autopensante del pensiero. In questo senso la filosofia è teologia come logos di Dio (ancora una volta genitivo soggettivo) in fieri.

 

 

b) il rapporto tra "problema interno" e "problema ester­no" nella filosofia 

 

Dal problema di Che cos'è la filosofia? deriva, collegandovisi strettamente, un altro dei topoi del pensiero carabellesiano, quello del rapporto tra problema interno e problema esterno della filosofia. In quell'interrogar­si sul ruolo della filosofia e sul suo statuto scienti­fico, infatti, Carabellese pone anche la questione del rapporto tra quello che definiva il "problema interno"[3] della filosofia, ossia il problema della sua stessa possibilità, su cui si interroga con continuità in  molte opere, e quello che definiva invece il "problema ester­no", ossia il problema del suo oggetto.

Secondo Carabellese, i due problemi non sono solubili se non in modo correlativo, pena l'astrattezza e unilateralità della soluzione. Non solo: risolvere la questione trascendentale circa la possibilità della filosofia implica aver raggiunto la concezione, che la Critica kantiana ha impostato, che la realtà sia concretezza[4], ossia che essere e conoscere non sono separati, e che dunque l’oggettività della conoscenza è possibile. Se Kant ha posto con la critica della ragione la questione della possibilità della conoscenza, è stato per risolvere, attraverso tale questione, il problema della filosofia come scienza, che la Critica ha contribuito ad impostare. Ma nel Kant critico rimane irrisolta la questione dei giudizi metafisici a priori, e dunque anche la questione della metafisica come scienza,  proprio perché in essi problema della possibilità della scienza metafisica – problema interno - e problema dell'oggetto di tale scienza – problema esterno - sono strettamente collegati: la possibilità della filosofia come scienza metafisica è in stretta correlazione con la sua essenza di speculazione sull'Es­sere. E poiché in Kant vi è ancora separazione realistica tra cosa in sé, come essere al di là del conoscere, e fenomeno, e la sintesi è sintesi fenomenica che non raggiunge la cosa in sé, per Kant pensabile ma non conoscibile, la conoscenza è conoscenza di fenomeni, e la metafisica come scienza dell’in sé è irrisolta nella questione della sua possibilità, sebbene in quella del suo oggetto essa sia definita nelle tre idee della ragione, così come è definita in quella del suo strumento, appunto la ragione. Ma in Kant la conoscenza è comunque reale e non apparente a partire dal concetto di esistenza – che appunto non è concetto - e dalla funzione dell’intuizione, che consentono a Kant di oltrepassare l’ambito in sé chiuso della coscienza come conoscere e di raggiungere la realtà della cosa come essere: con “la sinteticità kantiana si ha la fusione della logicità con la realtà come tale, ossia l’ontologicità della conoscenza”[5]. Questo della sinteticità kantiana è il primo passo verso quella concretezza che Carabellese mira a porre in evidenza come il contributo più originale della sua filosofia. Ma in Kant, nonostante la scoperta della sintesi, poiché la metafisica deve essere scienza sintetica a priori dell’in sé, e la sinteticità kantiana – come l’intuitività dell’esistenza – è fenomenica, la questione della metafisica non può essere risolta. Carabellese vuole dare una fondazione della metafisica come scienza, problema aperto e impostato ma lasciato irrisolto da Kant, e aprire la strada alla conoscenza dell’in sé proprio a partire dalla concretezza sia gnoseologica che ontologica. E fa ciò ponendo correttamente in luce la pertinenza, ma anche la distin­zione, dei due problemi della filosofia, esterno e interno, che implica la distinzione, e  non l’identificazione come secondo lui si è avuta nell’idealismo post-kantiano, tra filosofia e concretezza[6]. Infatti quello che può definirsi come “criticismo metafisico” – Carabellese appella così l’idealismo post-kantiano poiché ha secondo lui trasformato in metafisica la Critica - non ha fatto che confondere il problema esterno col problema interno, facendo appunto divenire metafisica quella critica della ragione che era propedeutica alla fondazione della metafisica, ma non era né metafisica né fondazione della metafisica come scienza. L'idealismo post-kantiano ha  eluso il problema della fondazione della metafisica come scienza, nell’elevazione del soggetto a Spirito che autocrea la realtà negando l’oggetto. Tale problema Carabellese lo vede aperto davanti a sé, come compito del presente filosofico. Nella sua soluzione il punto fermo raggiunto da Kant da cui ripartire è, appunto, il concreto che consente l’ontologicità della conoscenza. Ma tale concreto è in Kant ancora gnoseologico, per cui il proseguimento di Kant significa anche il suo superamento “nella considerazione più alta della spiritualità, che implica una critica più ampia, della coscienza e non della conoscenza”: la critica del Concreto, nella quale la filosofia trova la giustificazione alla propria universalità e necessità – alla propria indispensabilità – nel suo essere comune e sottesa a tutti i valori spirituali che contribuiscono a formare e attuare la coscienza (arte, religione, etica, poesia, ecc.), aprendo il problema della sua distinzione dalla coscienza comune a tali valori.

Ma essenziale a noi pare, oltre il Concreto come punto fermo da cui partire per una soluzione sia del problema interno sia del problema esterno della filosofia col suo porsi sul piano della ontologia e non più della sola gnoseologia, anche la considerazione carabellesiana dell’intuire in Kant come  “il punto limite genetico della conoscenza, nel quale la conoscenza non è ancora tale perché è ancora esistenza, e viceversa l’esistenza non è più esistenza perché è già conoscenza”[7]:  forse è qui la chiave per comprendere da un lato il rifiuto carabellesiano per l’esistenza di Dio, dall’altro per costruire coerentemente col suo pensiero, integrandolo a partire dalle sue stesse premesse,  la possibilità della sintesi a priori metafisica, e dunque della metafisica come scienza.

 

 

c) il rapporto tra la filosofia e la coscienza comune

 

Nella considerazione della spiritualità come essenza del pensante che si esplica nel complesso del suo vivere – e quindi del suo fare anche oltre la conoscenza -, abbiamo accennato al fatto che la filosofia intesa non come disciplina specifica dell’in sé ma come atteggiamento spirituale comune dei pensanti-che-vivono si pone dunque come l’universale e necessaria condizione del loro convenire. E’ questo ciò che Carabellese intende per coscienza comune. A questo punto si salda un'altro dei topoi della filosofia di Carabellese, quel suo ricercare il rapporto tra filosofia e coscienza comune, dal momento che la filosofia come disciplina specifica può confondersi – e invece deve trovare la propria giustificazione, la propria critica - con la filosofia come atteggiamento spirituale comune a tutti i pensanti: se infatti essa è comune a tutti, perché tematizzarla? Ove la sua specificità? Se la coscienza comune in Carabellese è sapere implicito, la filosofia, come sapere specifico, è esplicitazione di quell'impli­cito che la coscienza comune già da sempre sa, cioè ha dentro di sé, pur senza conoscerlo in modo esplicito. Se la coscienza comune, nel suo convenire al di là della relatività e diversità delle visioni specifiche, ha come suo oggetto implicito l’in sé, la filosofia come metafisica tematizza appunto l’in sé. E poiché l’in sé per eccellenza, l’Oggetto fondante è Dio – inteso come l’Assoluto -, questo Oggetto che fonda la coscienza non dei soli credenti, non dei soli uomini, ma dei pensanti in generale, è l'implicito che la filosofia esplicita in uno sforzo infinito ma non inconcluso, ossia positivo. E poiché questo Oggetto che la filosofia esplicita è Dio, la filosofia, ancor più che metafisica, è teologia: la metafisica critica si pone inizialmente, a partire dal Concreto carabellesiano, come teologia, rispondendo in primis – delle tre domande metafisiche su Dio, Io, Mondo[8] – a quella su Dio: Dio è Oggetto puro di Coscienza. Ma c’è di più: in realtà Carabellese unifica le tre domande in una sola. Dio, Io, Mondo non sono più triadicamente separati, distinti, direbbe Carabellese. Essi sono in compenetrazione reciproca a partire dal concetto di Dio come Uno-Tutto, ma posti a un tempo in ordine gerarchico-inclusivo e in relazione reciproca. Potrebbe dirsi che è quasi un gioco di combinazioni matematiche, quelle possibili sia biunivoche che univoche a seconda dei livelli delle relazioni possibili, orizzontali e verticali. Così se Dio comprende il Mondo e l’Io, ciò non è viceversa, se non intendendo con Dio un suo livello che non è l’Assoluto. Pure il Mondo comprende l’Io, se con Mondo intendiamo il Mondo delle idee o anche la Coscienza. Si potrebbe continuare cambiando il rapporto da gerarchico-inclusivo a distinto sullo stesso livello, come ad esempio nella relazione biunivoca tra Dio e Io che è stata chiamata circolo. E ancora una combinazione matematica possibile è quella del rapporto diretto ma non, seppure reciproco, bi-inclusivo tra distinti gerarchicamente, come sono Principio e termini, o Dio e io. Ci stiamo rifacendo, oltre che alla matematica, nello specifico alla teoria degli insiemi e alla geometria[9]. E’ questo il senso profondo del teismo carabellesiana, radicale, secondo il quale Dio è tutto e tutto è Dio, senso radicale che risale, al di là delle sue radici filosofiche, in quelle religiose all’ebraismo, e che Carabellese assume[10].

L'idea della coscienza comune come implicito che la filosofia rende esplicito è da ricercare in un universalismo, se non cristiano, sicuramente illuminista, che convergono anche in un interessante soffermarsi sull'intersoggettività: "La coscienza comune, dunque, avendo radice nell'unico identico, consiste nel riconoscerci molti tra fratelli nella unicità di coscienza [...] nella identità di coscienza [...] quel che è sempre stata e sarà la filosofia [è] proprio [...] questa consapevolezza immancabile, da questi immancabili stati d'animo, che abbiam visto costituire invece la coscienza comune [...]"[11] Ma bisogna intendersi sul concetto di coscienza comune: essa non è quella "dei molti" a loro esplicita, bensì "[...] quella dei pochi, che spesso incompresi dal loro tempo, sopportano l'incomprensione [...] la coscienza che i molti ostenta­no [...] è soltanto coscienza volgare non realtà spiri­tuale. [...] Coscienza comune è, dicemmo, coscienza ineliminabile da ciascuno, perché condizione del reciproco comprendere [...] è la stessa coscienza."[12]  Vi è dunque una coscienza comune a tutti ma implicita nei molti ed esplicita solo nei pochi (quei pochi che sono poi incompresi dai molti della coscienza volgare perché portatori di un pensiero avanzato rispetto al proprio tempo, inattuale), una coscienza che è comune nel senso che è condizione del reciproco comprendere, e che dunque non è un sapere particolare, ma la base sottesa a ogni sapere particolare, è la coscienza nel suo individuarsi molteplice nelle diverse forme e nei diversi individui. E la filo­sofia, in quanto sforzo di esplicitare questo sapere comune che è la coscienza comune, è un sapere non sepa­rato dalle altre forme di sapere e ad esse affiancato, ma coscienza comune esplicita del suo tempo presente che diverrà possesso futuro delle altre forme di sapere, in ciò finendo di essere filosofia per andare ad arricchire quelle altre forme di attività spirituale: "L’esplicato, come tale, renderà più piena la vita spirituale concreta, diverrà possesso delle varie forme spirituali, ma come possesso, [...] vivente so­stanza di concretezza, essa non è già più filosofia."[13] Secondo Carabellese dunque, la filosofia di ogni singolo pensatore è sforzo di esplicare ciò che è già implicito nella coscienza comune, che rappresenta così non uno speciale sapere, ma ciò che è comune nel suo molteplice individuarsi in ogni coscienza soggettiva. La storia della filosofia[14] è dunque storia di questo esplicitarsi dell'implicito che è la coscienza comune. In quest'opera di presa di coscienza dall'implicito all'esplicito, la filosofia crea le premesse perché quella stessa coscienza comune avanzi nel suo cammino di consapevolezza, lasciando dietro di sé come coscienza volgare - è un'importante delimitazio­ne carabellesiana questa della coscienza volgare rispetto alla coscienza comune - le "morte cose" che la filosofia ha da tempo abbandonato. Infatti, poiché i concetti sono sempre formazioni storiche, ecco che da un lato esiste la storia della filosofia come storia dei concetti storicamente formatisi per esplicitare la coscienza comune, e dall'altro si danno concetti filoso­fici non più rispondenti allo scopo di esplicitare l'implicito della coscienza comune, concetti obsoleti che devono esser criticati e sostituiti con altri che rispondono meglio alle nuove esigenze della coscienza comune. Non che l'implicito divenga obsoleto, dato che l'implicito è l’in sé, e in primis l'Oggetto puro, è solo che divengono obso­leti i termini, umani e storici,  entro i quali quell'implicito si fa esplicito nella storia della filosofia, in cui comunque rimane a traslucere per un verso in modo via via più consapevole, per l’altro in modo perenne quello stesso in sé che la ragione già da sempre sa. Così il valore della filosofia nella sua storia è quadruplice: rendere visibile l’in sé nei singoli concetti (il cui valore primario è appunto nella loro capacità di svelare l’aletheia come verità perenne), attuare nella storia in modo via via più consapevole la coscienza comune come coscienza implicita che si fa esplicita, far avanzare nella cultura come “vita spirituale concreta” la coscienza comune esplicita, e infine divenire, trasformandosi in non-più-filosofia, possesso delle altre forme di attività spirituale in quanto “vivente sostanza di concretezza”.   Ma qui si pone un problema: se le determinazioni in cui l’implicito si fa esplicito sono storiche e la coscienza è coscienza avanzante, quale rapporto lega implicito e esplicito, in sé e storia? Non vi è, in altre parole, una necessità metafisica nell’attività, nella storia, nella filosofia e nella cultura? E come fa Carabellese, nella intensione e non estensione delle forme del tempo, a negare - in questo plesso di livelli così strettamente interrelati - al futuro e al divenire inteso come processo progredente un valore preminente?

 

d) il rapporto tra filosofia e religione

 

Altro tema ricorrente non solo del pensiero carabelle­siano ma anche della critica che a lui si rivolge[15] è quello che  egli definisce dell'alternativa tra filoso­fia e religione, alternativa inevitabile se ambedue insistono sullo stesso oggetto, la trascendenza, che non può non riguardare anche la filosofia come metafi­sica[16] e più ancora come teologia. Ambedue dedicate alla trascendenza, la religione è per Carabellese trascendenza nella pratica, la filosofia trascendenza nella teoria, nel senso che alla trascen­denza la religione si rivolge con rituali e preghiere che coinvolgono in prima persona l'io del soggetto che si annulla nel rapporto con l'Oggetto come Tu, la filo­sofia si rivolge con la speculazione che invece lascia da parte l'io per meditare, attraverso una ragione che abbiamo visto coinvolgere anche la fede, sull'Assoluto in sé. 

Religione e filosofia però, proprio in quanto ambedue aventi come proprio territorio il metafisico, sono ciascuna avocante a sé un diritto di preminenza sulla vita umana, ciascuna "esigenza di trascendente" a suo modo e con i propri strumenti[17]. Chiedono  in altre parole a coloro che le praticano ciascuna una esclusivi­tà rispetto all'altra.

Ma se esse sono apparentemente incompatibili, si può forse interpretare la visione di Carabelle­se come auspicio che religione e filosofia, proprio perché ambedue - in sé, ossia nella loro purezza  - aventi ad oggetto il Trascendente, possano proficuamente collaborare per abbattere gli steccati che dividono la religione confessionale e la filosofia dogmatica (Carabellese la definisce sistematica) e, abbandonando con un lavoro critico i dogmi di ciascuna, enucleare una nuova metafisica che non sia né laica né confessionale, bensì frutto dello sforzo congiunto dei millenni di speculazione che sugli opposti fronti della religione e della filosofia si sono fatti: in questo caso, esisterà solo una teologia, come sforzo scientifi­co di speculazione metafisica sul problema dell'Essere, e dunque di Dio. Agli occhi di Carabellese, infatti, l'uguaglianza tra religione e filosofia, nella sua epoca,  sta nella forma dogmatica che  ambedue hanno assunto  nel corso della loro storia, dogmaticità che, ponendole in realtà  come fedi, ha fatto sì che si fronteggiassero irrisolte nella loro antiteticità,  come due Weltanschauungen totaliz­zanti, due concezioni della vita complementari e opposte (motivo questo che riecheggia temi analoghi dell'ultimo Jaspers, quello de La fede filosofica di fronte alla Rivelazione). Come la filosofia, che è per Carabellese nella sua purezza un filosofare, un pensiero in fieri, si ipostatizza erroneamente in un sistema, così la religione, che nasce come fede interiore, si dogmatizza e si fa istituzione, e qui sta la loro differenza: nel fissarsi la religione in dogmi autoritari, la filosofia in sistemi personali.  Sistema e dogma, istituzione filosofica e istituzione religiosa sono gli aspetti deteriori dell'oggettivazione dell'esigenza filosofica e dell'esigenza religiosa, esigenze che si pongono come alternative solo quando non si considerino "[...] il filosofare e l'adorare come le due condizioni trascen­dentali della coscienza [...]"[18]             (soggettiva) che nella loro purezza originaria costituiscono per Carabellese appunto due esigenze fondamentali dell'uomo. Infatti il Carabellese maturo - pur conservando degli anni giovanili la veemenza modernistica nella critica al dogma e all'istituzione religiosa, critica coerente nella sua continuità, e pur ponendo filosofia  e religione in alternativa - opera una rivalutazione della religione intesa come fede pura e la considera al pari della filosofia esigenza imprescindibile dell'animo umano, recuperando gli aspetti più fecondi della sua formazione religiosa. Così tra filosofia e religione, seppure alternativamente concepite, non può non sussistere un rapporto, che è peraltro un rapporto di subordinazio­ne della religione alla filosofia, dal momento che "[...] i dogmi riempiono la rivelazione, non la costi­tuiscono: il dogma viene dalla filosofia alla religione e non viceversa. Come la filosofia prende dalla religio­ne l'intima certezza dell'Assoluto nel suo mistero e di quella certezza veste, facendone un sistema, i valori raggiunti nello sforzo di oggettiva meditazione; così la religione prende dalla filosofia questi valori da essa raggiunti nel suo sforzo e di essi riempie una dottrina dogmatica, la misteriosa fede vissuta nell'abisso della coscienza singolare."[19] Questo importante passo ci aiuta a mettere a fuoco il pensiero carabellesiano in materia di religione e filosofia e dei loro rapporti: la rivelazione intesa come “intima certezza dell’Assoluto” – come fede - è assolutamente altra dal dogma, il quale viene invece costruito dalle religioni positive sulla base della filosofia e dei valori, necessariamente storici, che la filosofia elabora nella sua tensione verso l'Assoluto. Filosofia e religione nella loro purezza sono allora imprescindibili esigenze dell’animo umano che si incontrano nella fede nell’Assoluto, che come mistero sgorga a costituire ambedue.

La riflessione carabellesiana sulla religione cambia impercettibilmen­te nel corso dell'itinerario filosofico di Carabellese dagli aspetti esteriori istituzionali e dogmatici agli aspetti concettuali, trasformandosi in una filosofia della religione che gli consente  di porsi sulla linea della riflessione più avanzata sul religioso - peraltro ricorrente nella tradizione filosofica - e del sentire più attuale e diffuso nei confronti del problema di Dio: quella che scinde teologia religiosa e teologia dogmatica, perché negare criticamente la religione storicamente esistente, pur nel nostro "non poterci non dire cristiani" (o buddisti, o maomettani), non vuol dire negare Dio. Voglio dire che nel farsi sempre più relativizzante e storicizzante ma anche più "essenzializzante" del nostro incontro-scontro tra culture e credo differenti nel mondo, è possibile che l'utopia di quella Chiesa invisi­bile di cui già parlavano Kant e Jaspers divenga invece la realtà di una Chiesa visibile in cui alla libertà di culto sia sostituita la libertà di credo come comunità di spiriti liberi per i quali i diversi dogmi e culti autoritativi sincretisticamente si fondano a costituire semmai la memoria storica su cui edificare un nuovo concetto di religione che nella sua universalità scevra da culti e da dogmi lasci ad ognuno la libertà di un rapporto personale con Dio. Riguardo a Carabellese, egli si pone nel solco di quella tradizione filosofica di riflessione sulla trascendenza che avanza la pretesa ad un'autonoma dignità del discorso religioso fuori dalle religioni positive canoniche, un'autonomia che come riflessione filosofico-religiosa tralasci l'approccio storico, sociologico o psicologico al feno­meno religioso - e il fenomeno stesso -, e si disinte­ressi pure ai problemi dibattuti in sede di teologia confessionale come problemi interni ad uno specifico e perciò relativo orizzonte culturale. Una tale autonomia e dignità, racchiusa nel concetto virtuale di Chiesa invisibile, non trova ancor oggi adeguata comprensione

né realizzazione: è per questo che Carabellese fu potuto essere accusato di ateismo, a fronte di una produzione in cui la riflessione e il sentimento del divino traboc­cano da ogni dove, ed è per questo che fu definito metafisico laico, laddove l'aggettivo sta lì a sottoli­neare la sua distanza dalla religiosità "ortodossa". E invece in Carabellese preme potente l'attualità, che fa apparire quelle definizioni ferme allo statu quo di una situazione che vede la religiosità appannaggio delle religioni positive, e la sua codificazione necessaria al mantenimento di quello stesso statu quo, nel quale l'ap­proccio ad una visione religiosa della realà è mediato, in sede di riflessione non confessionale, da strumenti concettuali di carattere ermeneutico, storico, sociolo­gico, psicologico, ecc. La metafisica di Carabellese, nel porre il distacco tra la fede in Dio e la religione confessionale, propone se non in anticipo certamente in consonanza con lo spirito dei tempi, il distacco tra religione e confessione e l’allargamento del concetto di religione, cioè propone un concetto filosofico di religione che comincia solo ora a far parte di quella che lui definisce coscienza comune esplicita, e in questo, al di là delle critiche che nello specifico si possono muovere al suo pensiero, consiste la sua attualità. La filosofia allora per Carabellese parla di religione, ma di una religione extraconfessionale, cioè di una visione religiosa della realtà che fa  trapassare la filosofia in religione e la religione in filosofia. E questo trapasso avviene, oltre che per l'oggetto su cui filosofia e religione insistono, anche perché il metodo di cui la filosofia come metafisica si avvale è un metodo che esige il salto extrateoretico verso la fede. E' la fede, sebbene la fede critica della riflessione, infatti, che è fondante nel dare l'impulso alla ricerca, che spinge il ricercante sulla strada della costruzione dell'opera e che infine lo sostiene nella provvisoria certezza delle acquisizioni raggiunte.

Qui la fede nell'Oggetto della ricerca si incontra, e si distingue, con la fede nel soggetto che la compie, e l'inesauribilità del Principio si incontra con la prov­visorietà dei risultati, mostrando così tanto dell'Esse­re, quanto del soggetto, il Mistero. Infatti senso religioso e senso filosofico non si esclu­dono ma anzi si richiamano: [...] il <<Dio di me>> del senso religioso richiede il <<me di Dio>> del senso filosofico, e così reciprocamente. Lo sviluppo del ragionare non è a scapito dello sviluppo del credere."[20] , anzi più avanza la razionalità più cresce il senso religioso, ossia il sentimento interiore di una spiri­tualità dell'essere, quell'essere che è il vero detto della religione come della filosofia. Lo sforzo di cogliere un superiore punto di vista che concilii[21] religione e filosofia nel doppio mistero di Dio e del soggetto può essere una delle chiavi per interpretare lo sforzo metafisico di Carabellese, e in questo senso quello che è stato detto il suo "tarlo del filosofare" acquista nuovo significato, quello di una filosofia che,  nella sua "problematica discorsività" di fronte alla "fissità certa" della religione,  si ponga come teologia laica, che, appunto per il conflitto irrisolto che egli trovava davanti a sé tra la filosofia e la teologia confessionale della sua epoca (conflitto latente ancor oggi), richiedeva un continuo lavoro di affinamento e di  ricerca di un nuovo spazio per questa superiore forma di spiritualità.

 

 

La bibliografia dell'Autore è ordinata per anno ripor­tando anche le riedizioni dei singoli saggi apparsi in un primo tempo isolatamente, la presenza di saggi già pubblicati in opere in cui figurano come capitoli o appendici, e le riedizioni o prime edizioni postume a cura di altri. La bibliografia critica, anch'essa ripor­tante le riedizioni, e racchiudente anche i titoli degli autori coevi di Carabellese e di quelli con cui egli entrò in polemica,  è divisa in due parti in qualche caso sovrapponibili: l'una, in ordine  alfabetico, racchiudente anche i titoli che, non strettamente collegati a Carabellese e alla sua critica, ci hanno consen­tito di sostenere il nostro percorso di ricerca allar­gandolo a quegli autori coi quali ci è parso giusto mettere in collegamento il suo pensiero o a quei critici che ci fornivano la possibilità di supportare tesi non esclusivamente legate all'orizzonte di pensiero carabel­lesiano, l'altra, più strettamente limitata alla critica carabellesiana, in ordine  cronologico, al fine di evidenziare in quali anni e con quale frequenza sia stato maggiore l'interesse verso l'opera di Carabellese. Tutte le bibliografie riportano, alla fine di ciascun titolo, una sigla delle Biblioteche o degli Enti in cui sono state reperite le singole opere, seguita da quella della loro collocazione. La legenda per decifrare la sigla del sito in cui è stato reperito il titolo si trova nella prima bibliografia, quella di Carabellese, e vale per tutte.



[1] William Dilthey, Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft, Tubingen, 1926, tr. it. a cura e con Introduzione di Mario Signore, Il fondamento delle scienze della cultura, Collana Pleiadi, Longo editore, Ravenna, 1979.

[2] R. Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese cit., in Id., Criticismo e metafisica cit., pp. 90-91.

[3] Al problema interno della filosofia in Carabellese Edmondo De Liguori ha dedicato un'intero libro, appunto Il problema interno della filosofia in Pantaleo Carabellese, Bulzoni, Roma, 1988.

[4] P. Carabellese, Saggio III Che cos’è la filosofia?, in Id., Che cos’è la filosofia? cit., p.54.

[5] P. Carabellese, Il problema della filosofia in Kant, La Scaligera, Verona, 1938, p. 104.

[6] P.Carabellese, Saggio III Che cos’è la filosofia?, in Id., Che cos’è la filosofia? cit., p. 66. Carabellese polemizza qui anche con lo storicismo che considera la filosofia metodo della storia, rinvenendo una contraddizione poi nel considerare tutta la realtà storia, perché, afferma, tale metodo dovrebbe coerentemente essere fuori dalla storia, e quindi contraddire tale considerazione. Vedi p. 80.

[7] P. Carabellese, Il problema della filosofia in Kant cit., p. 104.

[8] Vorremmo ricordare la nota 113 di p. 61 di questo scritto per un’integrazione di tale argomentazione.

[9] Un’interessante lettura dell’arte contemporanea del puntillismo come del cubismo e oltre (mi riferisco a Mondrian come a Picasso come a Leger ) mette in relazione arte, matematica, geometria e metafisica, nel senso che essa arte è leggibile, e viceversa, in termini di numeri e forme, e sottende concetti metafisici ben precisi, a volte in termini esoterici. E’ questa, della traducibilità assolutamente possibile dei linguaggi,  esattamente l’operazione che si tenta in questo lavoro.Vedi Piergiorgio Odifreddi, Numeri e forme, ecco il segreto dell’arte moderna, La Repubblica, 30 marzo 2000, p. 46. Studi sul rapporto tra la musica e la matematica sono numerosi , ma un lavoro sperimentale degno di nota è quello di Roberto Biancarelli Martinelli, 

[10] Crediamo di aver dimostrato, sebbene lungi dall’esaustività, l’essere Carabellese intriso di pensiero religioso sia in senso teologico che simbolico esoterico. In quesdto senso tornano, al di là della fede, l’educazione pia della madre e la formazione seminariale, e sarebbe da approfondire il suo curriculum studiorum in questa fase della sua vita, oltre che la data e i modi del suo abbandono della via talare.

[11] P. Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit., p. 177.

[12] Ibidem, p. 180.

[13] Ibidem, p. 186; e cfr. anche P. Carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801) cit., Introduzione, pp. 3-7.

[14] Semerari, riportandosi al Nietzsche della II Inattuale e alla sua concezione della storia critica come giudizio sul passato, sottolinea la distanza tra la concezione della storia della filosofia di Carabellese e quella dell'idealismo hegeliano e neohegeliano: per Carabellese la storia della filosofia non è un antitetismo di opposti sistemi superantisi a vicenda dialettica­mente, ma sforzo continuo e originale di esplicitazione delle "esigenze della coscienza" in essa insite. La coscienza così secondo Semerari assurge in Carabellese da un lato a motivo fondamentale dell'intera storia della filosofia, dall'altro a criterio di giudizio per la lettura critica delle singole posi­zioni filosofiche. In tal modo Carabellese eliminava  dalla storia della filosofia non soltanto la legge dialettica, ma anche, e qui ci permettiamo di avanzare un dubbio, l'identifica­zione tra filosofia e storia nel senso voluto dagli idealisti e dagli storicisti, "mettendosi contro tutta la tradizione storici­stica da Hegel a Croce e Gentile", perché per lui tale identità consisteva nell'essere ogni ricostruzione storiografica, ogni giudizio storico in sede filosofica anche un avanzamento del pensiero, e viceversa ogni sforzo filosofico anche implicito giudizio storico, secondo appunto la concezione nietzscheiana della storia critica. Cfr. G. Semerari, L'ontologismo critico di P. Carabellese. Genesi e significato cit., in AA.VV., Pantaleo Carabellese, il <<tarlo del filosofare>> cit., p. 11 sgg., in partc. p. 13.

[15] Oltre alla già citata O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un metafisico laico: P. Carabellese, vedi anche Gaetano Chia­vacci, Filosofia e religione, in "Giornale critico della filoso­fia italiana", vol. XIV, 1960; M. Maresca, Il problema della religione nella filosofia contemporanea, Albrighi e Segati, Roma, 1932, pp. 319-40; R. Pagliarani, Religione e filosofia nel pen­siero di Pantaleo Carabellese, in "Il Dialogo", n. 10-11, Bologna, 1960, poi rist. in Id., Pantaleo Carabellese filosofo della coscienza concreta cit.; il già cit. cap. 2 Religione ed etica indipendente del cit. La sabbia e la roccia di G. Semerari, e, dello stesso Semerari, Filosofia e religione nel pensiero di P. Carabellese, in "Rivista di Filosofia", n. 1, 1949.

[16] Questo insistere sul medesimo oggetto di filosofia e religione ha fatto parlare di un'onto-teologia carabellesiana. Cfr. O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un metafisico laico: P. Carabellese cit., passim.

[17] Vedi P. Carabellese, Che cos'è la filosofia cit., p. 236.

[18] Ibidem, pp. 160 sg.

[19] Ibidem, p. 161.

[20] Ibidem, pp. 260 sgg.

[21] Cfr. Ibidem, p. 167: "[...] religiosa torni ad essere tutta la vita [...] che la teoria della vita sia filosofica e che la pratica sia religiosa [...]."

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