STEFANIA SAPORA

        COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO

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  Scienze Filosofiche: 100 voci di filosofia                  

 

AFASIA Il termine ha due significati, uno neurologico, a cui si riferisce l'etimologia latina, e l'altro filosofico. In neurologia l'A è il disturbo cerebrale consistente nell'incapacità parziale o totale di produrre suoni linguistici dotati di senso. L'A. motoria è quella consistente nell’incapacità  di comprendere i suoni sia propri che quelli degli altri (A. sensoriale o di Wernicke), implicando così una difficoltà più o meno completa di comunicazione, spesso scatenata da qualche grado di dislessìa (incapacità di leggere) e di agrafia (incapacità di scrivere). In qnesto senso l'A. è stata studiata anche dalla linguistica. In senso filosofico invece, l’A. è l'atteggiamento, assunto dagli Scettici, di astensione dal giudizio nelle questioni che, non implicando la sensibilità, non la modificano spingendo necessariamente all'assenso o al dissenso. Si riferisce dunque in particolare a una sospensione del giudizio di fronte alla natura delle cose e della realtà ritenute inconoscibili.

 

ALCHIMIA (arabo al-kimiya) Antichissima disciplina esoterica teorico-pratica che afferma, e perciò studia, la corrispondenza e l'influsso tra elementi visibili e invisibili del cosmo e del rapporto tra cosmo/natura e uomo. In particolare essa mira, con procedure operative che nel Medioevo arabo-cristiano hanno costituito gli albori della chimica e della fisica sperimentali, alla trasmutazione della natura vile in essenza nobile sia dei metalli (passaggio dal piombo all'oro) sia dell'uomo che opera tale trasmutazione, l'alchimista, come realizzazione della loro più segreta essenza, o natura per eccellenza, libera da corruttibilità e temporalità. Sin dal III-IV secolo d. C. sono documentati sia in Oriente (India e Cina) sia in Occidente (Grecia classica riferentesi a culti sacerdotali dell'antico Egitto) studi e pratiche alchemiche con origini genetiche probabilmente autonome ma affini. Ma è possibile che tali scritti si riferiscano alle fasi tarde di una lunga tradizione orale che conserverà il suo carattere esoterico di scienza sacra per pochi iniziati che la vogliono rivelata agli uomini da un dio, o comunque con origini extraumane. In Occidente l'A., è detta "arte ermetica", dalla figura, mitica del primo maestro, Ermete Trismegisto, fusione del dio egizio Thot e del greco Ermes, ed è considerata di natura ambigua e pericolosa, come potenziale operativo e dottrinario in grado di volgere, come ogni conoscenza di origine divina e carattere sacro, sia verso il bene che verso il male. Secondo l'esoterismo ebraico-cristiano, le origini dell'A. sono dovute alla rivelazione di alcuni angeli alle donne con cui si congiunsero, o di “angeli caduti" che fecero agli uomini dono del peccato originale (Bartolomeo da Parma, XIII secolo), cosicché l'A. sarebbe la restituzione all'uomo della condizione originaria di Adamo, conoscitore e padrone di molti elementi del cosmo. In questo senso, il significato dell'A. come dottrina di redenzione e ritorno all'Eden oscilla tra ripristino della condizione aurea dell'umanità prima del peccato originale e reiterazione di quest'ultimo. Nell’alto Medioevo., sia nella cultura araba, e poi in quella cristiana (R. Bacone), l'A., conservando carattere segreto e operativo, assunse, la veste di una filosofia della natura vera delle cose, come loro essenza segreta, al fine di mettere in luce la circolazione universale nella quale anche l'io è immesso, attraverso pratiche rituali di cui tale dire è il momento centrale. Il Rinascimento, con Paracelso e G. B. Della Porta, vide il «proliferare dei tentativi di trasformazione della materia>>,fino a quando, con Keplero e Gassendi, e la pubblicazione del Crimeo scettico (1660) di R. Bovie, si ebbe, nonostante gli studi alchemici di I. Newton,  una legge sacra, di origine divina, e la divaricazione tra A. e chimica, consistente nell'impianto razionale né occulto né rituale di quest’ultima.

  

AMMIRAZIONE o MERAVÌGLIA Per l'età classica l’A. è il principio della filosofia. Per Platone: "Questa emozione, questa A. è propria del filosofo” (Teet.). Per Aristotele "In virtù dell'A., gli uomini cominciarono per la prima volta a filosofare e anche ora filosofano (...) Colui che dubita e ammira sa di ignorare" (Met.). Per Cartesio, che come Aristotele vede l’A. come la radice del dubbio e della ricerca, "Quando ci si presenta qualche oggetto insolito e che giudichiamo nuovo (...) noi lo ammiriamo e ne restiamo sorpresi; e poiché ciò accade prima che noi sappiamo se l'oggetto ci sia utile o meno, l’A. mi appare come la prima di tutte le passioni" (Paxsion de l'àme). Per Spinoza l’A., che non è un'emozione primaria né filosofica, al contrario dell’Amor Dei ìntellectualis, ossia la contemplazione imperturbabile e beata della connessione necessaria di tutte le cose nella Sostanza divina, è l'immaginazione di qualcosa che la mente fissa come priva di connessione con le altre. Kant invita all'A. nei riguardi della finalità della natura, inesplicabile per l'intelletto, mentre per Kierkegaard è il "sentimento appassionato del divenire", per cui il filosofo vede il passato come non necessario.

  

ANTISEMITISMO (comp. dal lat. anti e dall'ebraico Sem, nome del figlio di Noè ritenuto il progenitore degli Ebrei). Avversione nei confronti del popolo ebraico, dovuta a pregiudizi dì carattere religioso, politico, economico, presenti già in età classica e rinforzati dall'idea ebraica di essere il popolo eletto dell'unico vero Dio e dalla fede nel suo trionfo finale ad opera del Messia. Nell'età romana imperiale si ebbero continui disordini e contese sia in Oriente che a Roma, che orientarono la politica degli imperatori in senso sfavorevole agli Ebrei, sino alla guerra di Giudea e alla distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito. Queste contese diedero il via a sanguinose repressioni in tutto l'Oriente, dopo la caduta dell'lmpero romano con il suo senso giuridico. L’A. dilagò anche in Occidente, aiutato dall'opera della Chiesa cristiana: in Francia il Concilio del 541 vietò agli Ebrei di mostrarsi in pubblico durante le festività cristiane, il Concilio Parisiense (614) stabili la conversione forzata, il Conciliimi del 633 tolse loro i figli per educarli cristianamente. L'età dei Comuni li vide esclusi dalla vita politica e delle corporazioni, ma in continua espansione economica. Nel XIX secolo, gli influssi dell'Illuminismo fecero inizialmente cadere le mura dei ghetti ma non impedirono infine una ripresa dell'A. (Gobineau, Essays, Paris 1855) in teorie razzistiche che sostenevano la supremazia della razza ariana, come quelle di A. Wahrmund, F, Delitsch e A. Stelger, che teorizzarono la necessità di un'azione violenta. In Austria, il partito cristiano-sociale si dichiarò antisemita, e si ebbe la pubblicazione del Protocollo degli Anziani di Sion, "documento" apocrifo (che ebbe grande diffusione in tutta Europa, e che poi fu sconfessato storicamente nel 1921 dal Quotidiano Times) nel quale si "provava" un piano eversivo degli Ebrei nei confronti degli Stati e della società. L’A. si concretò in Europa orientale (Ungheria, Polonia, Russia, Romania) nei posgrom, di tradizione secolare ma con esiti terribili tra la fine del XIX secolo e la Seconda Guerra Mondiale. Quando furono appoggiati dalla Germania. Qui non solo L’A. faceva parte del programma del partito conservatore, ma sorse addirittura un partito antisemita, che nel 1907 ebbe quindici deputati alla Camera, cosicché gli Ebrei furono esclusi dall'Accademia, dalle alte cariche, dai quadri militari.  L’A. tedesco aveva anche origini nazionali e ideologiche, dal momento che ambedue i popoli si consideravano eletti. Dopo la Repubblica di Weimar, il nazismo riprese ed esasperò I’A. tradizionale, sino alla tristemente nota "soluzione finale". In Italia l'influenza tedesca si fece sentire nel ventennio fascista - nonostante la liberalità ottocentesca, espressa da C. Cattaneo in Interdizioni, Firenze 1836, e da M. D’Azeglio in “Sull'emancipazione civile degli Israeliti”, Firenze 1845 - sino alla promulgazione delle leggi antisemite del 1938. Nel secondo dopoguerra, nonostante la nascita dello Stato d'Israele (1948), che non ha messo fine alla diaspora ebraica, nonostante la mobilitazione dell'opinione pubblica mondiale ad opera anche delle comunicazioni di massa, che hanno attirato l'attenzione sulla "questione ebraica"e sull'olocausto anche in seguito ai diversi processi contro le efferatezze naziste, come quello di Norimberga, e nonostante l'importante apertura della Chiesa cattolica allo spirito ecumenico, documentata a partire dai Concilio Vaticano II del 1964, l'A., seppure circoscritto, non è morto.

 

APPARENZA (gr. Fainomenon;  lat. Apparentia) Nella storia della filosofia occidentale l'A. è stata intesa, secondo una scala di valore dal minore al maggiore, e secondo significati che si sono variamente intrecciati nei diversi autori, o 1) in contrapposizione a realtà, ossia come suo nascondimento, dovuto alla conoscenza fallace e imperfetta dei sensi (contro quella vera dell'intelletto), che da luogo alla doxa, o opinione, perché fondata sul non essere, diversa per qualità e non per grado dalia verità che si fonda sull'essere: oppure 2) in rapporto alla realtà, come sua manifestazione o rivelazione o disvelamento, cui bisogna affidarsi perché l’A. è immagine, simbolo, della realtà, della cui conoscenza rappresenta, come fenomeno, il primo grado, quello immediato e anteriore della sensibilità, contrapposto a quello mediato e posteriore dell'intelletto, da cui differisce solo per grado; oppure ancora 3) come unica realtà e unico fondamento della conoscenza umana, che ha come strumento fondante la sensibilità, per cui non vi è gradualità né contrapposizione tra conoscenza della sensazione e del pensiero o intelletto, mentre invece viene istituita una differenza tra A. sensibile, reale, e A. illusoria, come il sogno. Nei pensiero antico, è Parmenide a percorrere per primo e in modo radicale la prima strada, distinguendo nettamente tra la "via della verità" e la "via dell'opinione" e giungendo a negare, coerentemente, il movimento, che dell'A. è espressione per antonomasia, mentre per Platone, che pure riconosce la relazione tra A., come realtà incerta e sfuggente, e opinione, come conoscenza solo verosimile e probabile, il problema è quello del rapporto tra realtà e A., la cotale diviene simbolo e manifestazione della vera realtà delle cose, l'idea, come loro modello. I sofisti invece, e dopo di loro gli scettici, si rifanno al terzo significato del termine, considerando l'A. il criterio della verità, perché la conoscenza umana è A. soggettiva. Infine Aristotele, che rifiuta l'un estremo come l'altro, riprende il complesso problema del rapporto tra A. e realtà, stabilendo che ogni conoscenza scientifica e razionale muove sempre dall'A, delle cose come dal suo primo gradino, per poi risalire alle cause. Nel Medioevo, il pensiero cristiano in generale, riprendendo Piatone attraverso il neoplatonismo, radicatizza in senso teologico il significato di A. come rivelazione o disvelamento di un mondo intellegibile, considerandola manifestazione di Dio, o teofania, come in Scoto Eriugena. Col pensiero moderno ridiviene centrale il tema del valore della conoscenza umana, stimolato anche dagli sviluppi delle scienze (si pensi ad es. al problema dei "movimenti apparenti" degli astri): soprattutto l'empirismo, con Hobbes. e il meccanicismo distinguono ormai tra percezioni illusone e reali, e tra qualità soggettive e quantità oggettive, dando all'A. il valore di realtà, e chiudendo la conoscenza umana, così relativizzata, nel suo orizzonte. Lo sforzo di Kant sarà quello di opporsi allo scetticismo e al relativismo pur limitando la conoscenza a esperienza di fenomeni, e quindi fondandola sull’A. Ma questa, come Erscheinung. viene radicalmente distinta dalla parvenza, o Schein. Hegel intenderà l'Erscheinung non più in senso soggettivistico, come limite umano della conoscenza, ma oggettivistico, come manifestarsi dell'essenza nella sua immediatezza, dal momento che non c'è realtà che non appaia.Tra i contemporanei, è la fenomenologia di Husserl, e poi Heidegger, a dare risalto, sebbene in senso diverso, a questo significato di A. come rivelazione di essenze.

  

APPRENDIMENTO (lat. da ad-prehendere) Nella conoscenza umana, l’acquisizione esperienziale di cognizioni dì ordine teorico e pratico che mettono in gioco l'intelligenza e la creatività (apprendimento cognitivo). Il concetto è antichissimo, e come forma dì associazione è ripreso da Platone, che lo introduce nella sua teoria dell'anamnesi per cui tutto il ricercare e l'apprendere non sono altro che reminiscenza, dal momento che basta aver appreso una nozione che tutte le altre ad essa collegate scaturiscono per associazione. Nel XVIII secolo Herbart darà lo stesso significato di associazione, seppur esautorato del concetto di anamnesi, al concetto di appercezione, per cui una "massa di rappresentazioni" ne accoglie una nuova ad esse connessa. Ma è Wundt che, alla fine del XIX secolo e con l'inizio del XX, segna l'ingresso del concetto in psicologia, e la sua trasformazione nel senso del meccanicismo psicofisico cui si è assistito nella psicologia contemporanea, dove il termine è divenuto centrale, a partire dalle numerose ricerche sperimentali di Pavlov e V. Bechterev sul condizionamento rispondente (stimolo-risposta) di inìzio secolo, a finire alle ricadute didattico-operative, con le vere e proprie rivoluzioni in questo campo come le "macchine per insegnare" di Skinner, e a quelle neurofisiologiche e biochimiche, che ne scoprono le modificazioni sul cervello. A cavallo del secolo,  Thorndike, dai suoi studi sperimentali prima sugli animali e poi sull'uomo, basati sull'associazione, dedusse che l’A. è un processo di "prova e riprova", per cui il comportamento iniziale è una reazione casuale, ma essa viene ripetuta se dà buon esito, e così viene appresa, eliminando le altre, e che è rafforzata se è seguita da un premio ("legge dell'effetto''). L'approccio meccanicistico della psicologia comportamentista contemporanea, coadiuvata dalle paraìlelle ricerche di etologia, ha prodotto una gran quantità di ricerche sperimentali che misero in luce gli aspetti comuni a tutti gli organismi viventi dotati di un sistema nervoso, seppure elementare, distinguendo due estremi dell'A. tra cui si situa tutta una serie di gradi intermedi: l’A. meccanico e, appunto, l’A. cognitivo, che secondo i comportamentisti sono le chiavi per spiegare tutto il comportamento umano e animale, dalle sue espressioni più "semplici", come le emozioni, sino a quelle più complesse, come i comportamenti linguistici e simbolici. Il capostipite della Gestaltspsychologie,  Wertheimer, applicò all’A., i principi olistici della sua scuola nel classico Productive Thinking del 1945), opponendosi all'associazionismo e al meccanicismo.

 

ASSOCIAZIONE   Il termine è  ripreso con altri presupposti da Jung, per far affiorare, in un quadro solo apparentemente irrazionale e illogico, gli elementi psichici profondi del paziente, aggirando e portando alla luce le sue difese conscie e inconscie, per poi analizzarle. Il termine, considerato di importanza essenziale, è la "regola fondamentale" dell'approccio freudiano, a cui il paziente deve attenersi durante le sedute, e consiste nel far fluire, senza alcun controllo o censura da parte del soggetto, le immagini mentali e i significati loro associati in modo libero e spontaneo. In queste A., si può partire da un elemento anch'esso libero, da cui poi far iniziare la catena di A., oppure da un elemento stabilito, che in questo caso può essere, per i freudiani un’immagine onirica, per altri, come ad  es. gli junghiani, una parola induttrice.

 

ASSOLUTISMO: il termine, che significa libero da ogni rapporto indipendente, indica in senso stretto ogni teoria o filosofia politica, o pratica, che vi si ispiri, e fu introdotto da Papa Gregorio VII e poi da Bonifacio VIII, per cui il Papa, come rappresentante di Dio sulla Terra, ha sovranità assoluta su tutti gli uomini, compresi re e imperatori, e da cui si originò nel Medioevo la lotta per le investiture. Vi è, oltre all’A. papale, l’A. monarchico del XVII secolo, teorizzato da Hobbes e ripreso praticamente nel XVIII secolo; e anche l'A. democratico, introdotto da J. J. Rousseau nel “Contratto sociale” e ripreso da Marx e dai teorici dei marxismo come "dittatura dei proletariato".

 

ATEISMO Posizione che rifiuta la presenza di Dio o di altre entità come "realtà trascendente, e soprattutto la sua causalità in ordine all'universo”, che può anche riconoscere solo tale presenza. Nel pensiero teorico antico (i sofisti e Protagora), l'esistenza degli déi è emarginata, e Epicuro invita a vivere come se essi non ci fossero. Platone per primo, nella storia delia filosofia, liberò il problema dalla sua confutazione distinguendo tre forme di posizioni nei confronti del trascendente: 1) negazione della divinità; 2) credenza nella sua indifferenza (Epicuro); 3) credenza nella possibilità di influire su di essa con offerte. La prima forma si accompagna con il materialismo, e consiste nell'idea che la materia, causa del mondo,  sìa il suo fondamento (ad es. acqua, aria, terra o fuoco come principi e origine delle cose secondo gli ilozoisti). Per la seconda forma di A., Platone argomenta che attribuire alla divinità l'indifferenza equivale a considerarla inferiore al più indolente mortale. La terza forma, la più negativa, abbassa le divinità al livello delle bestie, che si comprano con un dono, e, per evitare tale mercificazione, Platone vorrebbe offerte solo pubbliche e rituali Dunque, l’unica forma di A. filosofico consentito da Platone è la prima.   Mentre nel Medioevo, fondamentalmente cristiano, l'A. non è documentato, nel Rinascimento se ne trovano tracce, ma è soprattutto con il darwinismo che esso ricompare, come materialismo che nega a Dio la causalità (La Mettrie, Helvètius, d'Holbac), cui si oppone Berkeley affermando l'immaterialismo, ossia l'irrealtà della materia, poiché altrimenti Dio sarebbe inutile ed essa sarebbe la causa di tutto. Nel XIX secolo anche i materialisti Buchner e Heckel negano Dio come causa, mentre la sinistra hegeliana (Feuerbach, Marx e i seguaci del positivismo di Comte) negano la presenza di Dio. Altre forme di A. filosofico sono a) lo scetticismo, b) panteismo, c) pessimismo., d) agnosticismo. a) Lo scetticismo, derivato dal pensiero dell'antico Caneade di Cirene, poi del moderno Hume, si incentra sulla debolezza delle prove dell’esistenza di Dio per togliere valore filosofico all'argomento, e dunque alla disputa tra A. e non A.  b) Il panteismo, più che professarsi ateo, è accusato di A. perché, identificando Dio col mondo (ad es. il Deus sive Natura di Spinoza), rischia di finire nel materialismo, o comunque di identificare o far coincidere creatore e creatura. c) Alcune forme di pessimismo sono A. professato, come quella di Schopenhauer, che attribuisce il male e l'infelicità del mondo all'assenza di Dio, sia come persona, sia impersonale. Nell’età contemporanea, Sartre afferma l’A., a partire non tanto dal materialismo quanto dall'ambiguità radicale dell’uomo, che nella sua libertà si progetta come Dio, e la cui esistenza è destinata, in quanto gettata nel mondo, allo scacco d) Diffusissimo nel mondo contemporaneo, dove l’A. perde il suo connotato negativo di derivazione dalla presunta norma teista, è l'agnosticismo, ossia la posizione di chi si astiene dal pronunciarsi, perché non sa, considerata dal neopositivismo e, dal marxismo condizione essenziale ner un nuovo umanesimo storico, che sottragga l'uomo all'alienazione

 

AUTORITÀ (lat. autorictas) Oualsiasi potere di controllo di opinioni o comportamenti, anche non politico, di un individuo, gruppo, organizzazione o istituzione su un altro, che poggi su una o più qualità riconosciute, cui gli individui si assoggettano consensualmente o meno. Il problema filosofico dell'A. è nella sua giustificazione, cioè nel criterio che ne decide la validità, determinata dal suo fondamento, individuato, nel corso della storia, in 1) la natura; 2) la divinità; 3) il consenso, 1) Platone divide l'umanità in due classi diverse per natura, dei migliori, tendenti per natura alla verità, destinati a governare, i filosofi (Hegel), e della maggioranza degli uomini, incapaci di divenire filosofi, perciò destinati a essere governati (Rep. VI. 484-486). Per Aristotele "La natura stessa ha offerto un criterio discriminativo". 2) La dottrina che fa risalire l’A. alla divinità, esposta da S. Paolo, è rimasta fondamentale per la Chiesa cristiana come base del suo potere temporale e della sacralità della corona sino ai moderni stati nazionali occidentali, laici: "Non c'è potestà se non da Dio; e quelle che sono, sono ordinate da Dio. Perciò chi resiste alla potestà resiste all'ordinazione di Dio; e quelli che resistono acquistano la loro dannazione." (Ep. Ad Rom. XIII). Tale concetto - per Hegel lo Stato è "la realizzazione della libertà" o "l'ingresso di Dio nel mondo" - offre il destro per giustificare ogni A. de facto, confondendo idealità e realtà storica, e forza. 3) Della teoria del consenso, nata con lo Stoicismo, è Cicerone il primo grande espositore: essendo tutti gli uomini per natura uguali e liberi nella ragione, la vera legge, principio dell'A. è la volontà comune. Nel Medioevo, Marsilio da Padova già anticipa l'idea di un'assemblea generale a maggioranza come "prima e effettiva causa efficiente della legge" (Defensor pacis, I, 12, 3) e Nicola da Cusa di un'"armonia e consenso dei sudditi" sia nella legge che nel suo rappresentante (De Concordantia catholica, II, 14). Nell'età moderna, Machiavelli (Il Principe) e Hobbes (Il Leviatano) vedono l’A. come insieme delle prerogative socio-giuridiche che consentono l'esercizio del potere. All'assolutismo hobbesiano di un'autorità statale incondizionata come controllo istituzionale sui naturali conflitti sociali, Locke contrappone (in: Due Trattati sul governo) per primo la visione costituzionale e liberale dell’A., che influenzerà l'illuminismo e il liberalismo fino a Costant, basata sull'idea giusnaturalistica che libertà e uguaglianza formali sono diritti originati e naturali dell'uomo, a fondamento dell'A., e la condizionano. Rousseau oppone (Contratto sociale) all'assolutismo il contrattualismo: l’A., non più sovraordinata ai cittadini, è espressione della "volontà generale". Nel XIX secolo Hegel e Comte vedono nell'A. la guida del progresso umano, ma in Marx l’A. è il dominio sulla classe operaia, solo formalmente e giuridicamente libera, determinato dal sistema capitalistico. Durkheim sottolineerà (Divisione del lavoro sociale) la necessità, in una società a "solidarietà organica", portato della divisione del lavoro, di un'A. sempre meno centralizzata e affidata a regole di funzionamento complessivo. Per Weber (Economia e società) l'aumento della razionalità sociale, disciplinata amministrativamente, postula quello dell'A., di cui distingue tre tipi puri: a) legale, legittimata da un sistema di leggi formali stabilite; b) tradizionale, dalla tradizione; e c) carismatica, da qualità straordinarie e intrinseche del capo, che rendono il suo operato simile a una missione.

  

 CALVINISMO Fondamento della costituzione ecclesiastica del C. è l'autorità dei pastori e dei dodici anziani (presbiteri) che costituivano il concistoro (vigilante sulla vita religiosa, civile e morale dei fedeli), dei diaconi per l'assistenza a poveri e malati e dei dottori per l'insegnamento. La liturgia, di austera semplicità, non prevedeva il suono dell'organo ma solo il canto grave e solenne dei salmi, e rifiutava le cerimonie fastose, i paramenti sacerdotali, gli ornamenti pittorici e le sculture. Tale severità si esprimeva anche nella vita civile, data la dimensione politica della fede, con la proibizione e la punizione anche corporale di ballo, gioco, banchetti, feste, teatro, lusso in genere (anche nell'abbigliamento) e dell'assenza alle riunioni del culto, colpita anche con la scomunica. Per dissidenti ed eretici era previsto anche il rogo. Tipica del C., l'etica del lavoro inteso come vocazione religiosa, che Weber riconobbe poi come forte impulso allo sviluppo del capitalismo per il grande dinamismo che comportava nella vita polìtico-sociale ed economica, intesa come campo della santificazione del cristiano. L'autorità statale è vista come mezzo per la diffusione del Vangelo, e non più riconosciuta e anche combattuta con le armi in caso di opposizione ad esso (guerre di religione di olandesi, inglesi, scozzesi contro i loro re). Sul piano dottrinario, Calvino accolse e ripensò i grandi terni della teologia luterana: la Scrittura come unica norma in materia dì fede e morale, dal cui punto di vista il C. giudica anche le altre Chiese cristiane, compresa quella di Roma, la radicale corruzione dell'uomo privo del libero arbitrio, la salvezza per grazia mediante la fede, che si unisce nel C. con il riconoscimento della sovranità assoluta di Dìo. dando vita alla dottrina della predestinazione, tipica del C., secondo cui gli uomini non sono creati eguali, e salvezza e dannazione sono un dono insondabile della libera volontà di Dio. Sulla dottrina della predestinazione in rapporto alla libertà dell'uomo si aprirono vivaci controversie teologiche, tra cui prevalse quella che la riteneva precedente alla creazione e al peccato originale. In Questo senso, la chiesa è per Calvino "la società dei fedeli che Dio ha predestinato alla vita eterna", racchiudendo sia i fedeli attuali, sia tutti gli eletti sin dall'origine del mondo, e la comunità dei santi, ossia dei predestinati, si riconosce per alcuni segni: fede, desiderio di partecipare alia santa cena, che, come per Lutero, non è sacrificio di propiziazione della chiesa a Dio, ma dono di Dio al suo popolo, e rettitudine della vita, dal momento che la dottrina della elezione impegna ii credente ad agire assolvendo i comandamenti di Dio come segno visìbile della predestinazione alla salvezza.

  

CANONE  (f.sr. kanàn) 11 termine ha due significati, uno religioso. l'altro filosofico. Nel ristretto senso religioso, il C è il complesso ufficiale dei libri sacri, in quanto ìscirati e dunque normativi. La fissazione del C, determina perciò automaticamente .ali apocrifi, libri a cui tale ispirazione non viene riconosciuta il cattolicesimo, per ù quale la Sacra Scrittura è come si sa l'Antico e il Nuovo Testamento (Bibbia), lo definì nel Concilio di Trento nel 1546. comprendendo nel Pentateuco anche il Deuteronomio, escluso dai riformatori. Per il giudaismo, il C, fu fissato dal sinodo rabbinico di Jaune (11 secolo d, C.) Il termine è usato anche per il Tipitaka. i libri sacri del buddismo In senso filosofico. il termine, introdotto dallo scultore Policleto, vuoi dire criterio o resola di scelta per un oualsiasi campo teoretico o pratico Epicuro disse canonica la scienza de! criterio, il quale è per lui. in carneo teoretico, la sensazione, in campo pratico, il BÌacere. Nel XVIII secolo, ripreso dai matematici, il termine esprime in Leibniz "le formule .generali che danno ciò che si domanda" (Math, Schriflcn, Vili, 217). mentre poi in Stuart Mili designa le regole esprimenti i quattro metodi della ricerca sperimentale, concordanza, differenza, dei residui e delle variazioni concomitanti {Logic. II. 8) Ma è Kant a farne largo impiego, intendendo per C. il retto uso di una facoltà umana in generale, per cui ove tale retto uso non è possibile «on c'è C,, come per es. nella dialettica trascendentale, o uso speculativo della raeione. dove è possibile solo un C, pratico, ma non teoretico. Cosi la logica è il C. per l'intelletto e la ragione rispetto alla forma, cioè senza riguardo per il contenuto, da cui prescinde, e l'analitica trascendentale è il C.dell'intelletto puro (Crii, R, Pura, Dottr. del metodo, II). Vi è per lui anche un C. del giudizio morale, secondo la formula "Si deve poter volere che la massima della nostra azione diventi lesse universale" f(>?*m#e.e«»e zur Mcth. dar Sitten, IO, Nella filosofia moderaa e contemporanea, al suo posto è adottato in genere "criterio", ma C designa ancora in Devvev i principi logici di identità, di contraddizione e del terzo escluso (Logic, XVIID,

 

CATARSI La liberazione da ciò che è estraneo all'essenza. Termine di origine medica, che significa "purga". Per Platone, nel quale la C. ha un significato metafisico e morale come in primis liberazione dai piaceri (Fed.) e in secundis liberazione dell'anima dal corpo come separarsi dell'anima dal corpo già nella vita prima di quella separazione totale che è la morte (Ibid., 67 e), e che ricorda l'esistenza di libri di Museo e Orfeo secondo i quali "gli adepti celebrano sacrifici persuadendo non solo privati ma anche città che ci sono assoluzioni e purificazioni dagli atti ingiusti per via di sacrifici e di giochi piacevoli, sia per i vivi che per i morti", la C. è "quella discriminazione che conserva il meglio e rigetta il peggio" (Sof.). Empedocle chiamò Purificazioni uno dei suoi poemi ispirato appunto all'orfismo. Plotino insisterà sul platonico separarsi dell'anima dal corpo mediante la virtù che rende impassibili facendo sì che l'anima si raccolga in se stessa (Enn.). Aristotele diede al termine C. il significato medico negli scritti di storia naturale, e per primo lo considerò un fenomeno estetico, quella specie di liberazione attraverso la poesia, il dramma, la musica, e a proposito di quest'ultima osserva che alcuni, fortemente scossi da emozioni come pietà, paura, entusiasmo, se odono canti sacri che impressionano l'anima "si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato o purificato". Goethe, la cui interpretazione della C. estetica è prevalente sulle altre, che danno tutte in epoca moderna al termine C. funzione liberatrice nell'arte, la considera l'equilibrio delle emozioni che l'arte tragica, dopo aver eccitate queste ultime, dà, permettendo serenità e pacificazione. Freud, che ha chiamato C. il processo di sublimazione della libido, cui sono dovuti tutti i progressi della vita sociale e civile in tutti i campi, ha sostituito il metodo catartico, utilizzato agli inizi della psicoanalisi (1880-85) come metodo psicoterapeutico (in particolare per l'isteria) per cui il paziente che rievoca e rivive attraverso il ricordo e la parola eventi traumatici abreagisce ad essi liberando gli affetti e separandoli dalla patologia, con il metodo delle associazioni libere (vedi).

 

CHIAREZZA Insieme a "distinzione", i due gradi dell'evidenza soggettiva secondo Cartesio. Il termine è ripreso da Locke, ma è con Leibniz che si precisa come "chiara" la nozione che consente di discernere la cosa rappresentata, in opposizione alla "oscura" che non lo consente. La distinzione è viceversa la composizione delle rappresentazioni. Soltanto quest'ultima può far si che una somma di rappresentazioni diventi una conoscenza nella quale venga pensato l'ordine della molteplicità. La filosofia contemporanea è tornata all'antico concetto soggettivìstico di evidenza, anche se Husserl chiama C. la coscienza a cui l’oggetto è dato "puramente in se stesso, esattamente qual è in se stesso".

  

CLASSICISMO (dal tot. cf<w.wcw-v=dassico!l Per classico si intende, nella tarda latinità, ciò che è eccellente nella sua classe o appartiene a una classe eccellente, specie militare, ma la parola nel corso dei secoli ha assunto tre connotazioni diverse: di opera o individuo appartenente a una cultura superiore; in arte, di cosa o individuo facente parte dell'antichità classica, intesa come perfezione perduta o da far rivivere; come stile artistico, ciò che è dotato di proporzione, ecmilibrio formale, armonia, perfezione, come nell'età classica. In tutti e tre i sensi la parola è assunta dal Romanticismo, ove il C. è assurto, come atteggiamento culturale, a stile e modo di vita, inteso come attribuzione all'antichità classica, in specie .ereca, valore di modello esemplare di arte e pensiero. Ma il C. ebbe i suoi momenti culminanti anche nell'Italia dell'Umanesimo e del Rinascimento, ove fiorirono un'attenta filologia e una trattatistica normativa sull'età classica in vista non solo di una sua riscoperta ma anche di una sua rinascita fissata in risidi canoni, e nella Francia del Seicento, ove i valori estetici dell'età classica, ripresi dal razionalismo cinquecentesco di ispirazione aristotelica, sono considerati unici e immutabili, come espressione del vero e del bello, e acquistano un carattere fortemente normativo, contro ogni consapevolezza storica, influenzando tutto il secolo successivo, come sistema di valori e espressione artistica e culturale della monarchia assoluta in tutta Europa. fl Romanticismo tedesco, e fiiosofico e storiografico e pedagogico, con la sua consapevolezza storica dell'individualità e irripetibilità delle diverse epoche storielle, riterrà irrimediabilmente perduto Quell'ideale di perfezione raggiunto dai greci, considerando la storia posteriore come decadenza e corruzione, come per W. von Humboldt. F, Schiller. e soprattutto per J, J, Winckelmann. la cui Storia dell'arte dell'antichità (1764) è il testo fondamentale del C, Anche He.ee! riconosce valore esemplare, ma ormai definitivamente perduto nella storia dello Spirito, all'antichità classica areca, come compiuta unificazione del contenuto ideale e della forma sensibile. La perfezione è raggiunta nel momento in cui la forma sensibile è trasfigurata dall'artista, sottratta alla finitudine e resa perfettamente conforme all'infinità del Concetto, ossia dello Spirito autocosciente, di modo che la bellezza non è più corporea e esteriorizzata, ma puramente spirituale, in Quanto bellezza dell'interiorità, della soggettività infinita in se stessa (Vorlesumvn uber die Aesthelik. ediz. Glockner, II. P, 109 saa.ì. Una prima reazione all'impostazione del C. si ebbe con ?.. Nietzsche. che in Nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872). proponendo una nuova visione della classicità, e correlativamente un nuovo concetto di decadenza, distinse tra originario spirito dionisiaco della prima .grecita, impulso irrazionale che esprime nella musica la caoticità itteseimentabile della vita, e spirito apollineo, proprio della reazione difensiva alla decadenza della tarda classicità, che si esprime nella scultura, ambedue composti nella grande tragedia .greca di Eschilo e Sofocle. che. come forma suprema dell'arte, è la sintesi di breve durata dei due impulsi uccisa dal razionalismo ottimistico di Euripide,

  

CLASSICO/ISMO Per classico si intende, nella tarda latinità, ciò che è eccellente nella sua classe o appartiene a una classe eccellente, specie militare, ma la parola nel corso dei secoli ha assunto tre connotazioni diverse: a) di opera o individuo appartenente a una cultura superiore; b) in arte, di cosa o individuo facente parte dell'antichità classica, intesa come perfezione perduta o da far rivivere; c) come stile artistico, ciò che è dotato di proporzione, equilibrio formale, armonia, perfezione, come nell'età classica. In tutti e tre i sensi la parola è assunta dal Romanticismo, ove il C. è assunto, come atteggiamento culturale, a stile e modo di vita, inteso come attribuzione all'antichità classica, in specie greca, valore di modello esemplare di arte e pensiero. Ma il C. ebbe i suoi momenti culminanti anche nell'Italia dell'Umanesimo e del Rinascimento, ove fiorirono un'attenta filologia e una trattatistica normativa sull'età classica in vista non solo di una sua riscoperta ma anche di una sua rinascita fissata in rigidi canoni, e nella Francia del Seicento, ove i valori estetici dell'età classica, ripresi dal razionalismo cinquecentesco di ispirazione aristotelica, sono considerati unici e immutabili, come espressione del vero e del bello, e acquistano un carattere fortemente normativo, contro la di loro consapevolezza storica, influenzando tutto il secolo successivo, come sistema di valori e espressione artistica e culturale della monarchia assoluta in tutta Europa. Il Romanticismo tedesco, e filosofico e storiografico e pedagogico, con la sua consapevolezza storica dell'individualità e irripetibilità delle diverse epoche storiche, riterrà irrimediabilmente perduto quell'ideale di perfezione raggiunto dai greci considerando la storia posteriore come decadenza e corruzione, come per W. von Humboldt, F. Schiller, e soprattutto per  Winckelmann, la cui Storia dell'arte dell'antichità è il testo fondamentale del C. Anche Hegel riconosce valore esemplare, ma ormai definitivamente perduto nella storia dello Spirito, all'antichità classica greca, come compiuta unificazione del contenuto ideale e della forma sensibile. La perfezione è raggiunta nel momento in cui la forma sensibile è trasfigurata dall'artista, sottratta alia finitudine e resa perfettamente conforme all'infinità del Concetto, ossia dello Spirito autocosciente, di modo che la bellezza non è più corporea e esteriorizzata, ma puramente spirituale, in quanto bellezza dell'interiorità, della soggettività infinita in se stessa. Una prima reazione all'impostazione del C. si ebbe con F. Nietzsche, che in Nascita della tragedia, proponendo una nuova visione della classicità, e correlativamente un nuovo concetto di decadenza, distinse tra originario spirito dionisiaco della prima grecità, impulso irrazionale che esprime nella musica la caoticità irreggimentabile della vita, e spirito apollineo, proprio della reazione difensiva alla decadenza della tarda classicità, che si esprime nella scultura, ambedue composti nella grande tragedia greca di Eschilo e Sofocle, che, come forma suprema dell'arte, è la sintesi di breve durata dei due impulsi distrutta dal razionalismo ottimistico di Euripide.

  

CONATUS (lat. impulso, sforzo) Nel Rinascimento, è l'istinto stoico come tendenza all'autoconservazione. Ma il termine si riferisce alla filosofia di Spinoza, che vi diede il significato classico per cui "lo sforzo di conservarsi è la stessa essenza della cosa" , che si chiama volontà quando si riferisce alla sola mente; quando si riferisce insieme alla mente e al corpo si chiama appetito, il quale perciò è l'essenza stessa: Analogo  il senso in Vico, per il quale "La natura cominciò ad esistere per un atto di C.: in altri termini, il C. è la natura (come anche le Scuole dicono) in fieri, in procinto di giungere all'esistenza" Diverso invece il C. in Hobbes, per il quale il C. è il movimento istantaneo, "il movimento in uno spazio e tempo minore di ogni spazio e tempo dato"; Leibniz, che inizialmente diede il significato per cui il C. sta al movimento come il punto sta allo spazio, cioè come l’unità all'infinito è l'inizio o la fine del movimento" (Hypothesìs Physica Nova, 1671, Op., ed. Gerhardt), in seguito intende per C. la forza attiva, ossia l'energia cui egli ridusse la materia. "La forza attiva, che si suole anche dire senz'altro forza, non è da concepirsi come la semplice potenza volgare della scuola, cioè come una ricettività di azione, ma implica un C., cioè «una tendenza all'azione, cosicché, se non c'è impedimento, ne deriva l'azione" (Mathematische Scriften. Ed. Gerhardt). Wolff attribuì al termine questo significato.

  

COSMOGONIA La C., in senso ellenico è l'atto grazie al quale l'universo fu ordinato, e, a differenza della maggioranza delle sacre dottrine religiose, distingue tra l’istante dell’origine prima della materia e quello del suo ordinamento. I sistemi teologici ad alto livello intellettuale, che si ricollegano alle nozioni cosmogoniche primordiali, considerano lo spazio oscuro e infinito esistente nel cosmo come eterna potenzialità creativa e detrazione volontaria e libera della divinità. Oggi si intende comunemente con C. la varietà delle dottrine, a carattere mitologico-religioso, sull’origine del cosmo, che differiscono dalle cosmologìe per la mancanza di carattere filosofico (ma dai maggiori pensatori dell'antichità, come Anassagora, Platone, Aristotele, Cicerone,, Lucrezio, e, nell’età moderna, come Bacone, Cartesio, Leibniz, Kant, furono elaborate teorie cosmogoniche) e scientifico-naturale in senso moderno (ma in astronomia si intende per C. l'insieme delle teorie e delle ipotesi avanzate per comprendere l'origine dell’universo fisico, ed è da ricordare i'immagine schematica proposta da Weizsacker). Ma Kant intende per cosmologìa razionale l'insieme dei problemi sull'origine e l'essenza del mondo, considerato come realtà noumenica e non come fenomeno. Diffuse in diverse aree culturali le C. si incentrano tutte su divinità o demiurghi, semidei, aiutanti o uomini, increati o autocreati, che creano l'universo dal nulla o da realtà preesistenti. In questo senso, la creazione nella Genesi biblica può essere vista come una C. Esiodo, nella Teogonia, vede alle origini la coppia cielo-maschio, Urano, e terra-femmina, Gea. "Nella tradizione omerica, all'origine dell'universo vi è Oceano, non si sa se dio o elemento indifferenziato. Diffusissima, dalla Polinesia alla Grecia classica, la C. che individua nell'uovo la forma, originaria, come nell'orfìsmo.

 

COSMOPOLITISMO almeno il saaato. come cittadino del mondo, al di là delle divisioni politiche e culturali, e che perciò tende a una loro 2.£-353»arsa. NeWarsticistà classica, i C-ànici e gS Stoici lesero a sseste ideale: oltre 3 Biogene il Cinico, che rispose a eia-ali chiedeva la sua provenienza di essere "cosmopolita". Zenone: "Consideriamo tutti gli uomini connazionali e jBBcmatiini; sia una la vita e ii Biondo come \m sits.setetto «nito, aSSevato cosi ana tesse comune" fPkrt., Ite J/CT, VJA, 1, 6, 329). Nell'età moderna, il C., non diverso dall'universalismo religioso, fu propugnato, oltre che da Leibntz e Mì'ffiximinismo. éa Kant. che So considera un principio resoiativo del progresso della società wmana verso l'integrazione universale, e perciò come "il destino del genere umano, giustificato da una tendenza naturale in tal senso" (Antr., II e). Matti, ne5S'.4??wro Testamento, l'Eterno dice: "Vi sarà una sola lesse per tutta l'assemblea, per voi e per lo straniero che soggiorna tra voi; sarà una legge perpetua, di generazione in generazione; come siete voi, cosi sarà lo straniero davanti riS'Eterno. Ci sarà una stessa lesse e «rio stesso diritto per voi e per lo straniero che soggiorna da voi." {Bibbia. Antico Testamento, Numeri, XV;4l-49>.

 

CRISTOLOGÌA (da Cristo: appellativo di sovrani eletti da Dio) Nella teologia cristiana, la razionalizzazione o riflessione sistematica sulla vita e sulla persona storica neotestamentaria di Gesù, appellato Cristo. Nella Scrittura sono presenti sia affermazioni ontologiche (natura o essenza) relative all'essere Gesù, sulla sua incarnazione come parola di Dio (Verbo) e sapienza, sia affermazioni sul suo ruolo nella storia (Messìa, Redentore, Salvatore) come mediazione tra Dio e l'uomo, quest'ultima funzione di origine più antica e influenzata dalla cultura greca. Il dibattito teologico trova un argine nelle norme conciliari; il Concilio di Nicea (325 d. C.) afferma, contro l'arianesimo, la consustanzialità del Padre e del Figlio, il Concilio di Efeso (431) afferma, contro il nestorianesimo, che Gesù è Dio, identificando e non facendo coincidere divinità e umanità di Cristo, mentre ii Concilio di Calcedonia respingerà questo radicale monofisismo delle due nature, contrapponendogli, a causa dell'incarnazione, l'essere Cristo una ipòstasi (lat. substantia), ossia persona, in quanto dotata di consistenza al di là del fluire fenomenico - in due nature. Ma il monofisismo rimarrà presente in Oriente sino al III Concilio di Costantinopoli (680). Nella teologia cattolica, la Scolastica tuttora si interroga sulla persona e la coscienza di Cristo. La riforma, in tutte le sue varie linee, concentrò la sua attenzione più che sul Deus in sé sul Deus pro nobis, proponendo una C. della kenosìs, ossia dello svuotamento come rinuncia volontaria di Dio alla trascendenza nell'incarnazione. Nel XX secolo, la teologia liberale e ii modernismo propongono una lettura di Cristo come profeta escatologico, mentre la teologia dialettica, o della crisi, soprattutto di Barth. vi oppone la riaffermazione critica di Cristo come Verbo che parla agli uomini, e la teologia russo-ortodossa integra la C. nella sofiologia. che vede la Chiesa come progressiva rivelazione e incarnazione storica dell”'unità prodotta dal divino organismo di Cristo". Tutte oueste varie posizioni, attentamente vagliate dalla teologia cattolica, costituiscono per la sua scolastica motivo di ripensamento per la realizzazione della Chiesa universale, secondo il dettato veterotestamentario {Bibbia, Antico Testamento, Num,, XV;41-49)

  

CRITICA/CRITICISMO: (gr. krino=distinguo, giudico; lat. critica ratio=le norme della critica) Col termine Criticismo si intende indicare la filosofia di Kant così come essa si è venuta definendo in quanto critica della ragione (pura e pratica, in altri termini teoretica e morale) e del giudizio, ossia in quanto ricerca e definizione delle possibilità e dei limiti della ragione (umana).Kant intendeva dare una fondazione alla ragione che distinguesse la filosofia, nell'impostazione nuova che di lì in poi essa avrà, sia dalla psicologia come scienza de facto che si occupa dell'origine e dello sviluppo della conoscenza e in genere dell'attività umana, e che perciò è diversa dalla filosofia come scienza de jure, ossia concernente la validità e le condizioni di quella stessa conoscenza e attività umana, sia soprattutto dalla metafisica così come si presentava ai suoi occhi sino ai suoi tempi. E intendeva pure gettare le basi per uno sviluppo della filosofia posteriore che, tenendo conto di possibilità e limiti della ragione nella sua trascendentalità, fosse anche propedeutico - e qui è l'ideale illuministico di Kant vivo ancor oggi - ad un reale progresso della scienza come campo di indagine e di applicazione dell'esperienza possibile. Il termine Critica fu quindi introdotto da Kant, ma costituiva già prima un ideale ispiratore dell'Illuminismo ed ebbe un suo antecedente nel "Saggio sull'intelletto umano" di Locke, teso, come si dice nell'Epistola al lettore che fa da premessa, a "esaminare le capacità proprie dell'uomo e vedere quali oggetti il suo intelletto sia o non sia capace di considerare", anche se, come si vede, qui si parla di intelletto e non di ragione. Questo approccio critico fu poi giudicato negativamente da Hegel neH"'Enciclopedia", che lo interpretò in modo riduttivo come impossibile disamina della ragione su se stessa prima di qualunque conoscenza, invece che come indagine basata sull'operare effettivo della ragione, cosa che tra l'altro ne segna semmai il limite storico, determinato in particolare in campo estetico dall'apparire delle geometrie non euclidee di fine Ottocento, che riducevano di fatto l'esaustività della trattazione kantiana dello spazio e del tempo. Il termine Criticismo è stato infatti ripreso in Europa in ambito inizialmente e principalmente tedesco tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo con il prefisso neo, per indicare un doppio filone di ricerca, scisso nelle due scuole di Marburgo e del Baden e detto anche neokantismo, che partisse da quel "ritorno a Kant" che intendeva però tenere conto appunto del cammino della scienza dopo di lui verificatosi. L'obiettivo comune era duplice. Per un verso, in polemica con il coevo positivismo, ma anche con l'empirismo e lo psicologismo, evidenziare la struttura trascendentale della coscienza e la validità normativa dei suoi contenuti ideali, in evidente riferimento anche a Piatone e in polemica con la distinzione kantiana tra sensibilità e intelletto e con la kantiana necessità, nella conoscenza, del dato sensibile. Per l'altro, estendere l'approccio critico a tutti i campi della cultura, il cui studio è stato diviso significativamente dalla scuola del Baden, che privilegiò in particolare la storia anche in rapporto alla filosofia della storia e del diritto di Hegel, tra le "scienze della natura" e le "scienze della cultura", o "scienze nomotetiche" e "scienze ideografiche", le prime alla ricerca delle leggi generali, le seconde di quelle individuali

 

 

DEISMO (dal lat. Deus, ingl. Deism, franc. Déism, ted. Deismus) La dottrina di una religione naturale o razionale, fondata non su una rivelazione storica, ma sulla manifestazione naturale che la divinità fa di sé alla ragione dell'uomo, dottrina che rifiuta delle religioni storico-confessionali ciò che non si accorda con la ragione: il D. si fonda sull'opposizione tra religione naturale o razionale (universale) e religioni positive o storielle, e crede che Dio crei e governi il mondo sia fisico che morale, e nella remunerazione del bene e del male in una vita futura. Nel XVI sec. la parola D. era contrapposta all'ateismo designando chi crede nell'esistenza di Dio. Le origini del movimento deista risalgono all'Inghilterra dei secc. XVII-XVIII, e precisamente alle dispute dei platonici di Cambridge (Herbert di Cherbury, De Veritate, 1624, ma soprattutto John Roland, il Cristianesimo non misterioso, 1696), al saggio di J. Locke Ragionevolezza del cristianesimo (1695), in cui il filosofo è per un ritorno alla dottrina dei Vangeli rispetto alla dottrina dei concili, come quello di Nicea, che costituiranno la dottrina ufficiale della Chiesa, e afferma che la vera religione non deve contenere nulla di irrazionale, a P. Bayle che fa una critica delle fonti vetero- e neotestamentarie priva di pregiudizi (Dizionario storico-critico, 1695-97) e ad A. Collins che nel 700 ritorna sui sacri testi con un'analisi filologica rigorosa comparando Antico e Nuovo Testamento (Saggio sull'uso della ragione, 1707, Discorso sul libero pensiero, 1713, Discorso sui fondamenti e le ragioni della religione cristiana, 1724), teso a dimostrare che una corretta lettura è ardua, dal momento che la Scrittura, priva di vocali e segni d'interpunzione, si presta a interpretazioni differenti. Il D. si diffuse prima in Francia e poi in Germania. Pascal considera il D. un modo di credere in Dio inaccettabile per il cristiano, Voltaire parla di "teismo", considerando Dio indifferente alle sorti degli uomini (Lettere inglesi, 1734, Trattato sulla tolleranza, 1763, Dizionario fìlosofìco, 1764), Rousseau è vicino agli inglesi perché riconosce in Dio il garante dell'ordine morale del mondo, ma è Kant a stabilire la distinzione tra D. e teismo (Critica della Ragion Pura (Dialettica), ma anche La Religione nei limiti della semplice ragione, 1793) mentre in Fichte il D. è ancora presente (Saggio di una critica di ogni rivelazione, 1792). In Francia il movimento deista fu radicale, con scritti prima anonimi e clandestini (Esame della religione, 1745, Esame del Nuovo Testamento, 1769) di grandissima diffusione e che anticipavano l'Illuminismo: condanna di tutte le religioni positive, rifiuto della rivelazione e dei miracoli, denuncia dell'impostura, ossia dell'uso della superstizione a fini politici. In Germania vi fu un D. più moderato, teso a storicizzare la religione: Ch. Wolff scrisse la Teologia naturale, 1736-37, M. Mendelssohn Ore mattutine o lezioni sull'esistenza di Dio, 1785, mentre Lessing vide le religioni positive come fasi di sviluppo e di educazione dell'umanità, dalla sua età infantile alla maturità di una religione puramente razionale (Il cristianesimo della ragione, 1753, Sulla genesi della religione rivelata, 1753-55, Sulla prova dello spirito e della forza, L'educazione del genere umano, 1777'-80, Diàloghi per massoni, 1778-80).

  

DEMONE (gr. daimon) Socrate riconosceva nella voce che lo richiamava al suo compito e a ciò che dovesse o non dovesse fare "un alcunché di divino", ossia il carattere trascendente o divino del richiamo.

 

DIO In tutte le culture passate e presenti conosciute si sono trovate tracce della presenza dell'idea di D. come fede in entità superiori dotate di potenza sovrumana, che l’induismo politeista si configura come coscienza dell'unità della divinità sotto i vari nomi (prova storica). Nella filosofia occidentale. D. ha significato: 1) Causa (principio che rende possibile l'essere, quindi in rapporto al mondo) 2) Bene (creatore dell'ordine morale e razionale) 1) D. è Causa del mondo (creatore dell'ordine razionale): Anassagora per primo afferma il Nous come causa libera, che crea però non dal nulla. Così l'Artefice di Piatone, dotato di bontà e finalizzato al bene ma limitato da mondo delle idee e materia, garante dell'ordine morale umano e in ultimo definito Primo Motore, Da qui parte Aristotele. considerandolo Immobile, atto puro privo di materia, sostanza come forma infinita, origine eterna e separata delle serie causali non più limitata da modelli. Voltaire e l'Illuminismo si rifanno all'idea del D. artefice, ma non dell'ordine morale: bene e male hanno funzione sociale. Nel 900 Peirce distingue tra D, come "parte di un sistema" e la "statica intemporalità del perfetto assoluto"; b) necessario (natura del mondo in rapporto sostanziale e necessario con esso): il panteismo non distingue causalità divina - libera - e naturale, e pur non esaurendo D. nei mondo, vede il rapporto come emanazione, rivelazione, realizzazione di D: in Plotino il mondo deriva da D. per una gradualità distinta ma non separata, D. è l'Uno rispetto ai molti, superiore alla sostanza, alla verità, all'essere; a D. si accede per estasi mistica. In Scoto Eriugena il mondo è teofania (rivelazione circolare da D. al Verbo al mondo). Per Cusano D. è in tutto e tutto è in D.. punto in cui il molteplice si unifica e si diversifica, per Schelling "D. è Universo considerato dal lato dell'identità ed è il tutto perché è tutto il reale", ma è anche realizzazione di D. (concetto del razionalismo geometrizzante di Spinoza, per cui non esiste contingenza. Per i romantici, D, si rivela e nel contempo si realizza, in Hegel come autocoscienza) creante il mondo', nella polemica tra cristiani e gnostici, D. è creatore unico (contro il politeismo) e libero (Genesi), per Agostino è l'Essere eterno che ha creato anche il tempo, per Abelardo D. crea necessariamente e a fin di bene. Anselmo riassumeva nel Monologion il lavoro di secoli. Nella Scolastica arabo-cristiana si ha distinzione tra essere necessario e possibile, ripresa da Tommaso, in cui D. è identità Becessaria di essenza e esistenza. Cartesio prende la necessità come base della prova ontologica (e anche molto spiritualismo da Lotze in poi), per Kierkegaard tra D. e il mondo c'è un salto incomprensibile. dal momento che per D. tutto è possibile e dove c'è fede c'è salvezza 2) D. come l'ordine morale creatore del mondo dei valori poggia sul concetto di Provvidenza, ordine razionale di eventi e azioni: per gli Stoici D. è ragione, provvidenza, destino. Piotino vede accidentale il male (Leibniz). in Spinoza necessità e libertà coincidono, come poi nei romantici (per Hegel Provvidenza e storia universale si identificano), nella teologia cristiana la provvidenza immanente impegna all'azione. Ma si deve distinguere D. come causa libera dell'ordine morale dall'ordine morale stesso per salvare la responsabilità e la storicità dell'uomo

 

DIVENIRE (lat. Fieri) Una delle forme del mutamento, quella assoluta o sostanziale, che va dal nulla all'essere o dall'essere al nulla e che implica il mutamento della sostanza inteso come cammino verso la pienezza della sua propria forma. Il problema dell'opposizione tra essere e divenire è proprio della filosofia greca antica: per gli stoici e Eraclito, il D. è il fluire perenne del tutto, in opposizione all'immobilità parmenidea dell'essere. Platone afferma che il non-essere assoluto, a differenza di quello relativo, non può divenire. Per Aristotele il D. si dice in più sensi: accanto a ciò che diviene assolutamente c'è ciò che diviene questa o quella cosa. Il D. assoluto è proprio solo delle sostanze. I principi del D. sono gli opposti tra i quali il D. intercorre e la privazione di uno di essi in favore dell'altro, giacché niente diviene dal nulla, ma solo dal non-essere accidentale e relativo, e per cui tale passaggio ha bisogno di un sostrato che sostenga la trasformazione. II passaggio di un ente dalla potenza all'atto richiede un essere già in atto che dia origine all'attualizzazione dell'ente e al suo D.: l'atto primo o primo motore immobile. Per Hegel il D. è l'espressione del risultato di essere e niente come unità di essi: “è l’irrequietezza in sé". Se esso è l'unità dell'essere e del nulla, "La veduta filosofica per cui vale il principio che l'essere è soltanto essere e il nulla soltanto nulla, merita il nome di sistema dell'identità. Questa identità astratta è l'essenza del panteismo" (Wissenschaft der Logik, libro I, sez, I, cap. I), laddove nulla hegeliano e privazione aristotelica sono simili nel senso che entrano a costituire il D. sul quale le discussioni anche fra i non hegeliani sono numerose. Nella filosofia moderna e contemporanea, che tende a sottacere il problema, si è però diffusa tra l'Illuminismo (che ne vede il livello storico-sociale), lo storicismo idealistico, il positivismo, e il vitalismo dei XX secolo, la visione che la realtà sia evoluzione, processo, sviluppo, come nella teoria dell'evoluzione creatrice di Bergson.

  

DIVERSITA'-DlVERSO {lai diversità^ -tati& drverws, da Jj-\i??tt'rtf=a!lontanare-iJa|-voisere=de>we, opposto di wnwr$M5=volto tutto intero nella stessa direzione) Termine generico che indica cani alterazione, e/odifferenza e/o dissomiglianza rssnetto a xm elemento di confronto considerato come norma, o comunque criterio del giudizio Vi nuò nero essere una semnlice distinzione numerica, e non pii! Qualitativa o Quantitativa, tra due elementi per il resto usuali,. relativa ad, es alla posizione nello spazio e/o nel temno In Questo senso la D. è k pura e semplice negazione dell'identità, come quando WolfFdice che "sono diverse le cose che non possono essere sostituite l'una all'altra rimanendo saldi i predicati che si attribuiscono ad una dì e-sse assolutamente o a una data condizione" CO»?. S 18>)

  

DOVERE Per gli Stoici l'azione umana o animale o vegetale conforme all’ordine razionale del tutto, cioè guidata dalla norma del vivere secondo natura, e la cui scelta può essere razionalmente giustificata, « ciò che la ragione consiglia, non è D., ciò che la ragione né consiglia né vieta, in vista della conformità all'ordine razionale -- il destino, !a provvidenza. Allo stesso D. retto, proprio del sapiente, e perfetto e assoluto, si affiancano i D. intermedi, comuni, realizzati con indole buona e istruita. L'etica aristotelica fonda il D. sul desiderio naturale alla felicità, e perciò può dirsi eudemonistica. II medioevo cristiano riprende l'eudemon aristotelico in chiave filosofica, per cui di questo mondo è la virtù e non la felicità, il cui risarcimento come beatitudine è nell'ultramondano. Con Kant e la sua etica della normatività, che dallo stoico conformarsi all'ordine razionale del tutto diventa conformità alla tesi della ragione, il D. ridiviene centrale come azione razionale la cui intenzione è dettata unicamente dal rispetto della e in vista della legge, secondo la formula "Fai che la massima della tua azione POSSA diventare legge universale-"  questa è la sola autentica azione morale, inerente dunque nel suo valore sia al Soggetto sia dallo scopo, è D. l'azione "oggettivamente pratica", in cui coincidono la massima che determina la volontà e la legge, sicché moralità e D. coincidono. Fichte trasformò questa dottrina kantiana del D. in una vera e propria metafisica: "L'unica e salda base di tutta la mia conoscenza è il mio dovere. E' questo l'intellegibile. Nell'età contemporanea, l'etica continua a riferirsi a un ordine naturale necessario. In quelle teorie che vedono la norma finalizzata alla felicità o alla perfezione, il D. vi è scomparso, sostituito, come in Bentham, dall'interesse. Per l'etica assoluta di Bergson invece occorre un'etica in cui il D., o obbligazione morale diviene, in una società chiusa, un'abitudine sociale, e «nella società aperta che corrisponde a tutta l'umanità, lo sforzo creativo della vita verso una società perfezionata.

 

 

ECLETTISMO (dal gr. eKXeKiiKoa=che sceglie, da eKÀ,sy£iv=scegliere, selezionare) 1) In senso classico, il termine si riferisce all'indirizzo preso, in età ellenistico-romana, dalla scuola stoica a partire da Boeto di Sindone (m. 119 a. C.), dall'Accademia platonica con Filone di Larissa (I sec. a. C.) e dalla scuola aristotelica con Andronico di Rodi (I sec. a. C.), ma riguarda pure epicureismo e scetticismo (accomunati dall'idea che il fine dell'uomo sia la felicità come assenza di turbamento), e consiste nello sforzo di combinare in un insieme coerente dottrine ricavate da sistemi e scuole diversi (soprattutto platonica e aristotelica), superandone le contraddizioni, interpretate come differenze terminologiche. Nell'Accademia, Filone, per evitarne le conseguenze scettiche in campo etico, oppose alla teoria della sospensione dell'assenso, prevalsa con Cameade, quella che, pur negando all'uomo la possibilità di raggiungere la verità incondizionata, pure gli attribuisce un sapere dotato di un grado ragionevole di certezza. Panezio di Rodi e Posidonio di Apamea, ammorbidendo la rigidità dello stoicismo, videro nella ricerca del "conveniente" il principio che orienta la vita morale. Il più illustre seguace delFE., Cicerone, le cui idee egli voleva non imporre dogmaticamente ma diffondere tramite la retorica e la persuasione, si fece interprete di molti dei tratti comuni a tutti gli indirizzi eclettici: in campo etico e gnoseologico, il comensus gentis come criterio di verità, ossia la necessità del giudizio unanime del popolo sulle questioni riguardanti la cosa pubblica; in cosmologia, l'unità vivente del tutto, ordinato dalla razionalità divina intesa come provvidenza che tutto volge verso il bene (evidente in questa teologia naturale il rifiuto di meccanicismo e irrazionalismo); in antropologia, l'ideale del saggio che, rivolto alla cura privata della propria anima, vive ispirandosi ai valori del decoro e del contegno. Questa sintesi eclettica di scienza e retorica informò di sé sia in Grecia che a Roma numerose scuole volte alla formazione di magistrati, avvocati, funzionali governativi e imperiali. 2) II termine è stato ripreso in età romantica dallo spiritualista V. Cousin a indicare il proprio metodo, volto a portare alla luce, per poi integrarle, sia le verità implicite proprie della coscienza {Du vrai, du beau et du bien, 1853, Pref), sia le verità espresse nei diversi sistemi filosofici, la cui varietà può ridursi a quattro posizioni fondamentali in successione costante: sensismo, idealismo, scetticismo, misticismo (Storia generale della filosofia, Lezione I).

  

ELEMENTO  Il termine ha un significato filosofico e uno chimico. Il primo, più antico, è usato da Platone e definito da Aristotele come "il componenente primo di una cosa qualsiasi in quanto sia di una specie irrducibile a una specie diversa", per cui in senso proprio indica le parti principali, o dimostrazioni prime, di una dottrina che possono essere utilizzate anche in altre dimostrazioni, come nel teorema di Euclide. Metaforicamente perciò l’E. è l'entità più universale, semplice e indivisibile, che può ricorrere in un numero indefinito di casi. A questo significato gli Stoici diedero il nome di principi, ingenerati e incorruttibili, distinti dagli E., che possono «ssere distrutti dalle conflagrazioni periodiche del mondo, Wittgenstein diede una definizione logica di E. come proposizione elementare, risultato della scomposizione analitica di proposizioni complesse, che asserisce l'esistenza di un fatto atomico e consta di nomi in unione immediata. In ambito chimico, fu Robert Boyle, uno dei fondatori della chimica moderna, a definire l’E. nel Chymista Scepticus (1661) come corpo indecomposto da mezzi chimici a disposizione, di modo da storicizzare, limitandolo alle attuali conoscenze, il contenuto del concetto di E., come primum indivisibile, e da relativizzarlo, sottolineando che ciò che è E., in un campo e con determinati strumenti può «non esserlo in un altro>>.

 

ELLENISMO-^ ALÈSSANDRJSMO j,sr. heflenismos da /?e//e>»M.<r-pertinente o riconducile ss Greci) Per E. si intende il periodo seguito alla morte dì Alessandro Magno nel 323 a. C , che unificò i! mondo antico sia orientale che occidentale sotto l'impronta delia cultura .sreca e della sua lingua, iacendone capitale Aìessandria d'Egitto, .grande centro intetìettuaie ricco di un Museo, che ospitava scienziati e dotti di tutti i paesi, e della famosa Biblioteca alessandrina, il cui «rimo corpo fejono k opere di Anstotele, ma che poi custodi circa setteeentomila volumi. L'È. è caratterizzato m campo caharaie dalla scissione tra scienza e filosofia: le due scuole tilosoiìche dell'Epicureismo e dello Stoicismo, e i due indirizzi dello Scetticismo e dell'Eclettismo, ss nvoìsono non piò al compito classico fa una ricerca libera del rapporto tra «orno e cosmo, bensì a quello dì garantire all'uomo, nell'isolamento da tutto, la pace e la serenità, mentre in campo scientifico si ha ima sistemazione dei metodi e dei risultati, con .grandi fedire di matematici fÈwdide, Archimedei, astronomi (Tolomeo). geografi (Eratosteneì, medici (Gaietto 5-

 

ENERGHEIA Per Aristotele, l’E. è il principio determinante e attuante contrapposto alla materia o principio determinabile e potenziale, che concorre a determinare l'entelechia, ossia la forma finale come compiuta realizzazione éeila potenza. Ad es., l'anima è l'entelechia di un corpo organico, e l'E. è la forza attuante dell'anima. In questo senso, per Leibniz l'E. è l'essenza della monade, centro dinamico e causa interiore dei suoi mutamenti. Analogo significato metafisico ha in filosofia il concetto di forza (f.); Leibniz afferma che le unità ultime (atomi) non possono essere materiali ma spirituali, riabilitando le forme sostanziali, la cui natura è f,. concetto analogo a quello di coscienza. Questa teoria influenzerà tutto l'indirizzo filosofico del XIX secolo, da Mayne De Biran in poi. Schopenhauer opera il passaggio dalla psicologia alla metafisica, riconoscendo che l’essenza del mondo è in sé f., unica. Quella stessa potenza attiva che l'uomo percepisce immediatamente in sé, e che chiama per sé volontà, e dando così avvio alle filosofie spiritualistiche, come quella di Bergson dello slancio vitale; in senso fisico, poi si intende per energia (f.) qualunque capacità o forza di produrre un effetto o un lavoro (attività), Leibniz nella Demonstratio erroris memorabili Cartesìi (1686) distingue tra e. potenziale (f. di posizione) e e. cinetica (f. di movimento) e tra forza viva e forza morta, mentre Joule nel 1842-43 scopre il principio della conservazione dell'e., o primo principio della termodinamica, che stabiliva l'equivalenza tra meccanica e calore, dimostrando che quest'ultimo è una forma di e. che va al di là del dominio meccanico, mentre a Helmoltz (Sulla conservazione della forza, 1842) si deve, oltre al prevalere del termine e. su quello di forza, il concetto che è e. ogni entità passibile di essere convertita in un'altra forma, dal momento che l’e. è indistruttibile come qualsiasi altra sostanza (non può essere né creata né distrutta) ed è quindi la seconda sostanza della fisica dopo la materia. Con la teoria della relatività e la meccanica quantica si è avuta la riduzione della materia a densità di campo, e il superamento del dualismo tradizionale della fisica classica che voleva la materia come sostanza.

 

ERESIA (lat. haeresis=dottrina, dogma, scuola, sistema, setta, eresia) II termine indica, nell'ultimo giudaismo, e un semplice movimento di dissenso interno alla tradizione, e contenuti dottrinali che, dando forma a una corrente che le si oppone, vanno insieme a questa osteggiati; nel Nuovo Testamento, sia una setta che una tendenza alla divisione opera della carne; secondo i Padri Apostolici, i più rigorosi, la negazione formale, intesa come scelta, di una verità rivelata o comunque necessaria secondo l'istituzione ecclesiastica. Il contenuto del concetto, e la sua applicazione, è infatti definibile solo in rapporto a un diverso contenuto assunto come norma che formi l'ortodossia rispetto all'eterodossia (cosicché, ad es., i primi cristiani furono giudicati eretici, e la Chiesa cattolica romana lo è tuttora per un protestante). Ciò significa, sul piano della metodologia storiografica, che l'È. è funzione del dogma, e che perciò una storia dell'E., allo sviluppo del quale è strettamente interrelata, risulta sempre prospettica, e problematica in quanto legata al processo non lineare di formulazione del dogma stesso: nella storia del cattolicesimo, E. furono giudicati - oltre a gnosticismo, arianesimo, monoteletismo e predestinazionismo -sabellianismo, subordinazionismo e modalismo (teologie di tipo trinitario); nestorianesimo e monofisismo (di tipo cristologico); pelagianesimo (antropologico); veterocattolicesimo (ecclesiologico). La persecuzione dell'E., la quale è stata dai ceti oppressi spesso piegata, dall'originario contenuto religioso, a fini sociopolitici contro il sistema dominante e le sue istituzioni, si riscontra, oltre che in ambito cristiano (ove elementi essenziali per la definizione dell'eretico erano anche atteggiamenti soggettivi quali pertinacia e ostinazione), anche presso altre grandi tradizioni religiose: nel buddismo, che però non possiede un termine perfettamente equivalente, nel confucianesimo, ove è la posizione eterodossa, viziosa e cattiva, ma che, con la sua tolleranza, ha perseguito l'È. solo quando la deviazione dottrinaria ha costituito un pericolo sul piano politico-statuale; nell'islamismo, ove vivaci e numerose sono sempre state discussioni e lotte tra fazioni in merito alla fedeltà al Corano e alla Sunna. L'È. e la sua vicenda risultano perciò il luogo in cui si rende visibile l'intreccio tra istanze ideali  e loro traduzione ideologica sul piano dottrinario non solo religioso ma anche politico-sociale, e livello storico dell'affermazione dell'E. come movimento di riscatto delle coscienze anche contro la precarietà dell'esistenza, e della lotta di potere, spesso cruenta e perdente, contro quell'istituzione sia religiosa sia politica che si avoca il diritto di stabilire il confine tra lecito e illecito.

  

ESEGESI Lettura e interpretazione del significato della Bibbia anche con l’aiuto di testi classici anche giuridici, letterari, ecc. L’E. della Bibbia, come rivelazione divina in parola umana, è intesa come testo, e dunque sia sottoposta all'analisi delle scienze storico-critiche (critica testuale, letteraria, storica), sia come testimonianza di questa stessa rivelazioni divina, e dunque implicante una verità assoluta, nell’interpretazione dei significato sempre riattuantesi e sempre attuale della Parola. Nel corso della storia si sono fronteggiate diverse E. - esegesi letterale, esegesi spirituale – per trovare un punto di incontro nella Bibbia stessa come due tesi diverse ma ad essa intrinsecamente legate per il loro significato criticamente ricostruito, che fa emergere la sua attualità dì appello alla fede. E questo punto d’incontro è ottenuto, sul piano scientifico, dall’interpretazione del testo non sottacendo l'apporto del soggetto. La letteratura biblica antica, in assenza del metodo storico-critico, è piuttosto difficile da interpretare, nonostante la letteratura ebraica abbia codificato la E. della Bibbia in regole. La pratica esegetica si divise in due grandi scuole: una più aderente al senso storico-letterale, e la alessandrina, più legata a influssi platonici. La patristica è relativa a tutto il Medioevo specie monastico: è la dottrina dei quattro sensi: il significato storico-letterale allude a un significato spirituale che si distingue in: senso allegorico, in riferimento a Cristo, senso antropologico o morale, senso anagogico o mistico, con valenza escatologica. A partire dalla scissione avutasi con la Riforma, l'E. ebbe sviluppi diversi. Dopo il Concilio di Trento e fino al secolo XX, l’E. cattolica è dottrinaria e apologetica, anche se, nonostante la condanna dei modernismo, che con Loisy interpretava storicamente i Vangeli, decisiva appare l'enciclica del 1943 Divino Afflanti Spiritu di Pio XII, che apre alla possibilità di un'E. biblica coadiuvata da strumenti scientifici quali i "generi letterari". a cui segue nel 1964 la lettera della Commissione biblica che apre alla "storia delle forme" e alla "storia della redazione", e nel 1966 la costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, tutti riconoscimenti della validità del metodo-storico critico nell'E. biblica. La storia delle forme, ad es. di Bultmann isola singole unità letterarie supponendo che esse abbiano avuto vita autonoma, prima orale, poi scritta, con funzione predicativa e liturgica per la comunità protocristiana, rintracciandone le trasformazioni sino alla stesura finale nei Vangeli.

  

ESEMPLARISMO (dal lat. exemplar o exemplum^opia, immagine, modello) Dottrina di origine platonica, ripresa poi dal neoplatonismo, da Agostino e dalla Scolastica, che vede gli enti quali copie o immagini di archetipi situati in un mondo intellegibile o nella mente di Dio.

 

ESSENZA fcr. ti e.tfm, Sat. essentia) i precedenti delia teoria deffE. si trovano in Piatone, che nei Menane fa chiedere a Socrate che cosa è ìa virtù, intesa nella sua E. necessaria, ossia in ciò che essa è in ogni circostanza. Ma per ia prima volta è Aristoteie a distinguere l'È. in: 1 ') ciò che risponde alia domanda "che cosa è?", come carattere necessario che definisce ìa cosa rispetto a un carattere o qualità secondario, e in 2) ciò che è ìa sostanza, e che è il solo vero contenuto della scienza, anche se teoria deii'E. e teoria della sostanza possono essere considerate propedeutiche l'una all'altra e identificate nella storia successiva dei termine. 1) Nel suo significato generale. VE. può essere accettata anche da coloro che non condividono ia teoria della sostanza Gii Stoici usarono al posto di E. "risposta" fapodosis). come enunciato linguistico in grado di orientare di fronte alle cose.Neiì'età moderna e contemporanea le due teorie sono state tenute distinte, in modo da consentire una cena aerarchia tra le determinazioni di una cosa che eliminasse il problema di quale fosse queììa necessaria. Per l'impossibilità infatti di definire l'inerenza di un carattere, tutto ì'IUuminismo con Hobbes paria di E. nominale, cioè "il carattere fì'accidens) per il quale diamo aii'oasetto il suo nome" (De corp., 8, § 23). Per Locke Ì'E. reale è la sostanza aristotelica come forma che dovrebbe dar ragione di tutte le qualità di un ente e mostrarne ìa connessione necessaria, ma è inaccessibile all'uomo {Sassio, III. 4. 9). La dottrina dell'E. nominale è la base della logica moderna e contemporanea: Ouine distingue tra la teoria aristotelica delì'E. come sostanza e la teoria del significato: "Le cose hanno E. per Aristoteie. ma solo le forme linguistiche hanno significati. li significato è quello che PE diventa quando è divorziata dall'oggetto di riferimento e sposata con la parola" (From a Logicai Paini of View. Il, 1") Per Santavana. che fa un uso metafisico deii'E., contrapponendola all'esistenza fidentificata con la materia), ia considera l'oggetto dell'attività conoscitiva, inserita con le altre in un regno infinito le cui E., oggetto puro d'intuizione senza alcun legame tra loro né alcuna forma d'essere, possono essere percepite, immaginate, sperimentate, pensate, dal momento che il loro essere è il loro apparire, senza tempo e senza spazio, né sostanza né parti nascoste (Tfie Realm of Esserne. 1927). 2) La teoria deii'E. come sostanza è quella delFE. necessaria, o vera. Piotino, identificando E. e sostanza, le pone nel mondo inteUegibiie. ossia nei Nous divino. Ma è con Tommaso nel XHI secolo che si ha un riordinamento dei molteplici significati con cui la filosofia scolastica aveva tradotto la teoria aristotelica dell'E., e un'identificazione di E. e sostanza come ciò che è comune a tutte le nature di enti diversi, per cui ad es. l'umanità è l'È. dell'uomo, detta anche quiddità o forma o natura, o il ctuodguiderai esse, "ciò per cui qualcosa è ciò che è" (Melaf., VII). La quiddità attiene alla definizione. VE. fa riferimento invece all'essere, queste definizioni tomistiche sono rimaste fondamentali per ogni teoria della sostanza nei secoli. Husserl per ultimo le ha riprese, per cui l'È è ciò che si trova nell'essere proprio di un individuo come suo quid. E o.eni quid può essere messo in idea, per cui la visione empirica e individuale può essere trasformata in visione dell'E. o ideazione, essenziale, cosicché l'oggetto intuito consisterà nella corrispondente E, pura o eidos, colta con un atto di intuizione diverso dal percepire sensibile (Ideen, L § 3, §23).

  

ETNOLOGÌA fsr ^fc?rt.v=popoìq e Iti?!)?;j Termine introdotto da A -C de Chgvannes nel 1787 che sta a indicare Io studio dei popoli "primitivi", e latamente quelli a cultura orale, nelle forme dei loro modi di vita sociali e culturali, a partire dall'osservazione diretta (o metodo dell'osservazione partecipante) o da documenti ancora esistenti Inizialmente l'È era una scienza fisica che studiava la classificazione delle razze, cosi come l'etnografia era lo strumento di tale classificazione basato sulle differenze linguistiche tra i..gruppi studiati, di cui. l'È si serviva in modo comparativo Col XX secolo si è giunti a intenderla come l'insieme delle discipline che studiano i caratteri individuali di un gruppo culturale, considerato in ogni modo ormai considerato non. più semplice rna complesso, e con particolare attenzione alla orospettiva etnocentrica da cui lo si guarda, Ma il termine E cambia significato a seconda dei vari indirizzi, basati su teorie e metodi diversi; in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Italia Claude Levi-Strauss, uno dei fondatori dell'antropologia culturale contemporanea, in un'opera ancora fondamentale, rende conto di questa disparità disciplinare e considera l'È il passo successivo alla descrizione etnografica in grado di operare la sintesi antropologica (Le scienze sociali tìell'imesnanienlo superiore, ed UNESCO, 1954, noi Anthrapologie siritcturale, 1958) Osai E , antropologia e storia si comnen.etrano Bardandosi l'un l'altra; in Francia si parla di E sociale o antronologia sociale, in Inghilterra di antronologia sociale, negli Stati Uniti si intende per antropoloaja l'insieme di antropologia fisica, archeologia, sociologia e antronologia culturale, in Italia, dispersi in diverse facoltà universitarie, vi. sono insegnamenti di antropologia, antropologia fisica, antropologia culturale, storia delle tradizioni popolari. E,, e altri.

 

ETOLOGIA !'sr. ••«fe)'—comwnnamemr' e fes?*?) Tennis? comato da W Wsndt indicante ia disciplina filosofie.» non normativa di studio storico-descrittivo dei costumi e dei comportamenti morali in determinati contesti sociali. Osai, z .partire da K, Lorenz e N, Tmbersen, disciplina naturalistica descrittiva, comparativa e evoluzionistica, derivata dalla zoologia e strettamente collegata ad altre discipline biologiche (fisiologia e ecologia) oltre alla psicologia animale, avente soggetto i comportamenti animali nel loro habitat naturale piuttosto che in laboratorio, studiati allo scopo di metterne in evidenza le cause generali e remote oltre che quelle immediate, in modo da stilare classificazioni di comportamenti tipici éi ogni specie, e non Quelli comuni, secondo la lesse di economia di Lloyd Morsan (L'intelligenza animale. 1894) che afferma che l'interpretazione di un'azione come derivante da un processo psichico superiore è possibile solo quando non si può interpretarla come derivante da un processo psichico inferiore, e secondo l'assunto che i comportamenti osservabili derivino più da variabili oggettive, sia interne (ormonali) sia esterne (ambientali) all'organismo, che da processi psichici. l'È, si rifa alla teoria dell'istinto di C Darwin fOrigine delle specie. 1859) fondata sulla tesi evoluzionistica della continuità psichica tra animale e uomo. T, C. Schneirla. ponendosi tra innatismo e ambientalismo e riconoscendo la complessità dei comportamento animale e l'interdipendenza di fattori innati e ambientali {Principi di psìcoìosta animate. 1935 i. apre la strada all'È, di Lorenz, che nello stesso '35 pubblica il manifesto della nuova E. (Il compagno nell'ambiente desìi ncveifi) e nei '38 ìa "teoria ossettivistica". che vede l'azione istintiva determinata da un fattore interno, l'energia specifica, e da uno ambientale, il segnale scatenante, dimodoché esistono schemi innati di messa in azione, trasmessi ereditariamente, come seouenze comportamentali specifiche invariabili da individuo a individuo, altrimenti non si spiegherebbero ad es. reazioni di paura e foga di animali in cattività di fronte a pericoli mai visti prima, e gutndì non potuti apprendere. Ma l'innatismo ha esposto l'È. a più di una critica, per la forte valenza ideologica delle sue teorie sull'aggressività, passibili di usi militaristici e bellici, e. anche in seguito alla scoperta dei condizionamenti prenatali, si è determinata dash" anni Sessanta, con sii stessi Lorenz e Tinbersen e \a scuola anglosassone di W. H. Thorpe e R. A. Hin.de. una nuova impostazione più attenta ai fattori ambientali e a determinanti storico-culturali non irreversibili, dal momento che Vasgressività umana, né necessaria né inevitabile, non trova riscontro Guanto a sraturtà e intensità in alcuna altra specie. L'È. ha «omunciue messo in luce le lèggi che regolano molte società animali, individuando comportamenti species-specifieì mirati afia sopravvivenza, distinguendo tra lotta intersoecie per fini di nutrizione e lotta intraspecie per la difesa del territorio e la competizione sessuale, ma soprattuttoindrvkteando il discasso fenomeno dtìifmprinlins, o impronta, o anche apprendimento precoce ir> iase sensibile, secóndo cai i nidiace!, ma anche alcuni mammiferi, seguirebbero come anda il primo oggetto animato o inanimato loro presentatosi entro le 11-18 ore dalla nascita. Ma è stato dimostrato che l'imprinting non è irreversibile, e H, Moltz lo considera solo una risposta per la riduzione dell'ansia (L'imprintifis: fondamenti empirici e sisnitìcdlfteorico, in "Psvchological Bulletin", 1960)

 

 

FACOLTÀ ter M"o:nìo sxScx? - o .uooxov -, lat facultas) { poteri o parti in cui si PUÒ classificare e dividere l'anima a partire dalle diverse operazioni che essa compie e che possono combinarsi o contrastarsi. Piatone distinse tre "specie"- iì «etere razionale, che domina gli impulsi, i bisogni, i desideri corporei, il potere concupiscibile o irrazionale, che presiede a quegli impulsi, e il potere irascibile, che, in aiuto di Quello razionale, lotta per il giusto (Rep ,, IV, 439-40) Aristotele, la cai partizioone rimase punto di riferimento fino alla Scolastica, distinse l'anima vegetativa, propria di tutti eli organismi, l'anima sensitiva, che con sensibilità e movimento è propria di tutti gli animali, e l'anima intellettiva (dianoetica), che può sostituire le altre due, è propria dell'uomo e a sua volta si divide in appetitiva o pratica (volontà) e intellettiva o contemplativa (intelletto) (De An.. II, 2, 413 a 30; IH, X, 433 a 14; Et. Nic. VI, 1, 1139 a; Poi, 1133 a). Nella Scolastica questa partizione s'intreccia con quella proposta da Agostino sul modello della Trinità: memoria (Essere), intelligenza (Verità) e volontà (Amore), Da Cartesio in poi si riprese la sola partizione aristotelica dell'anima intellettiva (dianoetica) tra intelletto e volontà (o appetizione o desiderio), che fondava l'uso teoretico e l'uso pratico della ragione, dal momento che funzione vegetativa e sensitiva non appartengono all'anima in quanto meccanismi corporei Per Cartesio l'intelletto concepisce le idee, che sta poi alla volontà, libera e dunque più estesa dell'intelletto, affermare o negare, dando origine all'errore (Méd., IV; Princ. Phiì., I, 34). Questa teoria rimase sino a Kant. tranne che per Spinoza, per il quale intelletto e volontà sono la medesima cosa e non esistono F, separate (Eth.f IL 48,49 corolL), e per Leibniz. che vede nella monade percezione e appetizione (Monad „ § 14-15), Kant, in un'innovazione che rimarrà classica, accoglie le analisi dell'empirismo inglese e interpone tra intelletto CF. di conoscere) e volontà CF. di desiderare) la F, del sentimento, o "sentimento di piacere e dispiacere" (Crii del Giud. Introd,, IX), Non si deve pensare che queste ripartizioni sottendessero una separazione ossettiva di F indipendenti, ma che siano solo un'astrazione a posteriori che sottintende l'unità dell'attività dell'anima, come sia sii antichi sia Cartesio e Leibniz riconoscevano, A partire da Queste ripartizioni dello spirito, il neocriticismo della Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp) individua tre sole scienze filosofiche; la logica, l'estetica, l'etica.

 

FALLIBILISMO Termine coniato da Peirce per indicare l’atteggiamento proprio dello scienziato e della scienza, in contrasto con altre forme di saoere. che in ogni punto della ricerca è attento a valutare la possibilità di errore e a mettere in atto tutti gli strumenti e i metodi di indagine e di controllo per evitarlo o per scoprirlo. K. R. Popper ha fatto del falsificazionismo, in contrasto con il verificazionismo proprio del circolo di Vienna, il nodo centrale della propria lunga attività di riflessione, considerando genuinamente scientifiche solo quelle teorie o ipotesi che sono suscettibili di essere sottoposte al vaglio dell'esperienza, e dunque, in quanto passibili di essere smentite, falsificabili. Infatti la verificazione che è presupposta dalle leggi universali non può mai aver luogo, poiché si basa sempre su un numero finito e limitato di casi, che lascia aperto il campo alla possibilità éella smentita. Perciò, dal momento che un sistema empìrico deve poter essere sempre confutato dall'esperienza, Popper, che è il maggior esponente del F. o falsificazionismo, ha una concezione puramente deduttivistica del metodo e della razionalità scientifica, che sì rifa alla critica di Hume all'inferenza induttiva e al principio di causalità. (Conjectures, 1965; Obieciive Knowledge, 1972).

  

FATALISMO (ciò che è stato detto, o predetto, da un dio) Oltre che una dottrina filosofìca. l'atteggiamento di chi si abbandona agli eventi senza cercare di modificarli o reagire. Il Fato indica la necessità imperscrutabile e inalterabile degli eventi, solo apparentemente casuali e senza ordine. Ed è diverso sia dal destino, che si riferisce essenzialmente all'uomo ed è modificabile, sìa dal determinismo, in cui la connessione necessaria delle cause è immanente e passibile di venire decifrata, oltre che materiale. Il F. di origine religiosa è assunto come dottrina dagli stoici, che escludono la libertà umana come assoluta autodeterminazione e affermano che il fato governa sia la natura che l'uomo, la cui unica libertà è la conoscenza razionale del destino e il conformarsi ad esso (Cicerone, De fato. 17). Avversato dal cristianesimo - che gli oppose la Provvidenza come concetto che implicava anche l'intervento umano per la propria individuale salvezza accanto alla necessità del piano divino - per la sua negazione dell'agire morale e responsabile dell'uomo, il F. fu distinto da Leibniz in: stoico, cristiano (che implica la doppia causalità divina e umana, che parzialmente modifica gli eventi con la volontà morale) (Teodicea, I. § 55) e maomettano, o "destino alla turca", secondo cui "gli effetti accadrebbero anche se se ne evitasse la causa, essendo dotati di necessità assoluta" (Op. ed. Erdmann, p. 660, 764). Quest'ultima dottrina fu attribuita da Wolff a Spinoza. contro cui scrisse De differentia nexus rerum sapientis et fatalis necessitati (1723). Kant, animato dalla fede in un regno sovrasensibile non sottoposto alla necessità, formalizzò definitivamente l'alternativa tra determinismo e libertà, tra la natura, regno della necessità e del determinismo, e l'agire morale dell'uomo, posto su di un piano più elevato, come volontà libera e responsabile. Questa dottrina sarà negata da quella nietzscheiana del fato, che non solo esclude l'esistenza dell’ultramondano, ma invita a "Non voler nulla di diverso da quello che è. Non solo sopportare ciò che è necessario, ma amarlo".

 

FEDE (gr. pistis. lat. fides) Credo religioso in una divinità rivelatasi o meno nelia storia (e nelle sue leggi), e/o fiducia in una realtà soprannaturale divina che si rivela, come forma di conoscenza condivisibile e comunicabile ma non riproducibile né controllabile, basata su un particolare tipo di ragione con cui la F. non è in contrasto ma elemento essenziale, quella ragione teologica che fonda la possibilità di una teologia come ricerca e non solo come glossa. Nel I senso, la F. appartiene anche al politeismo (ne parla già Sesto Empirico), mentre nella Bibbia è accoglimento della rivelazione di Dio come evento che si iscrive nella storia, sia nell'A. T. attraverso la rivelazione di Dio stesso e il dono delle sue leggi, sia nel N. T. attraverso la venuta di Cristo, per la cui F. il cristiano è chiamato a un impegno totale in tutti i momenti della vita, visibile nella sua partecipazione alla Chiesa come forma comunitaria fondata sulla F., sua norma e valore. Per ebraismo e cristianesimo F. è accettazione di Dio quale assoluta grazia, dono di Dio ma anche decisione costante dell'uomo che informa tutta l'esistenza come progetto dotato di senso, e in quanto decisione è atto libero la cui autenticità comporta razionalità coerente con la spiritualità, come sottolinea tutto il pensiero cristiano. Di qui la possibilità di una riflessione sulla F.,  e quindi di una teologia. Paolo dice: "F. è sostanza delle cose sperate e argomento delle non parventi" (Hebr., 11,1). laddove Tommaso, cui si attenne tutta la Scolastica, chiarisce: "In quanto si parla di argomento, si distingue la F. dall'opinione, dal sospetto e dal dubbio […]. In quanto si parla di cose non parventi, si distingue la F. dalla scienza e dall'intelletto, nei quali qualcosa diventa apparente. E in quanto si dice sostanza delle cose sperate si distingue la virtù dalla F. nel comune significato (=dalla credenza) la quale non è diretta alla beatitudine sperata". Nel XIV sec. il misticismo tedesco vide la F. come via di accesso originale, diretta e immediata alle realtà supreme e a Dio: in Meister Eckhart la F. è la nascita di Dio nell'uomo. Nel medesimo senso di mezzo privilegiato che scavalca i limiti dell'intelletto la vide la "filosofia della F.," nel XVII sec. e nel Romanticismo: in Fichte "la F.. dando realtà alle cose, impedisce ad esse di essere vane illusioni: è la sanzione della scienza". A fine Scolastica, Duns Scoto per I parlò del carattere pratico della F., e della teologia, come direzione della condotta; nell'età moderna fu Spinoza. poi Kant. che distinsero tra F. prammatica, che dirige l'abilità verso fini arbitrari e accidentali. F dottrinale, più impegnativa ma senza certezza, F. storica, nelle leggi statutarie sull'onorare e obbedire a Dio. e F. morale o "F. religiosa pura", dalla certezza incomunicabile perché soggettiva, legata al sentimento morale e a fini assolutamente necessari: la F. diviene ìmpegno, condotta di vita capace di trasformarla e non priva di rischi. Per Kierkegaard col cristianesimo la F. diviene superiore alla scienza poiché si rapporta al paradosso e all'inverosimile, è "la coscienza dell'eternità, la certezza più appassionata che spinge l'uomo a sacrificare tutto, anche la vita" (Diario, X, A 635): F. è passo esistenziale, decisione, rischio, angoscia che si rende certa di sé e di un nascosto rapporto con Dio, contraddizione paradossale tra atto e dono di ., K. Barth riprende questo concetto, F. è inserzione dell'Eternità nel tempo, della Trascendenza nell'esistenza (Comm, Epist. Rom.) R. Bultmann parla di demitizzazione.

 

FELICITA', termine che nella sua accezione filosofica classica traduce il gr. cudaimonfa. Concetto centrale nell'etica antica la quale, nelle diverse versioni, è comunque concepita come una realizzazione per gli individui della 'l'elicila, laddove una parte rilevante dell'etica moderna, invece, soprattutto in seguito alla teoria/azione di I. Kanl, sottovaluta la felicità, a cui attribuisce un aspetto peculiarmente egoistico, e celebra al contrario il dovere come no/ione centrale della vita morale. La felicità è invece ripresa nell'etica moderna soprattutto a opera dell'utilitarismo che la pone a fondamento della sua teoria normativa della giusta condotta. Diversamente dall'utilitarismo (e in questo senso dall'intera etica moderna), l'elica classica considera la felicità non come la condizione altrui di cui si deve tenere conto per agire moralmente, bensì come lo stato del carattere che si deve raggiungere personaIrnenle e che è proprio delle persone viiluo.se. Aiìslotcle la concepisce come1 l'attività della parte razionate-dell'anima secondo "virtù, vale a dire secondo il suo funzionamento proprio (eccellente). Essa si dispiega nella capacità di scegliere il giusto mezzo* per ottenere lo scopo, ed e accompagnata dal piacere poiché è essa stessa piacevole. La nozione aristotelica ammette un'ambivalenza di interprelazione sia in senso intellettualistico sia in senso passionale, che viene risolta più univocamente dalle due importanti scuole ci lenisti che. C ìli epicurei identificano la felicità con il piacere Concepito come la soppressione della sofferenza, e quindi come uno stato permanente che rivela il particolare piacere della vita stessa; mentre gli stoici sviluppano una concezione della felicità come capacità di rendere se stessi invulnerabili al male che il mondo riesce a recare agli esseri umani, che si ottiene seguendo i comandi della ragione che richiedono di volere egualmente tutto ciò che il destino vuole.

 

 

GENIO TUTELARE: Secondo Vairone "!a divinità che è preposta a ognuna deìie cose generate e che ha la capacita di generarle"; in Agostino (De O. Dei, VII, 13) forza d'ingegno, talento, contrapposto retoricamente a studium). 1) talento originale e innato, soprattutto artistico, che può esser educato ma non insegnato o trasmesso e che produce esemplari degni d'essere imitati. 2) Persona portatrice di tale capacità. Nel Rinascimento si riprende iì platonico "furore" poetico e nel '600 le scoperte scientifiche videro da allora un proliferare di teorie e discussioni. Pascal afferma che i grandi G. non hanno bisogno deìie grandezze carnali ma cercano altrove le loro vittorie. Dal ‘700, a partire dall'Inghilterra (Congetture sulla composizione origìnale, 1759; Saggio sui genio di A. Gerard, 1758; saggio sui genio originale di W. Duff, 1767. tutti basati sui contrasto originaìità/imitazione). il concetto di G.. passando nella Germania filosofica e letteraria di G. Marnanti. F. Schilìer. F. von Schiegel. che parìa di imperativo categorico della genialità, Berne), si restringe aìì'arte; Kant, Schelling e Hegel elaborano dottrine estetiche dei G. che. riprendendo la tradizione, la innovano. Per Kant esso, che non contempla le scoperte scientifiche iì cui metodo può essere esplicitato e riprodotto, e che da vita ali’”arte bella” come prodotto in apparenza spontaneo e naturale del soggetto e non sottoposto a regole intenzionali (diverso dall’”arte meccanica”, appresa e codificata), è il talento magistrale dì scoprire, che dà la regola affine ma sfugge a ogni regola codificata, diviene criterio di giudizio, origine di una scuola ed esempio per il G. latente, e trova la sua radice nei ìat. genius come spìrito dell'uomo che dalla nascita lo dirige e protegge dandogli le idee originali. La facoltà del G., che libera l’intelletto dei suoi lacci meramente conoscitivi liberando lo spirito (Geìst), di cui è sinonimo, è l'immaginazione produttiva, o creatrice, perché crea connessioni inedite, una nuova natura, a partire dai gusto, la capacità di giudizio estetico responsabile delia forma artistica (Cr. del Giud., 3 46). Per Hegel invece il G.. come capacità e energia di produrre autentiche opere d'arte che fanno del G. un "individuo della storia cosmica*, è insieme conquista faticosa delia tecnica e ricchezza dì esperienze intellettuali dominate emotivamente, come nel Goethe maturo (ma il Goethe giovane fu detto geniale), che è diverso dal talento come naturale abilità tecnica in uno specifico settore. Nell’800 la discussione prosegue, alimentando il culto romantico dei G.; per Schopenhauer il G., come l’arte, è contemplazione delie idee platoniche come prima oggettivazione della volontà di vivere, libera dalla razionalità e vicina alia follìa, poiché richiede una totale abnegazione dell’individualità verso l’oggettività dello spirito, contro cui la soggettiva volontà sì oppone. Infine, si ha un rapporto tra G. e filosofia, per cui è filosofo chi ha *un oscuro sentimento del vero*, iì G., che F. Schlegel chiama *il mediatore tra l'infinito e il finito" come "colui che percepisce in sé il divino e annullandosi si dedica ad annunciare a tutti gli uomini questo divino, a parteciparlo e a rappresentarlo nei costumi e nelle azioni, nelle parole e nelle opere (Ideen, § 44). In Schelling l'intuizione estetica è unione dì filosofia e scienza, per cui il G. è l’Assoluto che si rivela nell’uomo come suo strumento. In Kierkegaard il G. scuote l’ordine e scopre il destino come anticipazione della provvidenza.

 

GIANSENISMO (dal nome del vescovo olandese Cornelio Giansenio, 1585-1638, che espose questa dottrina nell'opera Augustinus, 1640) Questa teologia ascetica e rigorista, diffusa nei Paesi Bassi, in Francia e in Italia sino alla fine del 700, si originò come tentativo di riforma della Chiesa cattolica che, volta al proselitismo, aveva fatto sua in campo morale, contribuendo alla generale rilassatezza dei costumi, la tesi molinista (dal gesuita spagnolo Molina, 1535-1600) secondo cui alla salvezza, possibile per tutti, conducono anche solo la conversione e la buona volontà. A questa morale accomodante dei Gesuiti, che fondevano teologia scolastica e umanesimo moderno, il G. - il cui sostrato teorico è dovuto al baianismo (da Michele Baio, 1513-1589, operante negli ambienti universitari di Lovanio) - opponeva un ritorno alla lettera del Vangelo e al pensiero di Agostino sui temi della predestinazione, della salvezza e della grazia in rapporto al libero arbitrio, in una rigida interpretazione che ne portasse in luce l'autenticità. Dopo il peccato originale, col quale Adamo ha liberamente rivolto verso le creature quell'amore da riservare solo al creatore, che lo assisteva con una grazia "sufficiente", tutti gli uomini, privati di tale grazia, nascono con la stessa incapacità al bene e tendenza necessaria al peccato, e solo gli eletti, destinati da Dio alla vita eterna non per meriti ma per grazia "efficace", e da lui illuminati infallibilmente, possono volgersi al bene come amore di Dio stesso. Ma non è solo lo scontro coi Gesuiti, che portò alla condanna per eresia da parte di Innocenzo X (bolla del 31 maggio 1653) delle 5 proposizioni in cui la Facoltà di Teologia di Parigi aveva condensato il pensiero di Giansenio, a caratterizzare il G.: l'altra sua preoccupazione era la distinzione dal protestantesimo, incentrata sul problema della giustificazione per fede e per opere, possibili per il G. solo in virtù della fede stessa; su quello della dannazione, per i protestanti atto volontario di Dio, per il G. dovuta alla mancanza della grazia, la cui causa resta per la ragione umana un mistero che mostra tutta la sua limitatezza, come afferma Cartesio nella tesi dell'inaccessibilità di Dio da parte di un intelletto finito; e su quello del rapporto tra volontà e grazia, che per il G. si fondono nella scelta del bene rendendo la volontà partecipe del divino, mentre per i protestanti, che videro in ciò la negazione del libero arbitrio, essa è strumento passivo. Il maggior teologo del G. fu Antonio Arnauld, che difese con i ed. solitari di Port-Royal, sede dell'abbazia che l'abate di Saint-Cyran rese centro del G., le tesi del G. all'epoca del processo per eresia. Il suo più celebre difensore fu Blaise Pascal nelle Lettere provinciali (1656).

 

 

IDEALE  Per I. si intende la perfezione compiuta ma non reale di qualcuno o di qualcosa. Il concetto fu ripreso da Kant (Cr. R. Pura, Dialettica), che, a partire dalia sua distinzione tra essere e dover essere, distinse l'idea in tutta la sua purezza, come ad es. la sapienza, dall'i., che la incarna e che pienamente corrisponde solo nel pensiero a quell'idea, come ad es. per lo stoico il sapiente. In questa prospettiva, la funzione dell'I, è quella di fornire alla ragione il modello perfetto, di cui l'idea è la regola, per valutare e misurare per mezzo dì esso la realtà, e per cercare di migliorarla adeguandosi sempre più ad essa. Hegel, che negò la separazione tra essere e dover essere, restrinse il concetto di I. all'estetica: l'arte è "l'intuizione concreta e la rappresentazione dello Spirito assoluto in sé come dell’I“ (Enc.), per cui nel mondo estetico l’idea o Ragione autocosciente non si realizza nella sua forma propria, ma, nella forma sensibile, traspare come I. che è al di là di questa forma. Invece nella religione e nella filosofia, forme spirituali in cui l’idea sì realizza, l’I. non ha più ragion d'essere, perché si ha la compiuta coincidenza di reale e I., di essere e dover essere nella realtà, e non vi è una forma al di là della sostanza. La contemporanea filosofia dei valori di Wìndelband e Rickert. cui può ricollegarsi l’etica di Troeltsch, pur riprendendo la distinzione kantiana tra piano dell'essere e piano del dovere, rifiuta l'inattingibilità all'infinito del dover essere, e considera il valore come dover essere sempre presente, seppur realizzato in forma imperfetta e seppur distìnto in sé come idea, nella realtà.

  

ILLUMINISMO In senso stretto, l’I. è la Philosophie des lumiéres: nasce in Inghilterra nel XVII sec., estendendosi nel XVII sec. in Francia, sua patria d'elezione, quindi in Germania (Aufklarung) e in Italia. L'I. è critica e guida della ragione in tutti i campi attraverso conoscenza e scienza per liberare da ignoranza superstizione e oscurantismo che dominano le coscienze e che sono voluti da chi detiene il potere. Ma vi è un I. del mondo greco e romano: i sofisti, antitradizionalisti, negano valori e leggi assoluti, criticando come Senofane l'antropomorfismo religioso; scettici, stoici e soprattutto Epicuro vogliono liberare dalla paura degli dèi e della morte. In Inghilterra Locke e Newton basano la ragione sull'esperienza, mentre in Francia è il razionalismo metafisico di Cartesio, e poi di Spinoza e Leibniz, ad affermarsi, dopo una vera e propria guerra per la diffusione della cultura a tutti i livelli sociali (di cui è modello l’Encyclopédie, diretta da d'Alembert e Diderot) contro il dogmatismo conservatore europeo (di marca feudale nei costumi e nelle istituzioni), in favore della libertà di pensiero e del diritto-dovere di ogni uomo di usare la propria intelligenza indipendentemente da qualsivoglia autorità, soprattutto riguardo all’ipse dixit. Questo aveva dominato sia la filosofia scolastica medievale (che procedeva con i Commentari, ossia con il commento puntiglioso dei testi della tradizione) sia la politica culturale della Chiesa cattolica: Voltaire, deista, fece una critica delle confessioni religiose, in particolare ebraica e cristiana, evidenziando l'inattendibilità filologica e storica delle interpretazioni canoniche dei testi sacri e l'immoralità del ricatto dell'inferno per costringere a un'obbedienza avvilente, mentre in Rousseau i princìpi democratici e pedagogici dell'I. trovano la più limpida espressione. In Germania si ha l'interrelazione tra illuministi (Aufklarer), difensori della luce della ragione umana, e illuminati, privilegiati depositari della luce della ragione divina, ambedue uniti nel concetto di Bildung (formazione) di cui parlano Lessing e Herder, e che viene applicato all'ermeneutica biblica e alla storia universale. L’I. tedesco è a forte vocazione metafisico-speculativa: Ch. Wolff ne è il caposcuola. Tra il 1780 e il 1790 si svolge un ampio dibattito di cui è risultato ciò che dice Kant in risposta al quesito del 1784 della "Berlinische Monatsschrift": "L’I. è l'uscita degli uomini dallo stato di minorità a loro stessi dovuto. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. A loro stessi è dovuta questa minorità, se la causa di essa non è un difetto dell'intelletto ma la mancanza della decisione e del coraggio di servirsene come guida. 'Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo intelletto!' è il motto dell’"Was ist Aufklarung?”, in Op., ed. Cassirer).

 

IMMAGINE (lat. imago) Per Aristotele le I. sono come le cose sensìbili, ma non hanno materia (De an.), per cui l'I. è da un lato prodotto dell'immaginazione, dall'altro la sensazione o percezione stessa di chi la riceve. Gli Stoici distinguevano tra prodotto e sensazione, chiamando fantasma, o immaginazione, l’I. che il pensiero si forma, e fantasìa, o I., l'impronta della cosa sull'anima, che vi produce un mutamento, per cui l'I. in senso proprio è "ciò che viene impresso, formato e contraddistinto dall'oggetto esistente in conformità della sua esistenza e che perciò è tale che non sarebbe se l'oggetto stesso non esistesse" (Diog. L., VII, 50). Per gli Epicurei le I. sono tutte vere in quanto prodotte dalle cose, dal momento che ciò che non c'è non può produrre nulla (Diog. L.. X 32). Queste teorie furono riprese nel Medioevo in direzione teologica a proposito del rapporto tra la natura divina e la natura umana: Tommaso (S. Th.. I. o. 95), e anche riprese nella filosofia moderna da Bacone e da Hobbes. che afferma che l'I. "è l'atto di sentire e non differisce dalla sensazione se non come il farsi differisce dal fatto" (De con.. 25. § 3). Cartesio e Wolff sostituirono il termine rispettivamente con idea e rappresentazione, influenzando in parte la filosofia contemporanea, dove però si assiste a una ripresa di interesse verso il tema. Bergson afferma: "Fingiamo per un istante di non saper niente delle teorie della materia e delle teorie dello spirito e niente sulle discussioni intorno alla realtà o alla idealità del mondo esterno. Eccomi dunque in presenza di I. nel senso più vago in cui si possa prendere questa parola, I. percepite quando io apro i miei sensi, non percepite quando li chiudo" (Matiére et mémoire. cap. I).

 

INDIVIDUAZIONE (lat. Individuatio, onis) Il problema dell'i,, molto dibattuto nella storia della filosofia, nasce dal presupposto della priorità ontologica della sostanza comune come problema della costituzione dell'individualità a partire da essa. Avicenna, ritrovandolo in Aristotele, lo formulò per primo, trasmettendolo alla Scolastica cristiana. Il principio è la necessità della sostanza; "Tutto ciò che è, ha una sostanza per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità e l'essere di ciò che è" (Logica. I ed. Venezia, 1508), per cui ogni ente non è in sé né universale né singolare, ma individuale, il questo, che Aristotele fa dipendere dalla materia; "Tutte le cose che sono numericamente molte hanno materia: il concetto di tali cose, per es. dell'uomo, è uno e identico per tutte, mentre Socrate (che ha materia) è unico" (Met. XII, 8, 1074 a 33). Tommaso individuò l'I. non nella materia comune, giacché tutti gli uomini sono incarnati e per questo non si diversificano, ma nella materia segnata, che fa sì che un uomo sia diverso dall'altro perché situato in un determinato punto dello spazio e del tempo, soluzione che fu ripresa in età moderna da Schopenhauer, che vide la sostanza unica nella volontà, ma l'I. nello spazio e nel tempo, per cui "ciò che è tutt’uno nell'essenza e nel concetto apparisce invece diverso, come pluralità giustapposta e succedentesi" (Die Web. 1. § 23). Al tomismo si oppose nella Scolastica l'agostinismo. che individuò il principio d'I. non nella materia ma nella forma, per cui per Bonaventura è la forma che come essenza, restringendo la materia, definisce il questo come hoc aliquid in cui l’hoc è la materia, l'aliquid la forma. Duns Scoto, che vede l'individualità nell'hecceitas. rifiuta sia materia che forma come principio d'I., la prima perché, indistinta, non può essere principio di distinzione, la seconda perchéi, come sostanza o natura comune, è antecedente e indifferente sia all'universalità che all'individualità, per cui l'individualità è plurima realtà dell'ente", che contrae la natura comune, determinandola; essa è l'esse bone rem. o "entità positiva", determinazione ultima e compiuta della materia, della forma, e detta loro composizione, per cui l'individuo non è semplice ma complesso nella ricchezza delle sue determinazioni. Il nominalismo empiristico dell'ultima Scolastica nega la priorità della sostanza comune, realtà universale: Ockam afferma che niente è universale, se non per convenzione arbitraria (come la voce "uomo", che è singolare, diviene universale), per cui "E’ da ritenersi indubitabilmente che qualsiasi cosa esistente di per sé è una cosa singolare ed una di numero (...) la singolarità è una proprietà che appartiene immediatamente a ogni cosa, perché ogni cosa è di per sé o identica o diversa dall’altra" . Leibniz si rifa a Ockham e a Duns Scoto quando afferma che "ogni individuo è individuato dalla sua totale entità", e Wolff che "ll principio d'I. è la determinazione completa di tutte le cose che sono inerenti a un ente in atto" (Ontol., § 229). La contemporanea filosofia dei valori fa dell'irripetibilità dell'individuo come Individuum metafìsico una principio inalienabile.

 

INERZIA (lat. Inertia, come stato di Quiete) Concetto fondamentale della meccanica moderna nato con la filosofia. Ma dal momento che per Aristotele "tutto ciò che si muove è mosso necessariamente da qualche cosa", ogni ente in movimento è mosso necessariamente da altro anche per persistere nei suo movimento (Fis., VII. 1.241b 24). E’ così con la Scolastica del XIV secolo che si ha la nascita del concetto di I. con la critica alla teoria aristotelica cui si oppone la teoria della freccia di Ockham: secondo Ockham, che si attiene alla fisica, la freccia o qualunque altro proiettile conserva il suo moto nella traiettoria anche dopo che questo è stato trasmesso dall'arco, mentre secondo il suo discepolo Bendano, che applica questa teoria al movimento dei cicli, scostandosi nella metafisica, questi hanno un impeto, loro trasmesso dalla potenza divina, che non viene né diminuito né annullato da forze opposte. All'Università di Parigi, sempre nel XIV secolo Alberto di Sassonia, insieme a tutta la corrente ockhamista lì fiorita, difende questa tesi. Leonardo e Galilei, e da allora tutta la scienza moderna, riprendono la tradizione scolastica, il secondo invitando a un esperimento mentale consistente nell'immaginare il movimento di una palla perfetta su di un piano perfettamente liscio né acclive né declive come movimento perpetuo, ma in realtà non formulando in termini razionali ed espliciti il principio: il primo a farlo fu Cartesio, che disse "prima legge della natura" il principio secondo cui "Ciascuna cosa particolare continua a essere nel medesimo stato fintanto che può e non lo cambia se non per il suo incontro con altre cose".  Newton, qualche decennio dopo, trasferì questa legge nella dinamica come suo primo principio nei “Principi matematici della filosofia naturale”, rendendolo definitivamente un'acquisizione della scienza moderna, ove è ancor oggi presente, e utile per il calcolo della forza o dell'energia.

  

IPERURANIO (comp. gr. i)7isp-oupavoa=al di là, al di sopra, oltre il cielo) Nel mito di Piatone esposto nel Fedro (247 e sgg.), la regione non spaziale (per gli antichi greci il cielo racchiude tutto lo spazio, per cui oltre il cielo non vi è spazio) e perciò, seppure dotata di realtà ontologica, espressa in termini puramente metaforici, in cui sono situate le idee come modelli di tutte le cose, invisibili all'uomo perché non sensibili ma intellegibili. Nella Repubblica Piatone ironizza su coloro che stanno col naso in su cercando di scorgere tali enti intellegibili: «Per mio conto, non posso riconoscere ad altra scienza il potere di far sì che l'anima guardi in su se non a quella che si occupa dell'essere e dell'invisibile; ma se qualcuno cerca di apprendere qualcosa di sensibile, guardando in su a bocca aperta o a bocca chiusa, io dico che costui non apprenderà niente perché non c'è scienza delle cose sensibili e che la sua anima non guarda in alto ma in basso, anche se egli studi restando sul dorso a terra o in mare» (Rep. VII, 529 b-c).

  

IPOSTASI (lat. substantia) Per Plotino le tre sostanze principali del mondo intellegibile: l'Uno, l'Intelletto che procede dall'Uno, e l'Anima, che procede dall'Intelletto, da lui paragonate rispettivamente alla luce, al sole e alla luna. Il concetto di I. svolse un ruolo determinante nelle discussioni trinitarie dei primi secoli dell'era cristiana, per la formulazione della dottrina, stabilita dai padri cappadoci nel IV sec.: 1'ousia, o sostanza, venne a designare l'essenza divina comune alle tre Persone, mentre Padre, Figlio e Spirito Santo furono definiti nella loro individualità I., più che Persone, poiché quest'ultimo termine significa propriamente maschera. Nella filosofia scolastica, Tommaso indicò con I. ogni sostanza individuale, in contrapposizione alla sostanza in generale: "Secondo alcuni la sostanza, nella definizione della persona, sta per la sostanza prima, che è l'I.; tuttavia non è superfluo aggiungere individuale, giacché con il nome di I. o di sostanza prima si esclude il rapporto tra l'universale e la parte. Non diciamo infatti che sia I. il concetto di uomo o la mano" (S. Th.). Nella filosofia moderna e contemporanea, i derivati del termine I. (ipostatizzare, ipostatizzazione) stanno a significare, in senso negativo, ogni concetto astratto cui si dà indebitamente portata ontologica di ente o sostanza, trasformando un principio relativo in assoluto.

  

IRONIA (lat. ironìa) L'atteggiamento che da un'importanza assai minore del giusto a sé e alla propria situazione o a cose o persone che hanno stretta relazione con essi. Due sono le forme fondamentali di I: 1) socratica; 2) romantica. 1) Socrate si atteggiava di fronte alla verità a diminuire se stesso nei confronti degli avversari con cui discutere dichiarando: "Io ritengo che l'indagine è al di là delle nostre possibilità e che voi che siete bravi dovete aver pietà di noi piuttosto che arrabbiarvi con noi" (Rep.), per cui la verità è nel giusto mezzo: chi esagera la verità è il millantatore e chi invece la diminuisce è l'ironico. Per Aristotele l’I. è simulazione (Et. Nic.), per S. Tommaso una forma (lecita) di menzogna (S. Th.). 2) L’I. romantica poggia sul presupposto dell'attività creatrice dell'Io assoluto. Il filosofo e il poeta (che spesso per i Romantici coincidono), identificandosi con l'Io assoluto, considerano ogni realtà come un'ombra o un gioco dell'Io, sottovalutando così l'importanza della realtà. Per Schlegel l’I. è la libertà assoluta di fronte a qualsiasi realtà: "Trasferirsi arbitrariamente ora in questa ora in quella sfera come in un altro mondo, non solo con l'intelletto e con l'immaginazione ma con tutta l'anima; rinunciare liberamente ora a questa ora a quella parte del proprio essere, e limitarsi completamente a un'altra; cercare e trovare il proprio uno e tutto ora in questo ora in quell'individuo e dimenticare venatamente tutti gli altri: questo può solo uno spirito che contiene in sé come una pluralità di spiriti e tutto quanto un sistema di persone, e nel cui intimo l'universo che, come si dice, è in germe in ogni mondo, s'è dispiegato ed è pervenuto alla sua maturità" (Frag., 1798, § 121). Solger, che sistematizza questi concetti, considera ironica la soggettività che comprende se stessa come cosa suprema che quindi abbassa a puro nulla tutte le altre, anche ciò che c'è di più alto. Hegel, pur definendo platonico, e quindi per lui negativo, qualche particolare della dottrina di Solger, la faceva sua: "Non la cosa è superiore, ma sono io superiore e sono il padrone, che al di sopra della legge e della cosa, scherza con esse come con il suo piacere e in questa coscienza ironica, nella quale lascio perire il Sommo, godo soltanto di me" (Fil. del dir., § 140). L'I. così intesa, come coscienza della Soggettività assoluta e dell'assoluto arbitrio di tale soggettività, è per Hegel un risultato della filosofia di Fichte interpretata da Schlegel: "Qui il soggetto (...) sa distruggere sempre di nuovo tutte le determinazioni che esso stesso si dà del giusto e del bene. Esso può dare a intendere a sé ogni cosa ma non mostra altro che vanità, ipocrisia, sfrenatezza." (Geschichte der Phil.). Per Kierkegaard l’I. è l’infinitizzazione dell'interiorità dell'io" (Diario), coscienza esaltata.

 

 

LOGOS (gr. Logos, lat. Verbum) La ragione intesa come: 1) sostanza o causa del mondo. 2) ipostasi o persona divina. E' Eraclito che per la prima volta parla del L. come sostanza o causa del mondo: "Gli uomini sono ottusi nei confronti dell'essere del L.. sia prima che dopo averne sentito parlare; e sembrano inesperti, sebbene tutto avvenga secondo il L.", che è la legge del mondo, dal momento che "Tutte le leggi umane si alimentano di una sola legge divina: perché questa domina tutto ciò che vuole e basta a tutto e prevale su tutto". Gli Stoici considerano la ragione come Dio, il principio attivo del mondo, che anima, ordina e guida la materia, principio passivo, in eterno, come artefice di ogni cosa: essa è il destino. Per Plotino, la cui concezione fa da modello a tutte le forme di panteismo, "il L. che agisce nella materia è un principio attivo naturale; non è pensiero né visione ma potenza capace di modificare la materia, potenza che non conosce ma agisce come il sigillo che imprime la sua forma o come l'oggetto che riproduce il suo riflesso nell'acqua, come il cerchio viene dal centro, così la potenza vegetativa o generatrice riceve d'altronde la sua potenza produttiva cioè dalla parte principale dell'anima, la quale gliela comunica modificando l'anima generatrice che risiede nel tutto", per cui "Dall'intelligenza emana il L. e ne emana sempre, fin tanto che l'Intelletto è presente in tutti gli esseri". Il primo a formulare la dottrina del L. come ipostasi o persona divina è Filone di Alessandria, che considera il L. un ente intermedio tra Dio e il mondo che. come ombra o immagine derivata e modello delle cose, fa da tramite alla creazione divina, cosi come Dio è il modello del L.. che è sua immagine e ombra. A queste determinazioni il cristianesimo aggiunge che il L. è il Cristo, che si è fatto carne per noi. come afferma Giovanni nei prologo del suo Vangelo. I Padri della Chiesa affermano sia la perfetta parità del Logos-Figlio col Dio-Padre, sia la partecipazione dell'umanità al L. come ragione, come Giustino o come Ireneo, che considera uguali in essenza e dignità Dio, il L. e lo Spirito Santo. Essi danno la base ai dogmi fondamentali della Trinità e dell'Incarnazione, affermati dal Concilio di Nicea (325) nonostante le oscillazioni tra l'interpretazione che considera Dio e il L. perfettamente dati e quella, propria da ora in poi delle eresie, che vi pone una differenza gerarchica. E' Origene, col suo primo grande sistema di filosofia cristiana, a dare la seconda interpretazione, bocciata dalla Chiesa: egli pone una differenza tra Iddio, il Padre, e Dio, il Figlio, a lui coeterno ma non nello stesso senso, dal momento che Dio da la vita ed è la vita e Dio la riceve, per cui Il L. è l’essere degli esseri, la sostanza delle sostanze, l'idea delle idee, mentre Iddio è superiore a tutte queste cose, ne è al di là. La dottrina del L. è una dottrina teologica. Il secondo Fichte, ricorrendo al ricordato prologo di Giovanni per mostrare l'accordo del suo idealismo col cristianesimo, vede nel L. l'Esistenza o la Rivelazione di Dio, al di là della quale è l'essere di Dio stesso, suo fondamento: il Sapere, l’Immagine (Introduzione alla vita beata, in Werte, V, p 4751

 

 

MAIEUTICA  Socrate, nel Teeteto di Platone, paragona la sua dialettica all'arte maieutica, che avrebbe ereditato dalla madre e che, come quella della levatrice, sterile ma capace di portare alla luce i neonati,   sarebbe sterile di sapienza, ma capace di portare alla luce le conoscenze che si formano nella mente di ognuno, se interrogato bene nel dialogo (come nel caso dello schiavo del Menone che mostra di sapere il cosiddetto teorema di Pitagora): "Io ho questo in comune con le levatrici: sono sterile di sapienza; e ciò che molti da anni mi rimproverano, che interrogo gli altri ma non rispondo mai da me perché non ho alcun pensiero saggio da esporre, è rimprovero giusto"

 

MALE: lat. Malum. Due le interpretazioni fondamentali del M. nella storia della filosofia: 1  metafisica: il M. è: a) non-essere o nulla, e il Bene l'unico essere, la realtà: vi è dualità nell'essere e lotta tra Bene e M. Tesi soggettivistica: il M. è oggetto di una appetizione negativa o di un giudizio negativo.  Per gli Stoici l’unico essere è il Bene, il M. è necessario all'ordine dell'universo, condiziona il bene, ogni cosa esistente è buona, e il M non esiste. Plotino formula per tutti i neoplatonici la tesi che il M. è la materia, non essere: "Il M. non consiste in una deficienza parziale ma in una deficienza totale, come nella materia, allora c'è il vero M., che non ha alcuna parte di bene" (Teoria tradizionale della filosofia cristiana, è diffusa in Occidente da Agostino: "Nessuna natura è M e questo nome non indica altro che la privazione del bene" (De Civ. Dei) Per Boezio: "II M. è niente, perché non lo può fare Colui che può ogni cosa". Tutta la Scolastica, cristiana e giudaica, vi si attiene. Nel '600 lo scetticismo attaccò i! cristianesimo col concetto manicheo che il M. è compatibile con l'onnipotenza divina e la perfezione dell'universo, suscitando polemiche cui Leibniz rispose: "I Platonici. S. Agostino e gli Scolastici hanno avuto ragione di dire che Dio è !a causa materiale del M., che consiste nella sua parte positiva, e non nella forma di esso, che consiste nella privazione". La tesi della nullità del M. è costante in coloro che identificano l'essere col bene, la ragione e il dover essere: il M., come volontà cattiva, è "la nullità assoluta" di questa volontà. Per Gentile: "Non errore e verità, ma errore nella verità, come suo contenuto che si risolve nella forma: né M. e bene: ma M. onde il bene si nutre nel suo assoluto formalismo". «La tesi della lotta tra due princìpi (divinità e antidivinità che la limita, ma non elimina i! monoteismo) risale alla religione persiana di Zarathustra. agli Gnostici e ai manichei, per cui il M. è reale, ma la filosofia ha modificato la separazione dei due princìpi includendoli entrambi in Dio: per la teosofia, è lotta amorosa. Schelling afferma che in Dio c'è l'essere e un substrato o natura come desiderio di uscire dall'ombra e raggiungere la luce divina, per cui è nell'uomo che nasce !a separazione e la lotta tra bene e M. 2) Alla tesi soggettivistica che il M. è l'oggetto negativo del desiderio o del giudizio di valutazione ha dato forma Kant: "I soli oggetti di una ragion pratica sono il bene e il M. Col primo s'intende un oggetto necessario della facoltà di desiderare, col secondo (...) di abborrire. ma entrambi secondo il solo principio della ragione" (C. R. Pr . cap. 2). diversi da piacevole e doloroso, propri della "facoltà di desiderare inferiore", ma esiste il M. radicale.

MANICHEISMO (siriaco Mani havya=Mani il vivente) Religione fondata da Mani (216-277 d. C. Principe persiano - che si proclamò Paracleto, ossia colui che porta il cristianesimo alla perfezione e per una rivelazione si convertì a una rigida regola di vita, con attività missionaria in Oriente fino in Egitto contro buddhismo e mazdeismo - con elementi gnostici, cristiani e orientali fondati sulla religione di Zarathustra. il cui dualismo è tra principio del Bene e del Male (o della luce e delle tenebre), che nell'uomo significa tra due anime, una corporea, l'altra luminosa, raggiungibile con l'ascesi dei tre sigilli, data dall'astensione da: cibo animale e discorsi impuri, proprietà e lavoro, matrimonio, concubinaggio e qualsiasi attività sessuale. In un momento anteriore i due princìni esistono separati, nell'intermedio le Tenebre hanno invaso la Luce, nel terzo si ha il definitivo trionfo della Luce e la liberazione dell'anima-luce dal mondo fisico creato dalle Tenebre. Scopo dell'uomo è liberare l'io divino dall'io demoniaco, raggiungibile da pochi, da cui una rigida gerarchia tra eletti, organizzati in cinque gradi (il massimo è quello del supremo pontefice-maestro), e semplici fedeli. Il M., perseguitato in Persia, e contro cui Agostino scrisse numerose opere, fu presente in Occidente sino al VII secolo e si diffuse in Asia e Africa. Gli scritti di Mani, in iranico, furono tradotti in diverse lingue, tra cui il "dialetto manicheo", varietà dell'aramaico orientale. Dopo la conquista araba, gli Omayyadi (secoli VII-VIII) lo videro con favore, favore che diminuì con gli Abbasidi. La diaspora del M. iniziò nel secolo X. mentre in Estremo Oriente se ne ebbe la presenza sino al secolo XII. In Bulgaria, nella Francia meridionale e in Italia ci fu una profonda vicinanza con, rispettivamente, i bogomili e i catari tra XII e XIII secolo.

  

METODO Insieme di regole implicite o esplicite, ossia come procedimento d'indagine razionale, riproducibile e autocorreggibile. per lo svolgimento di un'attività in modo ottimale, sia essa una prassi collettiva complessa (ad es. il M. democratico) sia essa una ricerca o una tecnica scientifica teorica o sperimentale, che, come sottolinea più volte Cartesio, tutte hanno un M. (ad es.: il M. hegeliano, il M. dialettico, il M. sillogistico. il M. geometrico, il M. sperimentale). Il problema del M. è da sempre connesso con quello della certezza della conoscenza: Socrate afferma che la ricerca, come ogni altra arte, deve conformarsi a regole, dal momento che la sua validità e quella dei suoi risultati sono legate al modo in cui è conseguita e raggiunta. Sia il M. maieutico di Socrate che il M. dialettico di Platone sono vólti a evitare l'errore, e specie il pregiudizio (Platone da prescrizioni negative o "igieniche"), per cui hanno anche istruzioni positive, o regole euristiche. Negative sono le regole di Bacone contro gli ìdola e la prima e quarta regola di Cartesio. Positive sono poi le tavole di presenza e assenza sempre in Bacone e la seconda e quarta regola di Cartesio. A modello è stata presa la geometria esposta negli Elementi di Euclide (M. geometrico) e, dal XVI secolo, la fisica classica di Galilei e Newton, in particolare meccanica, come M. sperimentale fatto di ipotesi e loro verifica con l'esperienza, mentre il M. ipotetico-deduttivo vuole sommare gli aspetti positivi di ambedue. In età contemporanea, sia il M. geometrico che quello sperimentale hanno acceso dibattiti: Hilbert, con la sua scuola, voleva rendere rigoroso il primo con la costruzione di due discipline logico-matematiche: l'assiomatica e la teoria della dimostrazione. Popper (Conoscenza oggettiva, 1972) sostituì per il secondo al concetto di verificazione quello di falsificazione, secondo cui una teoria è sempre falsificabile fino a prova contraria, per cui i neopositivisti invitano la scienza sperimentale a produrre quante più conferme empiriche possibili delle ipotesi. Lakatos, allievo di Popper (Critica e crescita della conoscenza. 1970), afferma che le falsificazioni producono in genere riformulazioni più precise delle ipotesi, complesse e non riducibili a semplici regole o dotate di regole complesse. Kuhn, che parla di rivoluzioni scientifiche, mostra che il presentarsi di una teoria nuova all'interno di una scienza determina o l'assorbimento di essa nella tradizione del vecchio paradigma o il distacco dal vecchio e l'apparire di un nuovo paradigma, e Feyerabend, sulla scia di Lakatos, nega ogni valore al M., che sarebbe il modo con cui la vecchia scienza ostacola la nuova coi suoi pregiudizi.

 

MISTICA (lai mìslicus. a um~ appartenente al culto segreto) Ogni dottrina della teologia che affermi la possibilità di una comunicazione diretta tra l'uomo e Dio o in genere l'esperienza del trascendente. In Occidente, nel V secolo Dionigi l'Areopagita. ispirandosi al neoplatonismo di Proclo e prima di lui di Piotino, con tracce di credenze orientali (induismo, tantrismo e buddhismo sono altrettanti tentativi di M.), insiste, usando per la prima volta la parola M., sia sull'impossibilità di una comunicazione coi mezzi ordinari del sapere umano, che definiscono Dio negativamente (teologia negativa), sia sul rapporto originario e intimo in virtù del quale l'uomo mio ritornare a Dio con un atto supremo, l'estasi o deificazione dell'uomo, intesa come liberazione dal male e salvezza. Alcune correnti della M. medievale distinguono fede e ragione, cioè M. e speculazione, come nel XTT sec. Bernardo di Chiaravalle. mentre altri, come i Vittorini (Ugo. Riccardo) danno vita alla M. speculativa, sintesi tra teologia e mistica, in tre gradi progressivi, divenuti classici: verso la natura. le facoltà intcriori, la contemplazione dell'Assoluto, poi immessi da S. Ronaventura nt\VJlinerarium mentiti in Deian. Per Bonaventura il pensiero vede le cose nel loro ordine oggettivo (T grado) e nell'apprensione che ne ha l'anima (TT grado), medita sull'immagine di Dio nei poteri naturali dell'anima, memoria, intelletto e volontà (TTT grado) e nei poteri che l'anima conquista in virtù delle tre virtù teologali, fede, speranza e carità (TV grado), contempla rivolgendosi a Dio nel suo essere (V grado) e nella sua massima potenza, il bene (VT grado), per cui la ricerca dell'ascesa M. ha tradizionalmente tre gradi progressivi, divisi a loro volta in due. che giunti all'ascesi sono sette: pensiero o cnpilatio (le immagini dell'esterno come orma di Dio), la meditazione intcriore o meditatio che guarda all'immagine di Dio. e la contemplazione o contemplatici che si rivolge a Dio stesso.

 

MOLTEPLICITÀ (lat. multitudo) I "molti" in contrapposto all'"uno", che già suscitavano discussioni nel IV sec. a. C., come testimonia Platone, per il quale il vero concetto di M. non è quello della dispersione senza limite, ma quello del numero, che è al tempo stesso uno e molti in quanto ordine di una determinata M. Per Kant la M. è la "materia" della conoscenza nel suo stato disordinato e grezzo, ossia prima che essa riceva ordine e unità dalle forme a priori della sensibilità e dell'intelletto (Cr. R. Pura, § 1).

  

MORALITA', termine impiegato spesso come sinonimo di etica, ma ad esso talvolta contrapposlo in accezioni fìlosofiche particolari. Nell'uso contemporaneo, moralità può indicare i] fenomeno concreto della morale, sìa come insieme di istituzioni descrittivamente detcrminate (sul piano storico, sociologico e antropologico), sia come esperienza morale ordinaria, di cui l'etica costituisce lo studio sul piano fiJosofico e riflessivo. Nell'accezione peculiare di G. W. F. Hegel, la moralità (Moralitat) o un momento della forma di vita etica caratteri//;:) i a dalla pura possibilità e obbigazione intcriore dell'individuo e viene contrapposta all'eticità* (Sittlichkeìt) in quanto realizzazione concreta di costumi morali nella famiglia, nella società e nello slato. Un altro uso, che si deve al filosofo morale inglese tì. Williams, distingue tra moralità, in quanto sistema etico peculiarmente moderno e caratterizzato dal concetto kantiano di obbigazione, ed etica concepita come un modello generale di condotta più ampio e comprensivo del modello kantiano, tipico ad es. della riflessione morale antica.

 

 

NOUMENO Ciò che è oggetto di un pensiero possibile. In Platone, che afferma: "Se intellezione e opinione vera sono due cose diverse, allora ci saranno senza dubbio enti che, quantunque non siano sensibili per noi, sono soltanto pensati" (Tìm.), La M. indica la specie intellegibile o l'idea, ciò che non cade nel dominio dell'apparenza "visibile e tangibile", ma che si coglie solo con il ragionamento (Repub., Tim.). Ma la distinzione fenomeno-N. è di Sesto Empirico: "Lo scetticismo è la capacità di contrapporre fenomeni e noumeni in qualsiasi modo", ove i fenomeni sono i dati di senso e i noumeni i contenuti di pensiero. Per gli Stoici "La comprensione si produce o con la sensazione e allora è comprensione di cose bianche o nere o ruvide o lisce o col ragionamento e allora è comprensione di nessi dimostrativi come quando si dimostra che gli dèi esistono e che esercitano la provvidenza. Delle cose pensate invece alcune sono pensate secondo l'occasione, altre secondo la somiglianzà, altre secondo la composizione e altre secondo contrarietà" (Diog. L.). E' Kant però, nella Dissertazione De mundis sehsibilis et intellegibilis forma et principii (1770), a riportare in auge tale distinzione: "L'oggetto della sensibilità è il sensibile; ciò che non contiene nulla che non possa essere conosciuto dall'intelligenza è l'intellegibile. Il primo dalle scuole degli antichi era detto fenomeno, il secondo N.” . Per Kant vi è un significato positivo e uno negativo di N.: il primo è l'oggetto di un'intuizione puramente intellettuale, il secondo la pura negazione di ogni determinazione sensibile (Critica della Ragion Pura, App. all'Analitica trascendentale), per cui il concetto di N. è "problematico" e designa un "limite": non contiene contraddizione ma non può trovar corrispondenza in alcuna verità conosciuta: è in sede pratica che il concetto di N. trova legittima applicazione, in quanto concetto che designa la volontà libera (causa noumenon). Il termine N. è usato anche da Schopenhauer per indicare la "volontà" cieca, universale e assoluta, essenza reale del mondo illusorio delle rappresentazioni fenomeniche.

 

 

OLIGARCHIA/FORME DI GOVERNO  La distinzione delle tre forme di governo (di uno solo, di pochi, di tutti) è riportata da Erodoto sulla base di antiche nozioni di saggezza popolare. Platone nella Repubblica poneva al di sopra di questa classificazione lo Stato idealmente perfetto, l'aristocrazia o governo dei filosofi, la cui prima degenerazione è la timocrazia, o governo dell'onore, che si ha quando i governanti si appropriano di terre e case, mentre la seconda è l'O., governo fondato sul censo (Rep.). Nel Politico Piatone, più sistematicamente, si rifece alla distinzione di Erodoto tra governo di uno solo, di pochi, e di molti, forme di governo che, a seconda che siano rette da leggi o prive di leggi, danno luogo rispettivamente al governo regio o alla tirannide, all'aristocrazia o all'oligarchia, alla democrazia retta da leggi o a quella che ne è priva, la demagogia (Pol.). Aristotele, che riprese questa classificazione, distinse due forme fondamentali: "la democrazia quando i liberi governano e l'oligarchia quando governano i ricchi e in genere quando i liberi sono molti e i ricchi pochi". Nel Medioevo e nel Rinascimento divenne tradizionale la classificazione triadica. Bodin distinse tra Stato e governo, l'uno che possiede la sovranità, l'altro che la esercita attraverso il suo apparato (Six livres de la République). L'esperienza storica del mondo moderno e contemporaneo ha mostrato come la libertà e il benessere dei cittadini non dipenda dalla forma di governo ma dalla parte che i governi fanno ai cittadini nella formazione della volontà statale e dalla prontezza con cui sono in grado di modificare e rettificare i loro indirizzi politici e le loro tecniche amministrative. Nella moderna teoria politica generale è rimasta la distinzione di Erodoto, ma non più come problema effettivo della teoria e della pratica politica.

 

PAGANESIMO  Nell'antichità classica latina, il termine pagano era contrapposto a militare col significato di borghese. Secondo alcuni storici perciò, pagano era chiamato chi, considerati i cristiani soldati dell'esercito spirituale di Cristo, non riconosceva tale militanza. Secondo altri, pagano, o anche abitante dei villaggi, andò a indicare, dopo la diffusione del cristianesimo al tempo dell'editto di Costantino (313) prima nei centri abitati dotati di più intensa vita culturale e circolazione delle idee poi nelle campagne tradizionalmente arretrate, coloro che resistevano al nuovo verbo predicato dagli Apostoli e dai loro successori rimanendo fedeli alla religione tradizionale. P. è perciò negativamente (poiché non ha carattere positivo che lo determini come religione precisa) l'insieme delle religioni diverse da quella cristiana e precedenti la sua nascita, tranne l'ebraismo di cui il cristianesimo è la continuazione, ma in seguito designò anche la religione musulmana e i suoi fedeli, detti però comunemente infedeli per l'egemonia politico-culturale della fede cristiana nella prospettiva dell'Occidente. Talora si è parlato da parte cattolica di nuovo P. per bollare la società laica come dimentica dei valori cristiani e dedita a valori materiali quali edonismo utilitarismo e consumismo, tacendone i valori spirituali di tolleranza e responsabilità, progresso e pluralismo, allargamento del diritto e delle libertà.

 

PARUSIA (in gr. = presenza, arrivo) II termine ha due significati: 1) filosofico: Platone indica con P. uno dei due modi in cui le idee si rapportano alle cose sensibili, l'altro è la partecipazione (Fedone); 2) religioso: nella teologia neotestamentaria, l'atteso ritorno di Cristo e del suo regno sulla terra alla fine della storia. Sul fondamento del testo dell'Apocalisse alcune comunità cristiane delle origini lo ritenevano imminente, ancorché impossibile da datare e circostanziare perché soggetto all'imperscrutabile disegno di Dio, ma le aspettative deluse lo hanno detemporalizzato e fatto coincidere in seguito col giudizio universale. Circoli minoritari fedeli all'esegesi letterale del testo identificano la P. col millennio, periodo metastorico in cui Satana sarà incatenato per l'avvento del Regno (millenarismo) e in cui si realizzeranno i nuovi cieli e la nuova terra, la materia sarà incorruttibile e ogni anima si ricongiungerà al corpo.

 

PERSONALISMO (lat. persona=condizione, grado, autorità, funzione d'un individuo) Movimento filosofico sia laico che cristiano che considera la persona come principio ontologico fondamentale dotato di dignità e valore, in quattro diverse direzioni: 1) teologica: per i romantici Schleiermacher e Goethe, e per Feuerbach, in polemica col panteismo assolutistico dell'idealismo tedesco, Dio è persona distinta dal mondo e sua causa creatrice; 2) metafisica: nella discussione contro J. Royce dell'idealismo assoluto “The Conception of God” (1897), G. H. Howison per primo chiama P. la teoria che il mondo sia costituito da un insieme di spiriti finiti autonomi ma retti da un ordine ideale di cui Dio è il centro trascendente. Renouvier (“Le personnalisme”, 1903), in polemica anche col positivismo naturalistico francese, sgancia dal cattolicesimo gli elementi teologici del P. inserendoli in un orizzonte laico, influenzando W. James. Negli USA infatti, oltre Royce, l'idealista W. E. Hocking e la Riv. The Personalist (Los Angeles, 1919), che però ruppe coll'idealismo, difesero, come spiritualismo monadologico di tipo leibiniziano-lotziano, il P. pluralistico di Howison intendendolo come lotta contro il male. Nell'esistenzialismo religioso di Marcel e N. Berdjaev il P. riprende la polemica di Kierkegaard contro Hegel sul concetto di individuo, influenzando 3) etico-politica: il P. sociale della Riv. Esprit (1932) e di Mounier (Le personnalisme, 1950) - che diede vita al movimento cattolico del P. metafisico -, preceduto da E. Duhring (Geschichte der NationalOkonomie, 1899) insiste, rifacendosi a Marx, sulla solidarietà comunitaria contro la visione della persona sia come individuo (idealismo) che come numero (collettivismo). 4) ontologica: Pareyson fa coincidere nella persona auto e eterorelazione, considerandola originariamente aperta contro l'intimismo spiritualistico.

 

PIACERE (lat. Voluptas) P. e dolore sono gli estremi fondamentali di qualsiasi forma di emozione o sentimento, temporanei rispetto alla costanza della felicità. Nel divario tra individualismo crescente e tradizionali valori religiosi del mondo greco, Socrate identificò il P. con l'arete' (virtus latina). Per i cirenaici P. e dolore sono due movimenti, uno calmo l'altro aspro, di cui il saggio accoglie il primo senza farsene possedere, che sarebbe passione (che genera dolore); ma Egesia disse che vero piacere è assenza di sensazioni e vero bene è la morte. L'ascetismo di Piatone esalta l'anima in opposizione al corpo (Gorgia, Fedone), ma egli riconosce che il P. è connesso positivamente all'attività delle tre anime (concupiscibile, irascibile, razionale) sicché conviene mediare tra intelligenza e soddisfazione corporea: è la ragione che deve governare il P., che solo se spirituale è puro: durevole e non frammisto a dolore (Repubblica, Leggi); forse mediando, nella polemica sorta nell'Accademia (cui partecipò il giovane Aristotele), egli disse il P. armonia naturale (Filebo). Per Aristotele il P., né movimento né dato naturale, è l'esperienza soggettiva della perfezione oggettiva che accompagna e conclude lo sviluppo di un'attività come potenzialità espressa, "l'atto di un abito che è conforme a natura" (Et. Nic., VII, 12, 1153 a 14), ove "abito" significa disposizione costante sia sensibile che non sensibile: ogni attività genera un piacere naturale, sicché bisogna tendere a quelle teoretico-contemplative, che danno P. buoni, diversi da quelli della vita vegetativo-sensibile e connessi con la massima felicità. Epicuro dà la prima definizione del P. in rapporto al bisogno, come movimento istantaneo in cui il bisogno viene soddisfatto e la mancanza colmata (Epistola a Meneceo, 128); ma continuò a considerare felicità autentica la condizione stabile di assenza di bisogni e desideri dell'anima e del corpo. La tendenza platonico-ascetica della filosofia cristiana a condannare il P. sensibile fu contrastata sia dalle sette ereticali medievali sia dalla Scolastica a indirizzo aristotelico. Nell'Umanesimo, Valla (De voluptate, 1432) esaltò il P. quale movente delle azioni, sintetizzando etica cristiana originaria e etica epicurea. Nel Rinascimento questa prevalse: nel naturalismo di Telesio, ove il P. è funzione di conservazione dell'organismo (De rer. nat., IX, 2), e in Montaigne, Gassendi, Hobbes. Per Cartesio la gioia, tra le sei fondamentali, è "l'emozione piacevole dell'anima nella quale consiste il godimento del bene" (Passions de l'àme, § 91). Per Spinoza è "la passione per la quale la mente sale a una perfezione maggiore" (Et., Ili, 11). Per Nietzsche è "sensazione di un accrescimento di potenza" (Wille zur Macht, § 660). Per Schopenhauer è cessazione del dolore e conosciuto solo dopo questo (Die Welt, I, § 58). Per Freud uno dei due princìpi della psiche, l'altro quello di realtà.

 

PIETISMO (lat. pius=pio, che compie il proprio dovere, pietas=sentimento religioso del dovere verso Dio, devozione, pietà) Corrente religiosa protestante fondata nel XVII sec. in Germania, e diffusasi nel XVIII nell'Europa settentrionale, dall'alsaziano Ph. J. Spener (1635-1705) in reazione all'ortodossia, giudicata irrigidita e sclerotica nella pratica (sia dei singoli sia del culto) come nella interpretazione teologica, per un ritorno alla purezza delle tesi originarie della Riforma luterana e a un cristianesimo attivo, religione del cuore (rigorosa, permeata appunto di pietas e interessata più alla santificazione che alla giustificazione, più alla vita interiore che alle opere) da contrapporre alla religione della mente. Spener, di formazione spirituale complessa, venne pastore a Francoforte sul Meno, ove istituì i collegio pietatis, riunioni di cristiani finalizzate allo studio e alla riflessione sul Nuovo Testamento per la crescita spirituale della coscienza e lo scambio di esperienze intcriori, anche soprannaturali, che seguiva l'esame di coscienza e la mutua esortazione. Del 1675 sono i Pia Desiderio, ovvero Viva aspirazione a un miglioramento a Dio gradito della vera chiesa evangelica (cui seguirono opere contro il gioco, il teatro, la danza), in cui Spener denuncia i mali della Chiesa luterana (mondanità e ingiusta distribuzione della ricchezza, spirito polemico e rigidità intellettuale, fede falsata e oppressione del credente) e vi contrappone a rimedio sei pii desideri: ampia diffusione dello studio dei sacri testi, sacerdozio universale aperto ai laici, conoscenza della dottrina coniugata alla pratica della virtù, rinuncia alla polemica, interesse dei giovani teologi alla salvezza oltre che allo studio, predicazione sulla figura dell'uomo nuovo. L'influenza di Spener, chiamato predicatore alla corte di Dresda e parroco a Berlino, si estese alla nuova università di Halle (1694), che divenne centro del P. tedesco soprattutto dopo che il pedagogista A. H. Francke (1663-1727), di lui seguace, formò un'intera generazione di teologi (che poi fondarono numerose comunità pietiste, durate sino a metà '800, specie in Slesia) anche con un severo cammino spirituale che dal pentimento-conversione iniziale, passando per l'intervento miracoloso della grazia, si conclude con la rinascita. Francke istituì a Halle e a Glauche scuole, orfanotrofi, laboratori artigianali, case di riposo, centri di diffusione della Bibbia e missioni per l'evangelizzazione. L'influenza del P. è enorme nella cultura tedesca: nella musica (Schultz, Haendel, Bach), nella letteratura (Schiller, Goethe, Novalis), nella filosofia (Rousseau, Kierkegaaard), e a sua volta vi si ritrovano influenze molteplici: la mistica tedesca (Taulero), luterana (J. Bohme), cristiana orientale (esicasmo) e ebraica (sabbatianismo, chassidismo), la spiritualità cattolica (A. Gagliardi, Breve compendio di perfezione cristiana)., l'esoterismo (Rosacroce).

 

POPULISMO (lat. populus=popolo) Variegato e diffuso movimento politico-culturale russo (idee, correnti, società segrete) della prima metà del XIX sec. durato sino al XX con attività di predicazione, educazione, affiliazione, complotto, insurrezionale e rivoluzionaria (soprattutto tra il 1848 e il 1881) contro lo zarismo per l'istituzione delle libertà costituzionali (già nel dicembre 1825 P. Pestel, alla testa di ufficiali e reparti dell'esercito, chiese la Costituzione profittando della confusione seguita alla morte di Alessandro I e all'abdicazione dell'erede Costantino a favore del fratello Nicola, ma fallì determinando l'impiccagione dei decabristi). Il P. era diviso in due correnti: slavofili, contrari alla civiltà occidentale, corrotta e decrepita, individualista e atea, urbanizzata e industrializzata, cui essi contrapponevano i valori del giovane popolo russo: umiltà e pazienza, ortodossia religiosa e senso della fratellanza, e collettivismo agricolo come via russa al socialismo; e occidentalizzanti, che condividevano coi primi i temi politici del socialismo russo, ma contro il loro conservatorismo erano aperti alle idee occidentali, assorbite durante l'esilio (A. I. Herzen dalla Riv. "Kolokol", "La campana", lanciò la parola d'ordine "narod", "Verso il popolo") o, dai giovani, negli anni di studio all'estero. Il problema della terra provocò la scissione in diverse correnti, che nel 1879 diede vita al gruppo Narodnaja Volja (Libertà del popolo), votato alle libertà costituzionali e responsabile il I marzo 1881 dell'uccisione di Alessandro II: fu l'inizio della fine del P., che da allora dovè fare i conti non solo con la polizia, ma anche con la diffusione delle idee della socialdemocrazia marxista, erede delle idee occidentalizzanti, e del capitalismo. Il dibattito è contro lo slavofilo N. K. Michajlovskij, che all'interpretazione oggettiva della storia e della sociologia, alla classe protagonista della storia e alle leggi del capitalismo estese alla Russia che implicano la nascita della classe operaia come testa del movimento rivoluzionario oppone il soggettivismo populista, il mito dell'eroe e la svalutazione della folla. Il leninismo assorbirà comunque i temi della via peculiare russa al socialismo, del volontarismo, dell'alleanza coi contadini. Il clima populista influenzò la letteratura russa, dal momento che il P. è un fenomeno nato nell'ambiente aristocratico dell'intellighenzia russa, per cui la narrativa "sociale" è incentrata, sullo sfondo della povertà socioculturale della massa contadina, sulla figura dell'eroe aristocratico, colto ma isolato perché "uomo inutile, di troppo": temi populisti sono presenti in Anime morte (1842) di Gogol', Povera gente di Dostoevskij (pubblicato su "Raccolta pietroburghese" nel 1846), in L. N. Tolstoj e nel primo Checov, mentre la rottura con la tradizione aristocratica è in Padri e figli (1862) di Turgenev, Che fare? (1863) di Cernisevskij, Legami non spezzati e La potenza della terra (1882) di Uspenskij.

 

POSTULATO  Nel procedimento matematico, in cui è nata, come in quello filosofìco, in cui è stata introdotta da Aristotele, o in quello scientifico in genere, proposizione passibile di dimostrazione ma assunta come vera senza dimostrazione come proposizione iniziale di una dimostrazione che deriva da essa. Tutti i procedimenti scientifici assumono come P. da cui partire per l'argomentazione, esplicitamente o implicitamente, proposizioni che in altri precedenti procedimenti scientifici costituivano i risultati ultimi di una teoria o di una dimostrazione. Aristotele distingue il P. dall'assioma, di per sé evidente e necessario anche se non dimostrabile (Euclide inserì negli Elementi tale distinzione, venuta meno nella logica e nella matematica moderne). Inoltre esso, non creduto vero da chi segue la dimostrazione, differisce dall'ipotesi, anch'essa dimostrabile ma creduta vera (An. Post., 10, 76 b 24 sgg.). Per Kant P. del pensiero empirico sono i principi a priori che corrispondono alle categorie della modalità, per cui le intuizioni pure e le categorie, che si accordano con le condizioni formali dell'esperienza, sono possibili; le sensazioni, che si accordano con le condizioni materiali, sono reali; mentre è o esiste necessariamente ciò la cui connessione con la realtà è determinato secondo le condizioni universali dell'esperienza (Cr. R. Pura, Analitica dei Principi, cap. II, 4). P. della ragion pratica sono invece le condizioni che rendono possibile la moralità: libertà, immortalità, Dio (Cr. R. Pratica, Dialettica, sez. II).

 

PROGRESSO (lat. progressus, da progredi=andare avanti, avanzare) Idea che dà luogo a concezioni, sia laiche sia religiose, per cui la storia universale procede secondo un razionale avanzamento unidirezionale che tende verso un miglioramento usque ad finem in ogni campo naturale e culturale, ma soprattutto nella storia umana, sia spirituale che materiale, e nella scienza: in questo senso l'idea si affermò nelle filosofie della storia del XVIII e XIX sec. soprattutto in Francia, con Illuminismo e Positivismo, e in Germania, con la filosofia classica tedesca, ma è già presente nella religione cristiana. Dopo i cenni degli Stoici, medievali (Bernardo di Chartres: metafora dei contemporanei come nani sulle spalle dei giganti), rinascimentali (Bruno, Cena de le ceneri), moderni (Bacone, Cartesio, Pascal, Leibniz), l'idea di P. fu concettualizzata a partire dalla querelle des anciens et des modernes: per Fontenelle gli antichi non sono superiori ai moderni, che si avvalgono delle loro scoperte costruendo quelle future in un P. infinito (Digressione sugli antichi e i moderni, 1688); per l'Abbé de Saint-Pierre il P. è non solo conoscitivo ma sociale (Osservazioni sul continuo progresso della ragione universale, 1737). Con Illuminismo e Positivismo francesi l'idea laica di P. si diffuse enormemente (Encyclopèdie, Discorso preliminare: concorso delle arti e delle scienze al miglioramento dell'umanità): per Voltaire la liberazione da superstizione e pregiudizio è condizione del perfezionamento, per Condorcet le società "inferiori" o diverse dall' europea (mito del buon selvaggio), verso cui vi è interesse, rappresentano tappe evolutive precedenti del P. sociale, che subisce un'accelerazione per la diffusione e discussione delle idee e delle conoscenze (Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, 1792), per i fisiocratici vi è P. nel succedersi delle forme di organizzazione socio-economica (caccia-pesca, pastorizia, agricoltura), Turgot (Discorsi, 1756) teorizza le due leggi dell'accelerazione del P. che segue ogni avanzamento dell'umanità e degli stadi evolutivi dello spirito umano (soprannaturale, filosofico, scientifico). Comte delinea la legge dei tre stadi. E' da ricordare la complessità delle filosofie della storia dell'Illuminismo e idealismo tedeschi: Lessing (Educazione del genere umano, 1780), Herder (Idee per una filosofìa della storia dell'umanità, 1784), ma soprattutto Kant (Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784), Fichte (Tratti fondamentali dell'epoca presente, 1806) e Hegel (Lezioni sulla filosofìa della storia, 1837), la cui visione è profondamente religiosa. Contro l'idea di P., cui il darwinismo diede basi scientifiche che Spencer applicò alla storia umana, tra gli altri, Spengler (Il declino dell'Occidente, 1918-22) distingue tra cultura e civiltà, che può avanzare senza che i valori culturali e spirituali progrediscano con essa.

  

PROTESTANTESIMO (dalla "protesta" di prìncipi e città alla dieta di Spira, 1529, contro Carlo V per la condanna di Luterò) Patrimonio di dottrine, istituzioni, correnti e confessioni sviluppatesi dalla Riforma accomunate dalla critica radicale alla Chiesa di Roma per un ripristino del vero cristianesimo secondo la lettera della Bibbia, unica norma di fede, e la grazia di Dio, che sola salva l'uomo: sola fides, sola gratia, solus Christus, sola Scriptum, contro i binomi del cattolicesimo: fede e opere, grazia e responsabilità, Cristo e Chiesa, Scrittura e tradizione. Il P. originario, è diviso in. luteranesimo, zwinglismo, calvinismo, anglicanesimo (fissarono il credo nelle: Confessio augustana, 1530, i luterani; Confessio gallicana, 1559, i calvinisti francesi; Confessio scotica, 1560, quelli scozzesi; Confessio belgica, 1561, quelli dei Paesi Bassi; Trentanove articoli, 1563, gli anglicani), ma dalle dispute teologiche nacquero correnti radicali (anabattisti, spiritualisti, antitrinitari), e scissioni in seno alle stesse confessioni: luterana sul pensiero originario di Luterò circa le opere e la grazia (maioristi, sinergisti, antinomisti, gnesioluterani); calvinista sulla predestinazione in rapporto alla libertà (arminiani di J. Arminius e gomaristi di F. Comar). Il P. liberale del XX sec. (von Harnack), influenzato dall'interpretazione idealistica del cristianesimo e dalla critica razionalistica della Scrittura, radicalizzò il principio del libero esame approdando alla contestazione del cristianesimo come dottrina rivelata, Chiesa e culto (Strauss, Baur, Bauer), diffondendosi in Germania, Olanda, Svezia, Inghilterra, USA, Francia, Svizzera, Italia (G. Luzzi). Contro di esso il XX sec. ha prodotto la rinascita luterana (Holl, Althaus, Gogarten) e la teologia dialettica o della crisi (Barth). Movimenti di risveglio del P. sono il pietismo (v.) tedesco e il metodismo inglese. Nel XIX e XX sec., al predominio calvinista e luterano in Europa si è contrapposto in USA, e nel XVII sec. in Inghilterra, il fiorire di sette o chiese libere (mennoniti, battisti, quaccheri, mormoni, pentecostali, avventisti, fratelli) che al rifiuto dell'organizzazione e del culto dell'ortodossia, e del mondo come opera di Satana, hanno affiancato il battesimo da adulti e lo sviluppo dell'interiorità, e, per la dottrina, il millenarismo, il predestinazionismo, il sincretismo con l'esoterismo orientale, che un'intensa attività missionaria dal XIX sec. ha fatto giungere in Europa. Federazioni di tali chiese, che contrastano la frammentazione, sono: l'Alleanza riformata mondiale (1875) dei calvinisti, la Conferenza metodista mondiale (1881), l'Alleanza battista mondiale (1905), la Federazione luterana mondiale (1923); ma fu la Conferenza missionaria mondiale (1910) e i due organismi "Vita e azione" (1925) e "Fede e costituzione" (1927) a preparare il Consiglio mondiale delle Chiese (1948) con 250 aderenti (tranne Roma), tra cui gli ortodossi d'Oriente.

 

 

RAZZA (secondo G. Contini, fr. antico /zaraz=allevamento di cavalli) Insieme biologico di individui compresi in una stessa specie di cui condividono i caratteri fondamentali ma che sono dotati di particolari caratteristiche, che da somatiche ed ereditarie si fanno essere corrispondenti a psicologiche, che definiscono appunto la R. (concetto, distinto da quello di popolo o nazione, di origine relativamente moderna). La purezza della R. non esiste in nessun individuo, per cui oggi si preferisce il concetto di gruppo etnico o popolazione. Cenni di una distinzione, puramente descrittiva, degli individui in base al colore della pelle, dei capelli e dell'iride si ritrovano già nelle arti figurative degli antichi Egizi (rossi Egizi, neri Etiopi, biondi Libi, gialli e barbuti Asiatici) e, per i caratteri culturali, presso i Greci (Erodoto, Aristotele, Tucidide) e i Latini (Cesare, Tacito, Plinio il Vecchio, Lucrezio), ai quali tutti mancò però il concetto di R. Il Medioevo dimenticò la descrizione realistica a favore di quella romanzata del meraviglioso, ma l'era delle grandi scoperte geografiche e scientifiche, preceduta e seguita dai viaggi dei missionari, segnò il ritorno e l'affinamento della conoscenza antropologica, che da curiosità si fece scienza, sostenuta dalla nascita dell'anatomia, che consentiva una comparazione oltre che culturale fisica. Il XVIII sec. vide l'opera scientifica di Buffon (1707-88), che precorse l'evoluzionismo sostenendo la possibilità della modificazione delle specie ad opera dell'ambiente naturale (Histoire naturelle, 44 voli.), Linneo (1707-78), primo a classificare l'umanità in quattro R. distinte morfologicamente e caratterialmente (Homo americanus, europaeus, asiaticus, asser), e Blumembach (1752-1840), la cui classificazione sistematica in cinque R., ancor oggi valida, considerava anche le differenze anatomiche. Un secolo dopo le scoperte fossili allargarono lo studio alla preistoria, e, tra gli altri, il darwinista Huxley (1825-95) divideva la specie Homo sapiens in: Australoidi, Negroidi, Mongoloidi, Xantocroidi, giudicando le altre R. ibride e secondarie, mentre la scuola francese di cui Cuvier (1769-1832) fu precursore la divideva semplicemente in Bianchi, Gialli, Neri, con scarso interesse per la morfologia. Ma il vero progresso si deve all'italiano Renato Biasutti (1878-1965), che tra il 1906 e il 1912 fece un'indagine sistematica, e sincronica e diacronica, che teneva conto sia della morfologia che dell'habitat, e al tedesco Egon von Eickstedt, che nel 1933 pubblicò, aggiornandolo nel 1937, il più completo e documentato trattato sulle R. umane, poi applicato originalmente da Biasutti.

  

RAZZISMO (secondo G. Contini, fr. antico /wraz=allevamento di cavalli) Dottrina etnocentrica pseudoscientifica, dimostrata errata per l'inesistenza di razze pure primarie e per la selettività ambientale di caratteri ritenuti superiori come il biondismo, che sulla base biologica dell'esistenza di razze diverse della specie umana fa corrispondere a queste differenze fisiche una diversità di destino storico che elegge alcune razze a dominatrici, altre a dominande: gli Indiani e i Persiani chiamavano se stessi Arii, ossia uomini. Scienziati di fama mondiale riuniti dall'UNESCO hanno nel 1950 formulato una "Dichiarazione sulla razza e le differenze razziali" che afferma scientificamente errata la credenza in differenze innate di ordine morale, affettivo o intellettuale tra le razze, che giustifichino la loro difesa anche soltanto attraverso la proibizione più o meno esplicita degli incroci. L'idea di superiorità razziale, presente nella storia delle dottrine politiche e sociologiche sin dalle origini, nel XIX sec. ha preso corpo in diffuse dottrine - anticipate da Boulainvilliers che nell'intento di dare base biologica al potere politico sostenne la discendenza della nobiltà francese dai Franchi conquistatori, al contrario delle altre classi, discendenti dei vinti Gallo-Romani (Essai sur la noblesse de France, 1732, post.) -, che hanno influenzato non solo ideologicamente la politica degli Stati europei e extraeuropei sino a sfociare nelle politiche razziali del XX sec. Il conte de Gobineau dà un'interpretazione razziale della storia: lo sviluppo delle società è legato alla purezza del sangue delle nazioni, la cui decadenza è conseguenza dell'impurità dovuta agli incroci, e perciò immortalità della nazione e purezza della razza sono connesse; in origine c'erano tre razze pure, bianca gialla e nera, e solo la prima, ariana, è creatrice, come "dimostrano" le civiltà indù, egiziana, assira, greca, romana, germanica che da essa derivano (Essai sur l’inegalité des races humaines, 1853-55, 4 voll.). In Germania l'inglese di nascita H. Stewart Chamberlain afferma la quadruplice radice della civiltà occidentale, frutto della razza ariana (la civiltà greca, creatrice di poesia arte e filosofia, la romana, di diritto politica e famiglia, la giudaica, di giudaismo e cristianesimo, e la teutone, generatrice della civiltà coeva), non considerando negativamente gli incroci perché egli, partendo dalla darwiniana selezione del più adatto (cui si rifanno molti autori francesi e tedeschi, sostenuti da ricerche di antropologia fisica e sociologia: v. Vacher de Lapouge, Le selezioni sociali, 1896, L'Ariano, suo ruolo sociale, 1899, Razza e ambiente sociale, 1909), giustifica e la distinzione tra razze superiori e inferiori e la distruzione di queste. Del '900 è la scuola biometrica (Galton e Person); Spengler si ispira a Gobineau per la cultura faustiana o germanica che il popolo tedesco esprime dal 1000 d. C. (// declino dell'Occidente, 1918-20).

  

RELIGIONE (lat. religio=raccolta selezionata di atti e formule rituali, timore degli dèi; da relegare=legare, per Lattanzio e Agostino; da relegere=rileggere, per Cicerone: "Quelli che compivano con accortezza tutti gli atti del culto divino e per così dire li rileggevano attentamente furono detti religiosi da relegere", De nat. deor., II, 28, 72) Fede in un Dio (ma esistono R. atee: il buddismo) estrinsecata in forme pubbliche e collettive cultuali, istituzionali, dottrinali (il cui fulcro, generalmente ritenuto rivelato e racchiuso in libri sacri, costituisce il canone) al fine esplicito di garantire salvezza e moralità dell'uomo. Se si eccettuano tali forme e fini, la determinazione del rapporto tra uomo e divinità è anche della filosofia, che però evita mitologia, rappresentazione e sentimento con la sola teoresi, e distingue tra R. naturale (interiore, individuale, privata) e R. positiva (esteriorizzata e storica). Le R. si distinguono per A) origine (divina, politica, umana) e B) funzione (liberazione dal mondo, verità, moralità). A) L'origine divina o soprannaturale, tipica del Romanticismo, ha pretesa di assolutezza e infinità: per Hegel "Nel concetto della vera R., cioè di quella il cui contenuto è lo Spirito assoluto, è riposto essenzialmente che essa sia rivelata, cioè rivelata da Dio" (Enc., § 564); per Schleiermacher "L'universo è un'attività ininterrotta e ci si rivela in ogni momento. Ogni forma che esso produce (...) è un'azione che esso esercita su di noi; e così accettare ogni cosa particolare come una parte del Tutto, ogni cosa finita come espressione dell'Infinito, in ciò consiste la R." (Red. u. R., 1799, II); per Bergson "Se le somiglianze esteriori tra i mistici cristiani possono dipendere da una comunanza di tradizioni e di insegnamenti, il loro accordo profondo è segno di un'identità di intuizione che si può spiegare più semplicemente con l'esistenza reale dell'essere con cui si credono in comunicazione" (Deux sources, 1932, cap. III). L'origine politica di strategia per il controllo dell'ordine e della moralità in accordo o sostituzione della legge ne annulla il valore intrinseco (Critia, Sesto Empirico, illuminismo, marxismo). L'origine umana e pratica di controllo personale e collettivo dell'esistenza nella sua incertezza fu detta da Hobbes, poi da Hume, Feuerbach e ancora Bergson, che distingue tra R. statica (mirante al controllo) e R. dinamica (misticismo). B) La liberazione dal mondo (nirvana buddista, deificazione mistica)  considera questo come male nella sua totalità o in alcuni aspetti. La garanzia della verità (come quella della moralità) è pretesa di tutte le R.: per Hegel "La filosofia ha i suoi oggetti in comune con la R. perché oggetto di entrambe è la verità, e nel senso altissimo della parola, in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la verità" (Enc., § 1). Per Gentile la R. trova la sua verità solo nella filosofia che risolve Dio nell'atto del pensiero. Per Croce è forma provvisoria e imperfetta della filosofia.

  

REMINISCENZA; (gr, anamnèsi, da anaminésko=ricordo, lat. reminiscentia, da reminisci) La dottrina della R. esposta da Piatone prima nel dialogo "Menone" e poi nel "Fedone", e che riprende il mito della tradizione religiosa orfico-pitasorica della perpetua trasmigrazione delle anime (metempsicòsi, già presente presso gli Egizi), ha lo scopo di affermare l'immortalità dell'anima e la possibilità della conoscenza filosofica e scientifica, ed è strettamente connessa alla teoria platonica del mondo delle idee, come correzione e integrazione del principio euristico (dal ar. heuriskQ=trovo) per cui è mutile indagare ciò che si sa e impossibile ciò che non si sa. La tesi della conoscenza come R.. esposta in forma di digressione nella parte centrale, e sostanziale, del "Metione" (caop, XIII-XXI), dimostra che la conoscenza del Vero è possibile perché l'anima, preesistente al corpo, ha già visto e conosciuto, prima della vita presente, le idee delle cose in sé (nell'lperuranio), dimenticate ad ogni nascita, e quindi, per conoscere, non deve far altro che ricordare quelle forme intellegibili viste originariamente, ritrovando in sé dunque quella verità di cui è già da sempre in possesso. La teoria della R., prima dimostrata razionalmente, viene poi nei "Menone" stesso supportata dal famoso episodio dello schiavo che, sebbene ignorante di geometria, riesce a giungere da se stesso, aiutato dalle domande di Socrate, alla dimostrazione del teorema, poi detto pitagorico dalla Scolastica, secondo il quale il Quadrato costruito «sull'ipotcnusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, che, essendo nel caso specifico uguali, danno forma ad un quadrato dell'ipotcnusa doppio di quello proposto Nella prima parte del "Fedone" (il dialogo platonico per primo strappato all'oblio dal Medioevo cristiano), dove l'argomento della R è preparato e si connette a quello esposto subito prima dei contrari, si dimostra che, poiché non esistono in natura cose perfettamente uguali, la conoscenza proviene non dai sensi, mutevoli e fallaci, ma dalla R., che noi possediamo in modo inconscio, di un mondo soprasensibile di pure essenze eterne e immutabili. Esigenza ontologica ed esigenza etica si fondono nella teoria della R , dal momento che l'anima, mediante le successive vite che attraversa e nel corso di ciascuna, ha il compito di elevarsi in progressivi eradi di illuminazione e perfezione che le dischiudano una visione consapevole del mondo delle essenze via via più completa, che interrompa l'eterno circolo generativo vita-morte-vita, in cui la duplice eternità di passato e futuro si incontra regressivamente e progressivamente nell'attimo della vita presente, per giungere alla beatitudine nel divino mondo invisibile.

  

RETORICA (lat. ars rethorica) Arte dell'eloquenza come disciplina del parlare in pubblico e dello scrivere (la più antica tra quelle del linguaggio), insegnata dall'età classica (in Italia fino al 1859 in corsi superiori tra quelli di grammatica e quelli di filosofia). Nata nel V sec. a. C. in Sicilia nei processi sul diritto di proprietà, si diffonde ad Atene (Empedocle, poi i sofisti). Tecnica della persuasione a carattere pragmatico divisa in tre parti: 1) inventio o ricerca degli argomenti, che l'oratore sceglie in base al tema (quaestio) tra i topoi del discorso, spesso formulati in forma di domanda (quis? quid? ubi? quibus auxiliis? cur? quomodo? Quando) e in seguito riempiti di contenuti (luoghi comuni); 2) dispositio in cui si dispongono gli argomenti in ordine: exordium, con cui l'oratore cerca di conciliarsi l'uditorio (captatio benevolentiae) e mostra il piano dell'argomentazione (partitio), narratio, che racconta i fatti, confermano, in cui l'oratore espone i suoi argomenti e confuta quelli dell'avversario, e epilogus, in cui riassume i passaggi del discorso tentando di commuovere il pubblico; 3) elocutio, in cui l'oratore informa i vari elementi del discorso in figure o ornamenti (colores rhetoricì), molto importanti nella R. posteriore. I discorsi sono divisi in generi: deliberativo, sull'utile e il dannoso; giudiziario, sul giusto e l'ingiusto, mirante a influenzare il giudice nel processo; dimostrativo o epidittico (introdotto da Gorgia), sul bello e il brutto. Platone rifiuta la R. come arte del verosimile che illude e adula (logografia), contrapponendovi la R. filosofica o dialettica (psicagogia), che ha per oggetto il vero in un autentico dialogo con l'altro; al contrario Aristotele, che la avvicina alla dialettica, scienza del verosimile contrapposta alla logica, scienza del necessario, e nella cui R. del ragionamento centrale è l'entimema, sillogismo approssimativo fondato sull'endoxa, l'opinione comune. Cicerone introduce a Roma la R. aristotelica (De inventione oratoria, De oratore, ecc.), Quintiliano scrive il trattato di R. più completo dell'antichità, in 12 libri, sfumando la distinzione aristotelica tra R. (arte del discorso in pubblico) e poetica (comprendente i vari generi della letteratura, tra cui la tragedia) e deviando da lì in poi in senso estetico e letterario la natura pragmatica della R., che diviene arte dello stile. Nel Medioevo il trivium relega la R. tra grammatica e dialectica, il '500 (P. Ramo) connette l’inventio e la dispositio alla dialettica, lasciando alla R. le figure, il '600 (Cartesio) esalta la ragione e l'evidenza screditando la verosimiglianza della R., su cui i trattati fra Rinascimento e Romanticismo abbondano (Du Marsais, 1730, e Fontanier, 1823), distinguendo tra tropi (figure sul significato delle parole) e figure (forma o referente degli enunciati). Oggi teoria del testo e stilistica sono eredi della R. (Ch. Perelman).

  

RIFORMA (dal lat. reformare) Movimento religioso cristiano occidentale del XVI sec. all'origine del protestantesimo, rivolto a un ritomo alla purezza delle origini e che scardinò il predominio, durato 15 secc., della Chiesa di Roma e l'unità della cristianità d'Occidente. L'inizio si fa risalire alla pubblicazione delle 95 tesi di Luterò sulle porte della Cattedrale di Wittenberg il 31 ottobre 1517, ma esse, che esprimevano esigenze presenti in Europa già da un secolo e mezzo (Umanesimo), seguivano una profonda crisi intcriore durata dal 1512, quando Luterò divenne professore di Sacra Scrittura, al 1517, quando ai temi dell'inadeguatezza dell'uomo di fronte all'onnipotenza e imperscrutabilità del giudizio divino ai fini della salvezza e della redenzione dal peccato si unì la critica serrata all'istituzione e all'ingente mercato delle indulgenze creato dall'idea della salvezza per merito e non per predestinazione. Le 95 tesi si incentravano sulla teologia della croce come unica via della salvezza: la fede nel sacrificio di Cristo e il ritorno alla lettera della Bibbia come unici criteri del credente, che può modificare il suo stato di colpa solo per opera divina (giustificazione per fede), e della Chiesa nella sua organizzazione, vista come deformazione del Vangelo, minavano il sacerdozio, la gerarchia, il primato del Papa, indicato come l'Anticristo nella nuova Babilonia, Roma. Il clima in cui esse si inserivano ne fece una scintilla: diffusi fermenti religiosi anche interni alla Chiesa, rivolta contro la sua pressione fiscale sulla nuova imprenditoria borghese europea che vedeva ingenti capitali trasformati in opere e trasferiti a Roma, ambiguità del clero tedesco tra ossequio all'opinione pubblica e alle teorie conciliariste, voce autorevole dell'intellettualità (Erasmo) spinsero Leone X a condannare 41 proposizioni degli scritti di Luterò con la bolla Exsurge Domine (15 giugno 1520), che fece scoppiare il movimento (tra il 1523 e il 1530 si costituirono le Chiese luterane di Germania, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia), nel frattempo disciplinato in ordinamenti dottrinari da Luterò, e portò alla "protesta" alla Dieta di Spira (1529) e alla Confessione augustana (1530), elaborata da Melantone, discepolo di Luterò, e pronunciata alla Dieta di Augusta di fronte a Carlo V Se il luteranesimo si diffuse nel centro-nord Europa, movimenti sorsero in Svizzera e in Francia: Calvino eresse Ginevra a citta-chiesa e rilanciò la R. in un momento di stasi sul tema di Dio più che sulla salvezza, per lui strettamente collegata al mondo laico; Zwingli, predicatore umanista più filosofo che teologo, affermò che male e peccato hanno origine in Dio con la creazione - da cui una rigida predestinazione (ma, contro Luterò, egli contestò la presenza reale di Cristo nell'eucarestia). In Italia, ove si diffuse il nicodemismo, la corte di Ferrara fu centro del calvinismo e Venezia (sede di una comunità tedesca) del luteranesimo.

 

RIGORISMO (dal lat. rigor=rigore) Correnti religiose del XVIII sec. (tra cui Giansenisti e Padri dell'Oratorio) opposero R. a lassismo, intendendo con ciò contrastare costumi morali rilassati. Kant, che intese per rigoristi, secondo l'uso comune, coloro che non ammettono "alcuna neutralità morale né negli atti, né nei caratteri umani", al contrario dei latitudinari (Religion, I, Osservazione), fece suo il principio rigoristico, per cui la dottrina morale kantiana è detta anche R. morale.

 

  

SCRITTURA (lat. scriptum, der. da scriptus, part. pass. di scribere=scrivere) Sistema convenzionale condiviso e potenzialmente infinito (neologismi) di significanti visivi o grafemi (unità minime indivisibili della S.) il cui uso, finalizzato a rappresentare conservare e trasmettere informazioni di carattere concreto o astratto nella comunicazione intersoggettiva (può considerarsi sistema di S. la stenografia, il linguaggio dei computer, il Braille, l'alfabeto Morse), implica, in particolare nel caso delle lingue, l'assunzione della visione del mondo sottesa non solo alla scelta del sistema stesso (lingua madre in rapporto a seconda lingua), ma anche a quella di determinati significanti piuttosto che altri (campo semantico, stile), ed è quindi sempre culturale. De Saussure divide la S. in due tipi: fonetico (S. sillabiche e alfabetiche) e ideografico, che de Courtenay considera direttamente associato a concetti extralinguistici. Il problema dello studio delle S. (alfabetiche o non, storiche e artificiali), la cui disciplina è la grafematica o grammatologia (Gelb prima di Derrida), e il cui scopo è la classificazione delle lingue e delle relative S. (condivisa quella che distingue, in base ai tipi di grafemi e loro combinazioni, tra S. pittografiche, logografiche, logosillabiche, sillabiche e alfabetiche), è evitare il glottocentrismo: l'assunzione che tutte le S. siano sistemi di rappresentazione del solo piano dell'espressione (lingue), il che esclude gli altri sistemi di notazione visiva e convenzionale. La S. risale all'età diluviale, in cui l'uomo disegnava sulla roccia gli animali attribuendogli carattere divino (pittografia), ma l'importanza e il valore della S. come veicolo dello spirito della cosa rappresentata si trova anche presso gli scribi egizi, e poi, scevra dall'immagine ma comunque sempre con un potere arcano e infondente un sacro rispetto, presso tutti i popoli (la magia come la religione attribuisce alla parola scritta valore divino e taumaturgico; i Greci chiamarono "scrittura divina” la S. ideografica egizia, che veniva attribuita al dio Thot, inventore del linguaggio e della magia, e il cui nome popolare era "signore delle parole divine"; in Mesopotamia il chiodo, emblema degli dèi della parola divina e dell'intelligenza Nisaba e Nisrock, fece da base agli ideogrammi della S. cuneiforme sia assiro-babilonese che ugaritica; nel diritto tutt'oggi il documento scritto ha valore di prova). Tutte le S. hanno origine dalle S. ideografiche, proprie delle civiltà del Medio e Estremo Oriente, come dimostrano ancora alcuni segni del nostro alfabeto, come la emme, che simboleggiava il mare con le sue onde, e che si trova anche presso Egizi, Fenici (che ridussero le migliaia di ideogrammi in pochi significanti visivi dalle combinazioni infinite) e Greci (che con l'invenzione delle vocali portarono a compimento il processo di fonetizzazione della S. sillabica iniziato dai Sumeri).

 

SIONISMO (Sion, dall'ebraico Siyyon, nome della collina di Gerusalemme su cui erano fortezza, reggia e parte più antica della città, e per estens. dell'intera città) Sullo sfondo del più generale risveglio delle nazionalità nell'Ottocento europeo, movimento politico-religioso-culturale ebraico mirante alla riappropriazione della terra d'Israele come sede nazionale simbolo concreto dell'identità del popolo ebraico che in quanto patria comune mettesse fine alla sua millenaria diaspora e aspirazione al ritorno nella propria terra (obiettivo raggiunto il 15 maggio 1948 con la proclamazione dello Stato d'Israele, il cui progetto concreto risale al I Congresso sionistico, Basilea 1897, ove erano correnti socialiste, religiose, spirituali, e che pose il problema del rapporto tra la carica utopica e la sua realizzazione concreta). Al S. si oppose l'ebraismo, sia perché ormai assimilato ad altre nazionalità, sia perché ortodosso e dunque tradizionalmente favorevole alla diaspora come elemento essenziale dell'identità ebraica (Joseph Roth, L'ebreo errante).

 

SOFISTICA (dal gr. oo<|>iCTT£cr=sofista, der. di ao<|>iConai=operare, agire, parlare abilmente, ideare, immaginare, escogitare, ingannare, fare ragionamenti caviliosi, lat.sophistica) A rigore il termine Sofista ha due significati: positivo di sapiente o maestro di sapienza, che si rifa all'etimo originario di "parlare abilmente", e negativo, di ideatore di ragionamenti e argomenti ad hoc, per ciò stesso falsi. Storicamente la S. è l'indirizzo filosofico di coloro che nella Grecia del V sec. si definirono Sofisti, offrendosi nell'agorà come educatori e maestri di retorica dietro compenso e inserendosi così nell'antica tradizione pedagogica di poeti, musici, profeti e ginnasti, sebbene con finalità non più miranti a formare alla virtù eroica i rampolli della stirpe nobiliare, bensì a educare il nuovo cittadino della polis, in quanto membro attivo della democrazia, alla aretè intesa non tanto come osservanza della legge quanto come affermazione personale nella vita politico-sociale, da conseguire secondo Ippia tramite il sapere enciclopedico, secondo Gorgia attraverso discipline formali quali la retorica e la dialettica (secondo Prodico la grammatica), atte a evidenziare di un problema gli aspetti più conformi allo scopo che ci si prefigge, secondo Protagora con lo sviluppo di tutte le energie spirituali. Questi Sofisti ebbero in comune con Socrate non solo una nuova attenzione all'uomo e un nuovo concetto di cultura e di sapere, che come paideìa è formazione dell'individuo, la cui superiorità è spirituale e non di nascita, ma anche la credenza nella relatività dei valori di verità e bene, trasformati in opinione e utilità, l'eristica come capacità di sostenere contemporaneamente tesi opposte, e la considerazione che la natura, diversa dalla legge, si basa sul diritto del più forte. I più famosi, attivi prima di Piatone e durante la sua fanciullezza, furono Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia. Ma già allora si condannava della S. l'indagine razionale in campo fisico e morale come fonte di scetticismo religioso, e l'attività mercenaria. Piatone nei dialoghi maturi ha toni aspri verso la seconda generazione di Sofisti (Callide, Antifonte, Trasimaco, Crizia), formata da quei discepoli di Socrate che diffondono una scienza priva di verità riducendo la ricerca filosofica a disputa verbale finalizzata alla ricerca del consenso sociale e politico, e anche per Aristotele la S. è «la sapienza apparente ma non reale» (El. Sof., 1,165a 21),

  

SOGGETTO: (gr. hypokeimenon, lat. subiectum= il sostrato che permane nel variare delle determinazioni) Già a partire da Aristotele il S., nel senso appunto di ciò che soggiace, è riferito all'individuo come ciò che permane, la sostanza, nel variare dei suoi accidenti o attributi. A questo significato ontologico di S. si affianca quello logico-linguistico, che nel giudizio riferisce al S. uno o più predicati, laddove il S. è ciò che, non potendo mai essere predicato, è riferimento di ogni predicazione possibile. Ma è dalla filosofia cristiana in poi, e per tutta la Scolastica, che il concetto di S., che riprende e allarga a tutti gli uomini quello greco e poi romano di saggio, identificandolo con quello di persona portatrice di valori, e in rapporto a Dio, diviene oggetto privilegiato di riflessione e patrimonio culturale di tutto l'Occidente. La filosofia moderna si riconnette viceversa al significato sostanziale di S. in rapporto all'oggetto, proprio già della Scolastica, operando una rivoluzione che, nella centralità della gnoseologia, permarrà nel pensiero occidentale, detto di lì in poi anche "filosofia della coscienza". La res cogitans cartesiana, la sostanza pensante contrapposta alla res extensa, la materia, si riferisce appunto al S. come agente e rappresentante, iniziando quel processo di radicale trasformazione della filosofia tendente a porre al centro della riflessione l'uomo come attività senziente e pensante, come io. Il culmine di tale processo si avrà prima con l'Io penso kantiano, o coscienza trascendentale, distinta da quella empirica o psicologica, poi con l'Idealismo da Fichte a Hegel, che considera la realtà "oggettiva" una creazione del S., sia esso trascendentale o assoluto. Dopo quest'apoteosi del S. identificato con la coscienza, l'età contemporanea opererà un radicale ridimensionamento del concetto, che, inteso dalla critica marxiana come una sovrastruttura, e dall'analisi freudiana allargato all'inconscio, verrà da E. Cassirer visto nella sua progressiva trasformazione da sostanza in funzione, ossia come punto di incrocio e di riferimento di innumerevoli fili (storici, sociali, psicologici, ecc.) che intrecciandosi ne formano la coscienza. Ma nonostante ciò, il concetto di S., anche ridotto a punto di incrocio di infinite linee, rimane dal punto di vista filosofieo oggetto di ricerca privilegiato, proprio in virtù della sua irresolubile ulteriorità rispetto ad esse, che fonda la possibilità non solo di un'etica della responsabilità, ma anche della libertà e della creatività.

 

SPECIE (lat. species=forma esteriore, da specere=gaaTàare, it. are. spezie) In senso ontologico, la S. è l'EiSoo di Piatone come forma della cosa, dotata di realtà autonoma e trascendente, su cui ogni esemplare si modella. Al senso ontologico Aristotele, per il quale forma e materia sono nella cosa separabili solo per astrazione, ne aggiunse così uno logico: la S., in quanto prodotto dell'astrazione di fronte alla concretezza del singolo individuo, è entità puramente logica (ad es., l'animalità o S. animale, cui tutti gli individui, in quanto ammali, appartengono), detta anche predicabile in quanto come concetto generale si dice di un gruppo di individui aventi determinati caratteri in comune che li pongono sotto quel concetto (che più tardi si chiamerà universale dando vita alla famosa questione), distinguendoli come differenza specifica da altri enti che non li posseggono. L'insieme di più S. a loro volta collegate da caratteri comuni è il genere, che come la S. è concetto relativo nel senso che ciò che una volta è S. un'altra può essere genere (ad es. "animale" è S. rispetto a "essere vivente" ma è genere rispetto a "vertebrato"). La S. più semplice, che non ammette alcuna sottoclassificazione, è la S. infima, che comprende sotto di sé enti distinguibili solo numericamente: è la più rigorosa, teorizzata da Porfirio, che definiva la S., in particolare, come «ciò che è predicabile di molti enti, numericamente distinti in linea di essenza» e, in generale, come «ciò che è ordinabile sotto il genere e di cui il genere si predica in ciò che è essenza».   In senso gnoseologie© infine, l'antichità diceva species o apparenze quelle immagini (che per Democrito e la sua scuola erano formate da atomi di materia) che si distaccavano dalle cose e colpivano gli organi di senso del soggetto, ricettivo rispetto ad esse, provocandone la conoscenza (sensibile). E' questa la posizione del realismo ingenuo, che presuppone un dualismo metafisico tra soggetto e oggetto della conoscenza, per cui nel soggetto la sensibilità è una facoltà passiva e ricettiva rispetto alla quale l'oggetto, esterno ad esso, è attivo (ma per Aristotele e la Scolastica anche il soggetto, in quanto reagisce allo stimolo proveniente dall'oggetto, è attivo). A questa posizione si oppongono sia la visione idealistica per cui il soggetto, ed egli solo, è sempre attività, anche quando conosce sensibilmente, dal momento che di esterno al soggetto non vi è nulla, sia quella realistica secondo cui vi è nella conoscenza un rapporto di concrescenza tra soggetto e oggetto, che supera il dualismo che li fa esterni l'uno all'altro ponendo il problema della possibilità del loro rapporto (in questo senso la S. costituisce come immagine o si8o?iov la mediazione tra oggetto e soggetto), e li rende entrambi attivi.

 

SUFFRAGIO (probabilm. composto lat. sub=sotto efragor=ùagOK, in origine usato come "acclamazione") Manifestazione della volontà di un individuo in sede politica come diritto di voto, acquisito per età, censo o titoli culturali a seconda delle norme legislative che lo regolano. Nell'antica Roma il diritto di votare nei comizi prendendo parte attiva nella respublica (ius suffraga) era in origine riservato ai cittadini optimo iure (i plebei vi ebbero accesso progressivamente con l'istituzione di comizi centuriati e tributi) e dato a voce sino al 139 a.C., quando fu espresso con la scritta UR (ufi rogas=sì) oppure A (antiquo=no) o ancora C (condemno). Agli stranieri la civitas cum S. fu concessa dal 381 a.C., quella sine S. dal 338, e ambedue divennero dal IV sec. a.C. strumento governativo atto a favorire una città a scapito dell'altra, con lo scopo di prevenirne o smembrarne la coalizione contro Roma, mentre dopo l'88 a.C. la ed. guerra sociale diede ai sodi Italici il diritto di voto, esteso in età augustea agli abitanti dell'Italia settentrionale, e con il 212 d. C. prima da Caracalla e poi da Antonino (constitutio Antoniniana) ai liberi abitanti dell'Impero iscritti in una comunità. Con la caduta di questo, il S. venne meno sino all'affermarsi degli Stati moderni: in Francia la Rivoluzione teorizzò il S. come diritto di tutti i cittadini, previsto dalla Costituzione del 1793 (mai applicata), mentre in realtà esso fu ristretto per censo e per il sistema indiretto di votazione, e elaborato per la prima volta in vista dell'elezione degli Stati Generali nel 1789, rimanendo per censo nell'età della Restaurazione e con la Costituzione del 1830 (quando, pur allargato, diede vita di fatto a un'oligarchia), per essere istituito come S. universale maschile nel 1848; in Inghilterra è del 1832 la prima riforma elettorale, del 1867 l'abbassamento del censo che estese il numero degli aventi diritto, e del 1884-85 il S. pressoché universale (come in Francia, alle donne fu riconosciuto dopo la I guerra mondiale); in Italia la prima legge elettorale, con S. ristrettissimo per censo e titoli di studio, è quella piemontese del 1848, sottoposta a riforma nel 1882 durante il Regno d'Italia con l'estensione ai cittadini maschi maggiorenni alfabeti in possesso di licenza elementare o con tributo annuo di £. 19,80, mentre nel 1912 si ebbe l'allargamento a tutti i cittadini maschi, sia maggiori di 30 anni senza limitazione, sia minori con alcuni limiti di censo, cultura o servizio militare, e nel 1918 la maggiore età fu portata a 21 anni, e il diritto di voto (che le donne hanno ottenuto solo nel 1948) esteso a tutti i cittadini maschi maggiorenni e ai minorenni combattenti. Oggi non hanno diritto di voto interdetti e inabili mentali, imprenditori falliti e condannati per reati gravi da meno di 5 anni, oltre ai condannati all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e per il voto al Senato l'età minima è di 25 anni.

 

SUFISMO (ar. sw//=veste di pelo di cammello dei primi asceti arabi, lat. moderno Sufismus, coniato nel 1821 dal teologo protestante tedesco F. A. Tholuck, 1799-1877) La più importante corrente della mistica islamica (che in tutto l'Oriente si presenta ricca e contraddittoria), nata tra il VII e il X sec. sulla base di elementi ascetici del Corano quali il senso escatologico della storia che riscatta la precarietà dell'esistenza e la preghiera ripetuta come strumento di rapporto diretto con Dio, chiamato Dhikr nella litania, e a cui abbandonarsi totalmente. La vita monastica informata al S. si incentra sul rifiuto del mondo, il magistero spirituale, il pentimento e l'esame di coscienza, l'abbandono totale a Dio che, anche attraverso la musica e la danza, conduce all'estasi come unione con Dio, avvalorata talvolta da dichiarazioni estreme, come quelle di al-Bistami ("Lode a me") e di Hallag ("Io sono Dio"), da intendere comunque non panteisticamente, bensì nel senso appunto della raggiunta (dal mistico) unità di Dio. Il grande sistematore del misticismo islamico fu al Ghazali, che inserì le esigenze di ricerca spirituale all'interno del tradizionale legalismo religioso. Il dibattito sulle influenze religiose esterne all'islamismo sul S. riconosce l'influsso del monachesimo cristiano siriaco, e in genere del cristianesimo, che secondo Abbagnano diede vita al neoplatonismo di Algazali (XI sec.). Oggi il S. è presente in alcune aree, ma l'individuazione di esso come interlocutore privilegiato, perché considerato di maggior rilievo, del dialogo interreligioso da parte di taluni ambienti cristiani appare errata, vista restrema rigidità teologico-politica dell'islamismo e il deciso rifiuto del S. da parte sciita e di alcune sette islamiche minori.

  

SURA (ar. sura, pi. strwar) II Corano, libro sacro dell'islamismo che Maometto, il Profeta, affermò essergli stato rivelato in arabo direttamente da Allah o tramite l'arcangelo Gabriele in parte alla Mecca e in parte a Medina, è diviso in 114 sure, corrispondenti ai nostri capitoli. La S., formata da versetti o ayat, ha ampiezza variabile a seconda dell'importanza dell'argomento trattato (la più lunga è di 287 versetti, la più breve di 3), ed è preceduta da un titolo che rimanda al tema, seguito dall'indicazione del luogo in cui è stata rivelata (la Mecca o Medina). Come per la Bibbia, anche per il Corano ci sono state innumerevoli stesure e redazioni (i manoscritti più antichi risalgono all'VIII sec. d. C.), spesso discordanti tra loro: la più famosa è quella di Zayd ibn Thabit, che la presentò al califfo Abu Bakr (m. 634 d. C., corrispondente al XIII dell'egira) e fu incaricato dal califfo 'Othaman (m. 644 d. C., XXIII dell'egira) di farne la redazione definitiva, da allora in poi canone dell'islamismo non più modificato.

 

 

TEISMO (gr. teos=dio) Ogni dottrina che affermi l'esistenza di un Dio personale, trascendente e creatore provvidente: in generale in opposizione a ateismo, in senso stretto a deismo e panteismo, come R. Cudworth per primo scrisse nella prefazione a “Il vero sistema intellettuale dell'universo” (1678). Presente nella Patristica, nella Scolastica, nell'età moderna (Malebranche, Berkley, Leibniz), nell'illuminismo (Voltaire lo identifica col deismo nel “Dictionnaire philosophique”, è Kant a fissarne la distinzione dal deismo: "Chi ammette soltanto una teologia trascendentale è detto deista; chi ammette anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette che noi possiamo conoscere con la semplice ragione un Essere originario di cui abbiamo un concetto solo trascendentale, come di un Essere che ha ogni realtà ma che non si può determinare di più. Il secondo afferma che la ragione è in grado di poter determinare di più l'oggetto secondo l'analogia con la natura cioè di poterlo determinare come un Essere che per intelletto e libertà contenga in sé il principio originario di tutte le altre cose. Quello rappresenta questo essere solo come una causa del mondo (rimanendo indeciso se si tratti di una causa che agisca per la necessità della sua natura o per la libertà); questo lo rappresenta come un creatore del mondo (Cr. R. Pura, Dial. Trasc., II, cap. III, sez. 7). Per cui il deista può essere anche panteista e credere in un rapporto necessario tra Dio e il mondo; il teista afferma di Dio, Dio vivente (Cr. del Giud., § 72) e Persona, attributi testimoniati dalla rivelazione e non dalla ragione. Una corrente del T. è il T. speculativo (detto anche tardo idealismo, perché ispirato all'ultimo Schelling, che combatte l'immanentismo di Hegel) del XIX sec. (I. H. Fichte, C. H. Weisse, H. Ulrici), che fa capo alla Riv. Zeitschrift fur Philosophie und spekulative Theologie (1837-48), poi Zeitschrift fur Philosophie und philosophische Kritik (1818-19), in reazione al panteismo logico hegeliano.il T. assolutistico (J. Royce, “ Il concetto di Dio”, 1902) cerca una conciliazione tra l'idealismo hegeliano e il concetto di Dio Persona trascendente, concetto essenziale nel T. o personalismo contemporaneo.Teistica si è definita una corrente dell'esistenzialismo: L. Stefanini, “Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico”, 1952 (anche L. Sestov, N. Berdjaev, G. Marcel), così come, sempre in Italia, Carlini, Guzzo, Sciacca. Nel T. anglosassone troviamo W. E. Hocking (“Meaning of God in human experience”, 1912), A. Seth Pringle-Pattison (“The idea of God in the light of recent philosophy”, 1917), Clement C. J. Webb (“God and Personality”, 1920).

  

TEOCRAZIA (gr. Teos=dio, KpaTos=signoria, impero, potere, comando) Regime politico il cui governo è esercitato dalla casta sacerdotale: T. furono lo Stato ebraico dell'Antico Testamento, lo Stato maomettano, la città-chiesa di Ginevra in età calvinista.

  

TEOGONiA (gr. teos=dio yovia=origine, generazione, genealogia) Mito religioso riguardante la creazione o formazione del mondo da parte di una divinità (Genesi, 1, 2), e talvolta la genealogia di quest'ultima. Secondo diverse religioni, a una fase originaria in cui un essere supremo celeste crea il mondo, succede una fase in cui quest'essere si separa gradatamele dagli uomini e dal mondo, sostituito da una gerarchla di divinità (figli, inviati, emissari inferiori) più vicine all'uomo e che specializzano le funzioni divine di forza e potenza. Ciò rende problematico il significato della creazione poiché si apre il grande tema etico della lotta tra il Bene e il Male per cui il mondo diviene il prodotto di questa sotto-divinità, tema che contrappone le T. positive, che nella creazione vedono il chiaro e razionale ordinarsi dell'indistinto caos originario, alle T. anticosmogoniche, che nella creazione vedono la rottura di un'unità originaria divina: Vedanta e Upanishad indiani, orfismo dell'uovo primordiale, mazdeismo, buddhismo. T. sono presenti già in età paleolitica e neolitica.

 

TEURGIA (gr. xeoupyia=opera divina, miracolo, rito mistico, mistero) Arte magica mediante la quale si ritiene di esercitare un potere sulla divinità, perché si presentifichi temporaneamente in un oggetto (in genere una statua, la cui fabbricazione consiste in un rituale complesso che sottende una teoria mitologica). Nata col neoplatonismo come espressione della religiosità del sistema, la T. era fondata sulla conoscenza (gnosi) della vera essenza della divinità, espressa nel suo puro nome: ammessa da Porfirio, fu Giuliano il Caldeo (II. sec. d. C.), presunto autore degli Oracoli Caldaici, il primo a definirsi teurgo, mentre Giamblico, che la valorizzò come Proclo (Della tecnica ieratica), considerò la T. al di sopra dell'unione spirituale con Dio o estasi, e vide i suoi riti dotati di valore autonomo al di là di chi li pratica (De Myst. Aegyp., II, 11). Sempre osteggiata dal cristianesimo (Agostino criticò lungamente la T. come attività rivolta indifferentemente ai demoni come agli angeli: Civ. Dei, X, 10 sgg.), la T. è ripresa nel Rinascimento con lo sviluppo delle scienze occulte, mentre poi Kant la considerò illusione fantastica di altri esseri soprasensibili e del potere di influire su di essi, ritenendola, come la teosofia, impossibile a causa dei limiti della ragione.

 

 TIRANNIDE  Forma di governo in cui l'arbitrio di uno o più individui è messo al posto del diritto. Concetto elaborato dai Greci insieme a quello di libera costituzione: Euripide dice in versi: "Non c'è peggior nemico che un tiranno in una città, sotto il quale scompaiono tutte le leggi comuni e uno solo comanda, tenendo in sua mano la legge" (SuppL, II, 429-32). Per Platone la T. è lo sbocco dell'eccessiva libertà in cui talvolta cadono le democrazie: "II popolo fuggendo il fumo, come si suol dire, della servitù sotto un governo di uomini liberi si trova, con la T., caduto nel fuoco della servitù sotto il dispotismo di servi e in cambio di quell'eccessiva e inopportuna libertà, è costretto a vestire la tunica dello schiavo e a soggiacere alla più triste e amara delle servitù, quella d'essere servo dei servi" (Rep., VIII, 569 b-c). Aristotele afferma che la T. raccoglie in sé i mali della democrazia e dell'oligarchia: di quest'ultima ha i fini (la ricchezza come unica condizione in cui si può mantenere la guardia e la vita di lusso, la sfiducia del popolo cui toglie le armi, e il danno a chi è allontanato dalla città e disperso nelle campagne), della prima ha la lotta, e la rovina provocata occultamente o manifestamente e seguita dall'esilio, contro i maggiorenti. Nel Medioevo, mentre Tommaso ritiene che "dalla monarchia se si trasforma in T. segue minor male che da un governo di più ottimati quando si corrompe" (De regimine principum, I, 5), e condanna il tirannicidio affidando alla pazienza dei sudditi la sopportazione della T., Giovanni di Salisbury afferma esplicitamente la liceità del tirannicidio in quanto il tiranno è un ribelle contro la legge, cui sono vincolati tutti, i re come i cittadini (Policraticus, IV, 7). Nei secc. XVI e XVII, a partire dai quali il concetto di T. è divenuto simbolo e pietra di paragone di tutto ciò che il liberalismo condanna, costituendo uno dei temi della retorica rivoluzionaria, monarcomachi e giusnaturalisti ripresero quell'idea: per Bodin "La più notevole differenza tra il re e il tiranno è che il re si conforma alle leggi di natura, il tiranno le calpesta; l'uno coltiva la pietà, la giustizia e la fede, l'altro non ha Dio né fede né legge" (De la République, 1576, II, 4,246), per Locke "Dove la legge finisce, comincia la T., quando la legge sia trasgredita a danno di altri, e chiunque nell'autorità ecceda il potere conferitogli dalla legge e fa uso della forza per compiere nei riguardi dei sudditi ciò che la legge non permette, cessa, in ciò, di essere magistrato e, in quanto delibera senza autorità, ci si può opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi che con la forza viola il diritto altrui" (Two Treatises of Government, II, § 202). Secondo Hobbes invece "coloro che sono contrari a una monarchia la chiamano tirannia" (Leviath., II, 19, 2). Oggi il termine T. è sostituito da assolutismo o totalitarisrno, come regime in cui l'arbitrio individuale è messo al posto della legge e come servitù imposta da servi.

 

TOLLERANZA (lat. tolerantia=T., pazienza) Compito di qualunque autorità gruppo o individuo è il rispetto del principio di T. come norma della libertà di pensiero e azione (di individui o gruppi) ispirata al principio di responsabilità razionale e che non lede la libertà altrui. In senso originario (dello scontro religioso, divenuto in seguito politico), suppone un sistema di credenze assunto come norma, e giudizi negativi verso il tollerato, e indica la mancata repressione di ciò che si ritiene falso o dannoso: nella Grecia antica varie personalità tra cui Socrate furono perseguitate come atee, nella Roma imperiale per la coincidenza di divino e umano nell'imperatore: Paolo, contro le persecuzioni dei primi cristiani, accennò alla possibilità della lealtà politica dei sudditi scissa dalla credenza religiosa (Atti, 24:11-16), ma il cristianesimo divenuto religione di stato dimenticò la lezione, perseguitando i dissenzienti. Con l'Umanesimo (Erasmo, Lefévre d'Etaples) si ha la rivendicazione del principio di T. religiosa con l'argomento etico: la persecuzione è violenza opposta alla carità cristiana, la T. è legata al dovere della fraternità (ripreso da Locke, prima Lett. sulla T., 1689); e con quello cd. latitudinaristico (dal movimento inglese '600esco): le divergenze religiose riguardano non il nucleo razionale della religione, condivisibile sul fondamento della ragione e che conduce all'esperienza religiosa individuale fuori dalle Chiese, ma i punti oscuri e controversi delle dottrine. Ockham, anticipando Kant e l'Illuminismo, afferma, con i diritti e la libertà che a tutti provengono da Dio e che il cristianesimo si è avocato dai tempi dei profeti (De Imperat. et Pontif. potestate, IV, ed. Scholz, II, p. 458), la possibilità di salvarsi anche senza la fede di una Chiesa: "Non è impossibile che Dio ordini che colui che vive secondo i dettami della retta ragione e non creda se non a ciò che la sua ragione naturale concluda che sia da credersi, sia degno di vita eterna. E se Dio così dispone, potrebbe anche salvarsi chi altra guida non ebbe nella vita che la retta ragione" (In Sent.). La Riforma, col proliferare delle sette, rese esplicito e politico (per la diversità delle genti sotto un'unica autorità sovrana) il principio di T.: i sociniani italiani in suo nome rifiutarono la Trinità riprendendo come poi i deisti (Voltaire, Tratt. sulla T., 1763) l'argomento latitudinaristico. Quello politico per cui la T. è un bene e la persecuzione dei dissenzienti è dannosa per lo Stato poiché ve li coalizza contro fu sostenuto da Locke (Sag. sulla T., 1667) come separazione tra Stato, "società di uomini stabilita unicamente per conservare e promuovere i beni civili" (vita, libertà, proprietà), e Chiesa, "libera società di uomini, congiuntisi spontaneamente per servire Dio in pubblico a quel modo che giudicano a Lui più accetto" (Lett. sulla T.), e nell'800 dal liberalismo: J.S.Mill (Sulla libertà, 1859) parla della pressione sociale dell'"opinione pubblica".

 

 

VALORE  In filosofia il V. ha significato in campo morale (assiologìa come logica dei V. e studio razionale del problema dei V., consistente nel problema della coincidenza tra V. assoluto e V. storico e nelle diverse posizioni assunte rispetto a questi V. e al loro rapporto) e pratico (determinazione dell'oggetto privilegiato di scelta). Per Protagora (relativismo etico) ogni uomo è misura di ciò che per lui ha V. Piatone, con la sua unità ideale tra Bene, Vero, Bello, costituisce il fondamento di ogni dottrina ontologico-metafisica dei V. (la Scolastica specificò quei tre V. come trascendentali o modi fondamentali della creazione divina: esse, verum, bonum, Tommaso, De verit.). Gli Stoici intesero i V. gerarchicamente come "ogni contributo a una vita conforme a ragione" (Diog. L., VII, 105) "degno di scelta (selectione dignum)" (Cicerone, De fin): la virtù. Con Kant (distinzione tra essere e dover essere come sfera autonoma di norme e fini dotati di validità, realtà, universalità, oggettività e autonomia) si ha la prima trattazione indipendente del V. come oggetto metaempirico distinto dalla realtà meramente esistente: la via alla filosofia dei V. è aperta (con la rinascita del kantismo di metà '800, Lotze imposta il problema dell'essere valido come guida e struttura della realtà, Microcosmo, 1856-64). Ma per Kant V. è solo il Bene, non anche il Vero e il Bello: l'estensione è dei kantiani e dei neokantiani: Windelband, che contro il soggettivismo psicologistico (Beneke, Meinong, Ehrenfels) afferma lo status metafisico e oggettivo del V. come dover essere (sollen) reale indipendentemente dalla sua realizzazione storica, riconosce anche un V. di verità e un V. di bellezza (Prael., 1884); Rickert, continuatore della scuola del Baden anche lui rifacentesi al kantiano a priori, intende il V. come realtà trascendente (indipendente e indifferente) dotata di senso, che come regno del significato è il tramite tra il regno dei V. e il mondo della realtà che li realizza nella storia (Syst. Philos., 1921), per cui il V. è l'essere perfetto: ha unità, universalità, eternità, contro la molteplicità, particolarità e mutevolezza della storia di cui costituisce la norma di giudizio e di guida. Dopo lo storicismo di Dilthey (v. anche Troeltsch, Meinecke), Weber, contro la trascendenza metafisica neocriticista, parlò di trascendenza normativa e di conflitto dei V., che elimina la validità incondizionata di ciascuno e rende la scelta problematica e situazionale. Di altro tipo l'analisi di Nietzsche che, contro il nichilismo occidentale, vuole un rovesciamento di tutti i V., V. vitali frutto di scelte dettate dalla volontà di potenza (Genealog. der Mor., 1887); e della fenomenologia di Scheler: il V., oggetto vero di origine divina disposto gerarchicamente e inaccessibile all'intelletto, è intuito intenzionalmente, mediante una scelta, col sentimento (Der Formai, in der Eth., 1916).

 

VOCAZIONE  Disposizione d'animo che porta a una scelta esistenziale precisa e improcrastinabile in qualunque ambito di attività, professionale e non, e che orienta tutta la vita coinvolgendo in quella direzione scelte che ne sono apparentemente lontane alla ricerca di un senso complessivo e di un'omogeneità e coerenza esistenziali che producono uno stile o modo di vita precisi anche se non necessariamente riconoscibili e etichettabili. In questo senso, la V. è in stretto rapporto con la gerarchia di valori che un individuo fa propria o produce, consapevolmente o meno, ed è diversa dall'attitudine come inclinazione o disposizione naturale a una determinata attività che non necessariamente trova realizzazione, ma che può anzi essere tralasciata nel corso della vita a livello solo potenziale a vantaggio di altre da sviluppare e coltivare. Nonostante ciò, seguire una V. implica scelte continue spesso dolorose e talvolta conflittuali anche perché contemplano la chiarezza razionale del fine ideale, e la chiarificazione puntuale dei fini e dei mezzi intermedi e pratici, che attraverso la V. si vuole conseguire, anche se spesso la portata di una V. sfugge nelle sue conseguenze ai fini consapevolmente perseguiti. Nel cristianesimo, la V. è la chiamata di Dio alla vita religiosa. Per Paolo, "Chiunque sia chiamato a una V., rimanga in essa" (Ad C or., I, VII, 20). Oggi la V. è studiata in pedagogia, per la sua importanza nella formazione di un individuo inserito armonicamente nella società e per il valore di vero e proprio progresso rispetto alle sue discrasie in campo sia teorico che pratico che spesso hanno le V. a partire dall'ambito in cui si esercitano. In tal senso, figure emblematiche dotate di V., in cui questa per la sua potenza sconfina nella genialità, possono essere considerate sia Mozart che Einstein che Gandhi.

  

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